Descrizione

La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi” - Honorè de Balzac -

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano !" - Isaac Newton -

Contra factum non valet argumentum”

giovedì 21 gennaio 2016

SINCRONICITÀ, MULTIVERSO E SIGNIFICATO DELLA "PERSONA"


ALTRA DIMENSIONE ...
di Francesco Lamendola
per Edicolaweb

«Una mattina d'ottobre del 1829, la goletta australiana Mermaid salpò da Sydney diretta a Collier Bay, nella parte occidentale del continente.

Analisi veramente interessante, al di là del racconto iniziale che è solo introduttivo, in effetti ben poco sappiamo di come sia l'universo, praticamente nulla se non rifacendoci alle antichissime filosofie orientali. Ho trovato la parte  che vedrete in grassetto assolutamente condivisibile: Secondo Leibniz .... (NdR)

Il capitano Samuel Nolbrow era al comando della nave, sulla quale erano imbarcati 18 uomini d'equipaggio e 3 passeggeri. Dopo quattro giorni di navigazione, il "Mermaid" si trovava nel pericolosissimo Stretto di Torres, fra Australia e Nuova Guinea. All'improvviso il barometro cominciò a scendere a precipizio, mentre cupi banchi di nuvole nere si avvicinavano minacciosamente. Poi il vento cadde e la nave si immobilizzò. Prima di mezzanotte, una violenta tempesta si scatenò sulla zona, investendo in pieno la nave, che fu sbattuta contro un banco di coralli e si sfasciò irreparabilmente, nonostante gi sforzi disperati dell'equipaggio. I 21 uomini abbandonarono precipitosamente la nave tuffandosi in mare e raggiunsero a nuoto uno scoglio distante una cinquantina di metri al luogo del disastro. Il capitano vi giunse per ultimo e poté constatare con sollievo che tutti e 21 erano in salvo.
Tre giorni e tre notti trascorsero prima che qualche nave passasse nella zona e si accorgesse dei naufraghi. Finalmente, il quarto giorno, il brigantino "Swiftsure" li avvistò e li raccolse, proseguendo poi il viaggio. Per una strana coincidenza, anche questa nave, cinque giorni dopo, si trovò nel bel mezzo di una violenta corrente non segnata sulle carte e andò a sfasciarsi sugli scogli.
La nave fu abbandonata in fretta e, fortunatamente, anche stavolta tutti riuscirono a mettersi in salvo. La sera stessa del naufragi, si trovò a passare di lì la goletta "Governor Ready", con 32 uomini d'equipaggio, che prestò immediatamente soccorso ai naufraghi, accogliendoli a bordo.
La goletta, un po' appesantita, riprese il viaggio. Circa tre ore dopo, stranissima coincidenza, un incendio violento e improvviso divampò sulla nave, costringendo tutti i passeggeri a calarsi nelle scialuppe di salvataggio. Disgraziatamente, si trovavano a molte miglia al largo della costa e per di più in un punto decisamente fuori mano. C'era di che disperarsi. Ma non passò molto che, improvvisamente, apparve in lontananza il cutter australiano "Comet", sbattuto fuori rotta da una tempesta. La nave rispose prontamente ai segnali di richiamo dei naufraghi. Ma l'accoglienza che questi trovarono a bordo fu piuttosto fredda. Un clima di sospetto, di intolleranza, di superstiziosa diffidenza s'impadronì della nave, sulla quale aleggiava il presentimento di qualche altro disastro. Dopo cinque giorni di navigazione, per un'incredibile coincidenza, una violenta bufera si abbatté sulla nave, danneggiandola irreparabilmente, Fu calata in mare l'unica scialuppa disponibile, e mentre la nave affondava gli uomini degli altri equipaggi non ebbero altra risorsa che lanciarsi in mare alla disperata.
Rimasero a galla, aggrappandosi ai relitti, per 18 interminabili giorni, lottando contro il freddo, la fame e gi squali in agguato. Poi, finalmente, quando erano ormai allo stremo delle forze, furono miracolosamente scorti da una nave postale di passaggio, lo "Jupiter", che li trasse in salvo.
La cosa più inverosimile era che c'erano tutti: in ben quattro naufragi, non una sola persona aveva perso la vita. Ora l'incubo sembrava finito...
Ma la misteriosa forza che sottende il corso degli eventi non era evidentemente ancora sazia, o forse non aveva ancora raggiunto il suo imperscrutabile obiettivo. Fatto sta che, per una... coincidenza, anche lo "Jupiter" andò a sbattere contro uno scoglio e colò a picco. Nella nuova tragedia, forse, le labbra di qualcuno furono sfiorate da un moto di riso al pensiero di questa pazzesca catena di circostanze, che non aveva ormai più nulla di reale.
Per fortuna, vicino al luogo dell'ennesimo naufragio, si trovava la nave passeggeri "City of Leeds" che recuperò la nutrita massa di naufraghi, portandoli poi in salvo a Sydney. Cinque naufragi,uno dietro l'altro: morti, nessuno; feriti, nessuno. Incredibile!
Una semplice coincidenza? Forse, ma ci sono casi in cui sembra davvero che un'oscura entità-guida manovri gli eventi, sottraendoli al caso, per dirigerli intenzionalmente verso fini che appaiono squisitamente umani...» (1).

