Descrizione

La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi” - Honorè de Balzac -

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano !" - Isaac Newton -

Contra factum non valet argumentum”

giovedì 31 dicembre 2015

IL PETROLIO, IL COTONE E IL FOSFATO DELLO STATO ISLAMICO SONO VENDUTI IN EUROPA

isis petrolio 2

DI OLIVIER PETITJEAN E RACHEL KNAEBEL

FINANZIAMENTO DEL TERRORISMO

Pozzi di petrolio, giacimenti di gas, miniere di fosfato, campi di cotone, colture di cereali…tante risorse sulle quali lo Stato Islamico ha messo le mani grazie ai territori che controlla in Iraq ed in Siria. Malgrado l’embargo di cui sono fatti oggetto, una parte di questi prodotti affluiscono sui mercati, verso i paesi confinanti, e servono a finanziare la sua guerra infinita. Cosa fanno le imprese del settore, i venditori di materie prime, le banche e le istituzioni internazionali per assicurarsi di non contribuire a riempire le casse di Daesh?

«Le istituzioni finanziarie e del credito sono chiamate ad esercitare una particolare vigilanza in relazione a tutte le transazioni commerciali che possano beneficiare Daesh», precisa Tracfin, il ramo del ministero francese delle Finanze incaricato della lotta contro il riciclaggio. Le entrate annuali dello Stato Islamico si avvicinano a 3 miliardi di dollari, secondo le stime. Avendo preso il controllo di parte del territorio siriano ed iracheno, il gruppo armato ha messo le mani su numerosi pozzi di petrolio, giacimenti di gas, fabbriche di fertilizzanti, campi di cotone e di cereali…tutte materie prime che possono contribuire al suo finanziamento. In aggiunta al denaro proveniente dai rapimenti di persone, dalle tasse imposte alle popolazioni, al traffico di beni archeologici, questa appropriazione di risorse naturali e di idrocarburi apporta ingentissime somme. Le materie prime, tuttavia, vanno vendute a qualcuno: chi sono, dunque, i partner commerciali di Daesh? Le autorità internazionali e le grandi imprese dei settori interessati hanno preso le opportune contromisure?

Con il dispiegamento della portaerei Charles De Gaulle nel Mediterraneo orientale, in seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre, l’esercito francese ha l’intenzione di intensificare i bombardamenti aerei – iniziati più di un anno fa – contro Daesh in Siria e in Iraq. Alla vigilia degli attacchi di Parigi, il ministero della difesa annunciava di avere bombardato tre siti petroliferi siriani. Anche i colpi sferrati dagli Stati Uniti colpivano installazioni petrolifere di Daesh. L’operazione è stata denominata “Tidal Wave II”, in riferimento alla prima operazione Tidal Wave, che fu condotta contro le risorse petrolifere naziste in Romania durante la seconda guerra mondiale.

Lunedì 16 novembre, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno iniziato ad attaccare anche i convogli dei camion cisterne, trasportanti petrolio destinato al contrabbando, cosa da cui si erano in precedenza astenuti per il timore di mietere vittime tra i civili.

ExxonMobil, Chevron e Total bramano il sottosuolo curdo

I pozzi petroliferi controllati da Daesh rappresentano, all’ottobre 2014, il 60% della produzione siriana di petrolio ed il 10 % di quella irachena, secondo un rapporto dell’agenzia informativa finanziaria Thomson Reuters. Approssimativamente, queste percentuali corrispondevano, in quel tempo, a 60.000 barili al giorno in ciascuno dei due stati. Una produzione che classifica teoricamente il “califfato” al 40° posto tra i produttori di petrolio, con un profitto stimato tra i 2 e i 4 milioni di dollari al giorno. Ma questo era più di un anno fa.

La situazione militare è cambiata. Una parte dei pozzi petroliferi, presi da Daesh nel 2014, sono stati riconquistati dalle forze curde e irachene, supportate dagli Stati Uniti e dall’Iran. In tal modo le potenzialità dello Stato Islamico sono state considerevolmente ridimensionate. I giacimenti attualmente sfruttati da Daesh sono modesti: qualche dozzina di migliaia di barili al giorno, al più, contro la produzione totale dell’Iraq di milioni di barili. I giacimenti siriani controllati dall’organizzazione sono, d’altronde, in declino. Ma l’avanzata di Daesh nel nord dell’Iraq, durante l’estate del 2014, costituisce una seria minaccia per giacimenti ben più importanti. È stata, forse, questa minaccia a motivare l’intervento americano: d’altra parte, ExxonMobil, Chevron e la francese Total si stanno già preparando a sfruttare le ricchezze del sottosuolo curdo.

Petrolio, fosfati e tessile made in Stato Islamico?