Ora, da sempre scienza e filosofia hanno adottato, come regola di lavoro, quella di seguire la regola dei fenomeni e di scartare l'eccezione; o, al massimo, di considerare quest'ultima come la conferma della regola stessa.
David Hume faceva notare come, alla base del principio di causa-effetto, vi sia in realtà la forza dell'abitudine: è l'abitudine, cioè l'osservazione di un gran numero di casi uniformi, che ci permette di formulare le cosiddette "leggi" scientifiche o anche, semplicemente, di fare previsioni del tipo: "domani, prima delle sei, il sole si leverà all'orizzonte".
Cosa succederebbe se noi, nel formulare la nostra concezione generale del mondo, lasciassimo stare la norma (che non è altro, appunto, che abitudine) e andassimo a caccia delle eccezioni?
Secondo noi, non tarderemmo ad accorgerci che esse "sono infinitamente più numerose di quanto comunemente si possa immaginare" e che quanto sappiamo del mondo naturale, per non parlare di quello soprannaturale, è veramente pochissimo: come se, raccogliendo qualche briciola caduta dalla mensa, cercassimo di farci un'idea del pranzo sontuoso che è disposto sopra la tavola, ma che noi - strisciando al suolo - non possiamo vedere.
Per parafrasare sir Isaac Newton (proprio lui: uno dei 'padri nobili' del la moderna Rivoluzione scientifica!), come se l'uomo stesse su una spiaggia a raccogliere conchiglie, briciole di conoscenza, mentre il vasto mare dell'ignoto si estende davanti a lui.
Dove vogliamo arrivare con questo ragionamento?
Semplicemente a rovesciare la nostra abituale percezione delle cose e ad ammettere, con Shakespeare, che "vi sono più cose fra cielo e terra di quante ne possa sognare tutta la nostra filosofia" (Amleto, Atto primo).
Dunque, le coincidenze. Sono molto più frequenti di quanto non sembri, anche nella nostra vita quotidiana. Pensiamo a una persona che non vediamo più da anni, ed ecco che quel giorno stesso la incontriamo; cerchiamo un libro che non riusciamo a trovare, ed ecco che ci cade ai piedi della vasta libreria, aperto - guarda caso - alla pagina giusta (episodio riferito da Colin Wilson).
Carl Gustav Jung, da parte sua, era convinto che quelle che noi chiamiamo "coincidenze" fossero, in realtà, qualcosa di molto più complesso e affascinante; egli preferiva parlare di "sincronicità" e pensava che non siano affatto opera del caso, ma che siano il riflesso di un odine superiore, che traluce con fatica nel nostro mondo ordinario e che, tuttavia, vuole significarci "qualcosa", a patto che siamo abbastanza desti per rendercene conto.
Di norma, si può dire che noi viviamo con inserito il "pilota automatico": compiamo una serie di azioni più o meno meccanicamente, ma senza che venga coinvolto il nostro livello coscienziale più profondo. In altre parole, non siamo "veramente" consapevoli di quello che stiamo facendo, e tanto meno di esserci, come quando guidiamo l'automobile, ma lo facciamo in maniera automatica, senza pensarci e tanto meno senza vedere realmente il paesaggio lungo la strada. Inseriamo le marce, rallentiamo acceleriamo, regoliamo la luce dei fari, tutto senza concentrarci a fondo, ma piuttosto come un riflesso condizionato.
Ebbene, anche il resto della nostra vita lo passiamo, di norma, in tal modo: col pilota automatico inserito. Sbrighiamo le nostre faccende ordinarie senza pensare davvero a quello che stiamo facendo, e tanto meno senza pensare a quello che noi "siamo". Quei rari momento in cui ciò avviene - ad esempio, perché stiamo vivendo un momento magico sul piano affettivo - sperimentiamo una intensa sensazione di vitalità e ogni cosa, il canto degli uccelli che giunge dalla finestra aperta, il colore delle nuvole al tramonto, l'ombra dell'albero che si riflette sul muro bianco della casa, tutto questo viene percepito con una forza e con uno splendore assolutamente fuori dall'ordinario.
È allora che mettiamo in funzione l'emisfero destro del nostro cervello, quello della creatività, e vediamo le cose con la profondità e al tempo stesso con la completezza che le rende intimamente significative. L'emisfero sinistro, quello della logica razionale, non sa fare questo: analizza, soppesa, valuta, ma non è in gradi di percepire "il senso complessivo" di quanto percepisce con i cinque sensi, né - a maggior ragione - di quanto si può sperimentare "al di là dei cinque sensi ordinari".