Cosa fa Daesh con le sue risorse, seppur limitate, di petrolio?
Lo Stato Islamico «copre il suo fabbisogno e, così sembra, vende il resto sul mercato nero locale, oppure esporta petrolio, grezzo o raffinato, in Giordania, Iran, Kurdistan e Turchia», indica il report di Thomson Reuters. I jihadisti farebbero profitti tramite i canali di contrabbando creati con l’inizio dall’embargo all’Iraq di Saddam Hussein e con l’Iran. Un rapporto dell’aprile 2015 del Congresso degli Stati Uniti segnala che il gruppo vende il petrolio estratto dai suoi pozzi iracheni attraverso la Turchia, «essenzialmente lo stesso sistema vale anche per il petrolio siriano». Le informazioni parlano anche di possibili vendite al regime siriano, oltre che ai ribelli e ai curdi di Siria, che combattono contro gli islamisti.

Oltre al petrolio, Daesh ha anche preso il controllo di numerosi giacimenti di gas, di una miniera di fosfato in Iraq, di una fabbrica di acido solforico e fosforico e di cinque cementerie, tra cui una del colosso francese Lafarge in Siria. Ma, precisa uno studio del gruppo intergovernativo contro il riciclaggio di denaro sporco (Gruppo d’azione finanziaria internazionale, Gafi), «al contrario del petrolio grezzo e raffinato, per i quali esistono circuiti di contrabbando di lunga data e mercati neri locali, quest’altra risorsa è probabilmente più difficile da monetizzare per Daesh». Ci sono forti timori sul fatto che il cotone siriano coltivato nei territori controllati da Daesh possa passare attraverso la Turchia e, infine, ritrovarsi tra le scorte dei produttori tessili europei. Uno studio condotto da una consulente francese sulla filiera tessile regionale allertava, circa due mesi fa, dell’esistenza di un reale rischio per i consumatori francesi di comprare vestiti contenenti cotone dello Stato Islamico. Conclusioni che, tuttavia, l’Unione delle Industrie Tessili Francesi, indirettamente chiamata in causa, ha giudicato non attendibile.

Le transazioni petrolifere con Daesh vietate da UE, USA e ONU

In linea di principio, è vietata qualunque transazione che rischi di alimentare le casse dei gruppi islamisti in Siria e Iraq. Le imprese hanno smesso di importare materie prime dalla Siria fin dallo scoppio della guerra. La multinazionale norvegese Yara, specializzata nella produzione di fertilizzanti, assicura di non aver più acquistato fosfato siriano a partire da febbraio 2011 e nemmeno dall’Iraq.

L’Unione Europea ha proibito l’importazione di petrolio siriano, da prima ancora dell’emersione dello Stato Islamico sulla scena regionale, quando le sanzioni erano indirizzate specificamente contro Bashar Al-Assad e la sua sanguinosa repressione dei sollevamenti popolari. Total, la multinazionale francese che sfruttava i pozzi di petrolio della regione del Dei Ez Zor, ha dismesso tutte le sue attività in Siria nel dicembre 2011. La compagnia fa sapere che, col fine di «rispettare le obbligazioni contrattuali», mantiene attualmente solo due persone nella sua sede di Damasco.

Anche gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di petrolio siriano prima che Daesh prendesse il controllo di una parte dei pozzi. Le sanzioni statunitensi proibiscono non solo le transazione di petrolio, ma anche quelle di natura finanziaria connesse col petrolio d’origine siriana.

Le sanzioni dell’ONU, grazie al sostegno della Russia – che dispone di potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza – colpiscono unicamente i gruppi islamisti della regione, ma risparmiano il governo siriano. Una risoluzione del 3 febbraio 2015 condanna: «tutti gli accordi per il commercio diretto o indiretto di prodotti petroliferi con Daesh e Al-Nusra», un’altra componente delle forze islamiste in Siria.

Una rete di contrabbando che risale all’embargo iracheno

In Francia, Tracfin invita «le istituzioni finanziarie e di credito» a «considerare le transazioni finanziarie relative, direttamente o indirettamente, all’acquisto di petrolio, greggio o meno, di provenienza irachena o prodotto in Iraq, come transazioni a rischio elevato, giustificando dei controlli particolari, tranne nel caso in cui lo State Oil Marketing Organization, che dipende dal ministero del petrolio del governo iracheno, non abbia approvato».

Sul campo, le frontiere sono un colabrodo, le alleanze tra le fazioni sono a geometria variabile, la corruzione è generalizzata e la situazione regionale, con particolare riferimento al Kurdistan iracheno, è estremamente complessa. Tutti elementi, questi che favoriscono la vendita di petrolio dal Daesh, grazie all’intermediazione di trafficanti, attraverso l’Iraq e la Turchia. Il governo regionale curdo dell’Iraq, malgrado combatta contro Daesh, esporta petrolio senza il consenso del governo iracheno, all’interno di una strategia d’indipendenza politica e finanziaria.