Adesso torniamo all'episodio dei cinque naufragi a catena che abbiamo riportato all'inizio di queste pagine. La percezione ordinaria, la logica analitica dell'emisfero sinistro del nostro cervello non può far altro che parlare di coincidenze, e sia pure straordinarie, e invocare l'amplissimo ventaglio di combinazioni possibili che il calcolo probabilistico dischiude. Bisogna però notare che non solo cinque navi hanno fatto naufragio, una dopo l'altra, mentre trasportavano gli equipaggi naufragati via via che esse andavano a fondo, ma che non si è verificata neppure una perdita umana, anzi neppure un ferimento, nonostante le tempeste, gli incendi, il mare infestato dagli squali, ecc. Se i cinque naufragi consecutivi hanno del sorprendente, la totale assenza di vittime ha del miracoloso. È come se due forze soprannaturali si siano disputate a lungo, accanitamente, il destino di tutte quelle persone: l'una, maligna, che voleva perderle ad ogni costo; l'altra, benevola, che le conduceva in salvo ogni volta, nonostante tutto. Se la posta in gioco era la vita degli equipaggi e dei passeggeri, alla fine la vittoria è rimasta alla forza benigna: nessuno degli uomini e delle donne coinvolti in quella serie di vicende spettacolari e altamente drammatiche ha riportato neanche un graffio.
Che dire di un mondo ove accadono circostanze così strabilianti, così lontane da ogni possibile spiegazione razionale?
In generale, noi viviamo in un mondo - dal punto di vista fisico - diciamo: in un sistema caratterizzato dall'aumento costante ed inevitabile di entropia. Esso, per una legge inesorabile connaturata alla materia, procede da uno stato iniziale meno disordinato ad uno via via sempre più disordinato.
Avviene in natura quello che accade quando apriamo un mazzo di carte nuovo e lo disperdiamo alla rinfusa: da uno stato ordinato, con le carte divise per numero e per segno, si passerà a uno stato disordinato, con le carte disposte a casaccio, senza alcun ordine logico. Oppure lasciamo cadere un vaso di terracotta sul pavimento: si romperà in vari pezzi, e non tornerà mai più allo stato iniziale; al massimo possiamo incollare pazientemente i cocci, ma per far questo, dovremo ricorrere al mastice e impiegare del lavoro: cioè, ancora, aumentare il gradi di entropia - di disordine - in altri sistemi, a vantaggio del sistema-vaso che vogliamo rabberciare. Da soli, i pezzi non torneranno mai assieme a ricomporre il vaso; come le carte, mescolate a caso, non torneranno mai all'ordine iniziale. I fogli di un manoscritto trascinati dal vento andranno vagando qua e là; il vento potrebbe soffiare per anni ininterrottamente, ma non li riporterà mai più nella sequenza esatta.
Se le cose stanno così, allora possiamo chiederci: la vicenda dei cinque naufragi consecutivi non è forse paradossale perché in essa, accanto all'entropia, vi si vede operante una forza opposta, una forza che sembra procedere dal disordine verso l'ordine?
Ad ogni naufragio, un salvataggio; ad ogni salvataggio, nessuna vittima: non è questo un rovesciamento del secondo principio della termodinamica?
Ora, in natura non c'è che una "forza" che vada nella direzione opposta all'aumento del disordine: quella del fenomeno vita. La vita consiste precisamente in un passaggio della materia da uno stato meno ordinato ad uno più ordinato - ma sempre a spese, si badi, di altri sistemi fisici esterni al sistema considerato, che da essi trae sostentamento - ad esempio, le radici dell'albero che traggono dalla terra il nutrimento, assorbendo l'acqua e i sali minerali in essa disciolti.
Non appena la vita finisce, la tendenza al disordine riprende il sopravvento, con la dissoluzione graduale di ciò che un tempo era l'organismo dell'essere vivente.
Tutto questo sembra suggerire che il nostro mondo - meglio, la dimensione in cui viviamo - entri talvolta in contatto, misteriosamente, con altri mondi, con altre dimensioni ove vigono leggi diverse dalle nostre, e ove il secondo principio della termodinamica non è la regola generale ma, forse, l'eccezione.
Dimensioni ordinate, ove le cose vanno naturalmente al loro posto oppure ci tornano, se qualcosa le discosta da esso.
Secondo Leibniz, noi viviamo già adesso nel migliore dei mondi possibili. Tuttavia, senza scomodare la sua teoria dell'"armonia prestabilita", dobbiamo tener presente che la dimensione "qui ed ora" non è un fatto oggettivo e universalmente valido; dovremmo dire, piuttosto, che esistono tante dimensioni quante sono quelle che possiamo esperire, spostandoci su piani di consapevolezza sempre più alti o, ahimè, sempre più bassi.
Il piano di consapevolezza del mistico, dell'artista, dello scienziato non solo paragonabili a quelli dell'individuo comune, immerso nella torbida palude delle passioni e dei pensieri negativi che gli offuscano la visione delle cose.
Ognuno ha già qui e ora il suo Inferno e il suo Paradiso; e tanto più in alto è in grado di giungere, mediante un affinamento delle facoltà spirituali, tanto più libera, ampia ed equanime saranno la sua visone ed il piano di realtà sul quale egli potrà muoversi.
Né si creda che, in questo modo, noi vogliamo affermare che "i mondi possibili sono infiniti, perché dipendono esclusivamente dalla nostra visione soggettiva".

No: i mondi possibili sono infiniti e noi possiamo giungere ad avere una visione fugace di alcuni di essi, a condizione che riusciamo a realizzare un salto "quantico" nella nostra dimensione spirituale. La loro realtà "oggettiva" - se per oggettiva s'intende che essa è indipendente dalla nostra volontà, dai nostri desideri e dai nostri timori - si manifesta talvolta in circostanze occasionali, che nulla hanno a che fare con il nostro livello di evoluzione spirituale. Quando ciò avviene, nessun beneficio e nessun vantaggio possiamo trarre dallo sguardo fuggevole che abbiamo avuto occasione di gettare su quegli orizzonti insospettati.
Noi non sappiamo se qualcuno, fra i passeggeri e gli equipaggi delle cinque navi che, successivamente, fecero naufragio nelle acque australiane, ve ne sia stato qualcuno per il quale una tale straordinaria esperienza abbia favorito una presa di coscienza spirituale e dato inizio a una ricerca consapevole dei livelli di realtà superiori.
Certo, di irruzioni improvvise di realtà "altre" nel nostro continuum spazio temporale ve ne sono sempre state moltissime, attestate dalle antiche cronache (nel caso dei Romani, dall'opera di Giulio Ossequiente) o semplicemente dalla banale stampa quotidiana; solo che noi non le sappiamo cogliere.
I marinai di una nave in viaggio nell'Oceano pacifico (lo ricorda Vincent Gaddis nel suo libro sui misteri del mare) videro per giorni, e addirittura fotografarono - fotografie tuttora esistenti - i volti di due compagni annegati che si formavano sulla superficie dell'acqua, e che accompagnavano la scia del bastimento durante la navigazione.
Potremmo citare migliaia di casi del genere; Charles Fort, lo studioso statunitense dei fatti inspiegabili, ne ha raccolto una bella mole nel suo "Libro dei dannati".
Le goccioline d'acqua alla superficie di un oceano possono disporsi a formare dei volti umani, dei volti perfettamente somiglianti a due persone scomparse in mare, per forza propria; e rimanere ferme in quella posizione per giorni e giorni, nonostante il movimento delle onde e il soffiare dei venti?
Ecco un fatto "fisico" che va, chiaramente, contro il secondo principio della termodinamica: eppure decine di persone lo hanno potuto osservare e perfino documentare mediante la tecnologia.
Niente stati emotivi alterati, dunque; niente superstizioni, isterismi o allucinazioni: una pellicola fotografica non soffre di allucinazioni.
E allora, signori scienziati?
Perché voltate la testa dall'altra parte, perché non volete guardare?
Vi secca ammettere ciò che non sapete spiegare?
Strano: credevamo che la scienza fosse appunto il tentativo dell'intelligenza umana di confrontarsi con ciò che essa non sa immediatamente spiegare.
E voi, signori filosofi?
Tanto il vostro materialismo quanto il vostro idealismo uscirebbero turbati dall'ammissione che fatti del genere "accadono realmente", e molto più spesso di quanto si creda?
Vi sono addirittura persone scomparse nel nulla, e sotto gli occhi di numerosi testimoni attendibili. Tale il fatto accaduto all'agricoltore David Lang il 23 settembre 1880 presso Gallatin, nel Tennessee: sparì davanti a casa sua, sotto gli occhi della moglie e dei figli, oltre che di un amico; per qualche tempo si udì ancora la sua voce, poi silenzio. Lo scrittore Ambrose Bierce, che conobbe il fato, ne rimase abbastanza impressionato da scrivere un racconto su tale soggetto, intitolato "La difficoltà di attraversare un campo".
Dunque, la nostra dimensione spazio-temporale è parte di una sorta di grande poliedro con innumerevoli facce; e queste facce, talvolta, interagiscono fra loro, creando circostanze che a noi paiono assolutamente inspiegabili. Abitiamo quindi in un universo a enne dimensioni, in un "multiverso"; e talvolta, come Alice nel corso delle sue avventure, attraversiamo lo specchio o cadiamo nella tana del coniglio, e "ci troviamo dall'altra parte".
Sorge spontanea la domanda se, negli universi paralleli al nostro, vi sono altre "versioni" del nostro io; o meglio se, in esse, il nostro io percorre altre linee spazio-temporali, realizzando tutte quelle possibilità che, qui, sono rimaste allo stato teorico mano a mano che noi, nel corso della nostra vita, abbiamo realizzato il nostro destino.
Naturalmente, per tentar di rispondere a questa domanda dobbiamo prima definire che cosa sia un "io", il che non è affatto auto-evidente.
Per il buddhismo Theravada, noi non abbiamo un io ma un complesso di idee sempre cangianti, alle quali attribuiamo - erroneamente - una unità coscienziale.
In questa sede, però, non abbiamo la possibilità di approfondire un simile discorso e quindi ci limitiamo ad osservare che, se anche fosse vero che l'"io" è una illusione (o, almeno, che lo è il "piccolo io" col quale tendiamo a identificare i nostri mutevoli stati di coscienza), nondimeno, finché l'illusione permane, essa è pur sempre una realtà-per-noi.
Di conseguenza ci poniamo il problema se questa realtà-per-noi, questa "persona" che ha una identità, una storia, una sua visone del mondo, sia limitata alla dimensione spazio-temporale che sperimentiamo nella vita ordinaria, o se ne esistano innumerevoli "repliche" o "riproduzione" nelle altre dimensioni del multiverso.
Poniamo che l'essere umano sia in gradi di costruire una macchina capace di "fotocopiare" le persone con un grado di esattezza del cento per cento: le copie sarebbero allora qualcosa di "diverso" dall'originale?
E se l'originale morisse, la sua copia così riprodotta sarebbe "la stessa persona" dell'originale, o sarebbe diversa?
A queste domande ha risposto, o cercato di rispondere, il filosofo Derek Parfit nel suo celebre saggio "Ragioni e persone", nel quale, col tipico approccio pragmatista e utilitarista della tradizione anglosassone, risponde senza batter ciglio che la copia "sarebbe esattamente la stessa persona dell'originale". Tra l'altro, egli afferma:

«Noi non siamo entità esistenti separatamente, indipendentemente dal nostro cervello e dal nostro corpo, nonché dai vari eventi fisici e mentali tra loro interrelati. La nostra esistenza implica solo l'esistenza del nostro cervello e del nostro corpo, il compimento dei nostri atti, l'elaborazione dei nostri pensieri e l'occorrere di certi altri eventi fisici e mentali.» (2)

Un'opera di quasi 700 pagine fitte fitte per sostenere che noi e le nostre eventuali fotocopie saremmo esattamente la stessa persona, dato che noi non siamo altro che il nostro cervello.
Umberto Galimberti sarebbe d'accordo, visto che da anni va ripetendo proprio la stessa cosa.
Non che sia una tesi particolarmente originale: è una diretta derivazione dell'empirismo lockiano e dello scetticismo humiano, nonché del materialismo e del riduzionismo di matrice positivistica.
Noi, però, non ne siamo convinti.
Se l'uomo fosse solo un cervello, allora sarebbe semplicemente un computer; e, ovviamente, due computer perfettamente identici "sono" la stessa cosa. Almeno in teoria. In pratica, non si troveranno mai due macchine "assolutamente identiche".
E quanto agli individui, dubitiamo assai che essi si riducano al solo cervello. Al contrario, che il cervello non possa essere l'organo della nostra conoscenza del mondo, è già stato brillantemente sostenuto da Erminio Rizzi. Riportiamo la parte conclusiva del suo ragionamento, impeccabile per chiarezza e rigore:

«...Poiché esigiamo che i corpi siano cose, ossia esistenze in sé, sebbene si risolvano sempre in nostre idee, ossia in qualcosa che ci appartiene, per cui non potrebbero essere in alcun modo indipendenti dalla conoscenza che ne abbiamo? Ebbene, non si può risolvere tale problema supponendo che i corpi siano cose (esistenze in sé), che si offrono in se stesse e da se stesse alla nostra conoscenza. (...) Infatti, le presentazioni non potrebbero né essere date al cervello, come parte del nostro corpo quale cosa, né emergere da esso (né, ovviamente, il cervello medesimo potrebbe uscire fuori di sé per raggiungere ciò che gli fosse esterno). (...) Qui è stato sostenuto che i corpi sono esistenze formali, ossia nostre mere idee, sia pure aventi (in quanto concepite al fine di chiarire la possibilità della materia data sensibile) un valore oggettivo, secondo cui esse avrebbero come controparti cose. Il valore di esistenza dei copri è dunque formale, nel senso che essi acquistano l'esistenza grazie appunto alla forma (sia pure condizionatamente rispetto alla materia data sensibile). Ciò vuol dire che quello che concepiamo circa i corpi medesimi (la loro stessa esistenza, le loro variazioni, ecc.) ha un valore formale, nel senso che non trova affatto corrispondenza in una realtà che non si risolva in quello stesso concepire, cioè che stia al di là di esso (come, invece, lo starebbe una realtà di corpi quali cose).
Conviene osservare che la considerata esigenza che i corpi siano cose si manifesta anche nella nostra pretesa che le anticipazioni (in cui tutte le leggi scientifiche empiriche si risolvono) siano, in momenti futuri, verificabili. In verità, nulla assicura che ciò avvenga, cioè che valga l'induzione (vale a dire che il futuro assomiglia al passato), senza la quale non potremmo certo parlare di nostre conoscenze. Infatti, non possiamo essere certi che la predetta somiglianza continuerà ad esserci, poiché i corpi non sono affatto esistenze in sé, permanenti, e la materia data sensibile non è affatto in nostro potere.
Si può concludere così: circa i problemi mente-corpo, la filosofia deve avere per compito dimostrare che i corpi sono esistenze formali, di natura spirituale; la scienza deve avere per compito di procedere nello studio del cervello, quale organo di un corpo materiale, ma avendo coscienza del valore formale e dei limiti del suo conoscere.» (3)

Se, dunque (sulla scia di Berkeley) dobbiamo riconoscere che i corpi hanno solo un'esistenza formale e di natura spirituale, allora chiediamoci: cosa intende Parfit per "entità", quando afferma che essa è caratterizzata semplicemente dall'esistenza del nostro cervello e del nostro corpo?
In realtà, nient'altro che una nostra "idea".
Dunque la "persona" non è semplicemente il nostro corpo, ma una forma di consapevolezza che comprende l'idea del corpo (mio e delle cose "esterne"), "più un qualche cosa d'altro" che non è nel cervello e nemmeno nel corpo.
Il corpo, infatti, non potrebbe avere conoscenza, e tanto meno consapevolezza, di ciò che è al di fuori del corpo; anzi non potrebbe avere neanche consapevolezza di sé come "entità", ma solo come "sensazione", temporanea e sempre cangiante.
No: la persona è un'"essenza", qualche cosa che esiste indipendentemente dal cervello e dal corpo; e che nessun fotocopiatore potrebbe mai riprodurre così fedelmente da annullarne l'unicità ed irripetibilità, perché l'essenza è qualcosa che, per definizione, trascende il livello sensibile e rimanda alla sfera del noumeno, della cosa in sé: in altre parole, rimanda al livello dell'Essere.
Note:
1
. "Grande enciclopedia del mare" dir. Da Folco Quilici, Roma, Armando Curcio ed., s.d., vol. 7, pp. 2438-2439.
2. Derek Parfit, "Ragioni e persone", Milano, Mondadori, 1989, p. 278.
3. Erminio Rizzi, "Filosofia oggi", vol. II-III, 2005, pp. 193-94.


francescolamendola@yahoo.it



Fonte Edicolaweb

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