In questa situazione di guerra, dove le reti del contrabbando esistono e sono calcate da lunga data, facendo barcollare le frontiere, e dove il Kurdistan iracheno vende petrolio senza l’avallo di Bagdad, è estremamente difficile “tracciare” il petrolio. La frontiera turca, in particolare, ha il dito puntato contro: «Le istituzioni finanziarie farebbero bene ad esaminare con precisione le transazioni che implicano il coinvolgimento di aziende turche o di individui legati al settore del petrolio in Turchia», consiglia l’agente d’informazione finanziaria Thomson Reuters nel suo rapporto. In Iraq «sembra che Daesh faccia uso di antiche rotte tracciate dal Baath (il partito al potere al tempo di Saddam Hussein) per contrastare il programma “Oil for Food”».

Le società di trading comprano petrolio da Daesh?

Il programma “Oil for Food”, voluto dall’ONU per attenuare gli effetti dell’embargo degli Stati Uniti contro l’Iraq tra il 1992 ed il 2002, è stato caratterizzato da un elevato livello di corruzione. Nell’ambito di questo programma, l’azienda francese Total è stato processata per corruzione ed è ancora in attesa del verdetto del giudizio d’appello. Vitol, una grande impresa svizzera, è stata condannata nel 2007 negli Stati Uniti a pagare più di 17 milioni di dollari tra multa e compensazioni per la corruzione dei funzionari iracheni. Come fanno coloro che trattano petrolio e materie prime ad assicurare che non stiano commerciando oro nero estratto dallo Stato Islamico? «Vitol ha un programma globale di conformità che include politiche e procedure rigorose d’esame degli intermediari e delle loro catene di approvvigionamento», ci assicura la società di trading. «Nella regione, sono state attuate misure di massima sicurezza, come l’esigenza di trattare solo con interlocutori noti da tempo e di provata fiducia»

«È troppo difficile tracciare il petrolio all’origine»

Trafigura, un’altra grande impresa di mediazione di materie prime, risponde in maniera similare: «Trafigura non compra petrolio e prodotti petroliferi, metalli e minerali che da fonti che conosciamo bene e che hanno superato le nostre procedure di selezione». Trafigura era stata accusata anche per traffici illeciti di petrolio sudanese al tempo della guerra in Darfur (oltre che coinvolta nello scandalo del riversamento di rifiuti tossici in Costa d’Avorio). Le due imprese oramai collaborano con le autorità di Washington, essendo state «invitate col solo scopo, sulla base delle loro conoscenze nel loro settore d’attività, a fornire una valutazione del possibile volume e dello svolgimento di operazioni petrolifere dello Stato Islamico», comunicano le autorità svizzere.

Ciò è sufficiente? Per Marc Guéniat, responsabile d’inchiesta dell’ONG svizzera Déclaration de Berne e che segue da vicino le attività delle grandi imprese commerciali: «è troppo difficile seguire dall’origine il petrolio, soprattutto se viene mischiato. Non esiste un dispositivo atto ad obbligare i venditori a porsi questa domanda. In Svizzera, dove si trovano i grandi intermediari, nessuno di costoro ha l’obbligo di interrogarsi sull’origine delle materie prime che commerciano, diversamente dalle banche, che debbono farsi domande relative alla provenienza dei fondi che ricevono in virtù delle norme contro il riciclaggio di capitali sporchi. Costoro possono acquistare materie prime d’origine illegale o che derivano da un crimine». Tracciare l’origine è ancora più difficile in situazioni di guerra, le quali, visti i precedenti, non intimoriscono le imprese.

Cessare ogni tipo di attività con i paesi confinanti?

A settembre 2014, l’ambasciatrice europea in Iraq, Jana Hybaskova, confidava che è risaputo che paesi europei acquistano in nero petrolio da Daesh. La notizia, tuttavia, non ha avuto alcuna conferma ufficiale dalle istituzioni europee. «Le imprese del settore sarebbero assai infastidite dal dover escludere il commercio del petrolio proveniente dai territori di Daesh», giudica Marc Guéniat. «Una banca francese che opera a Ginevra nel finanziamento delle imprese importatrici ha deciso di evitare completamente ogni rischio mediante la cessazione di qualunque rapporto con il petrolio della regione, inclusa la Turchia. A mio giudizio, questo è l’unico modo per essere sicuri di non far affluire questo petrolio sui mercati mondiali»

Le banche francesi sanno bene che questo tipo di transazione in zone a rischio possono costargli davvero care. L’anno scorso, BNP Paribas ha ricevuto un’ammenda record di più di 6 miliardi di euro per degli affari svolti con regimi sotto sanzioni USA (Sudan, Iran, Cuba). Quasi tre quarti delle transazioni incriminate riguardavano scambi realizzati con il regime sudanese, colpito da sanzioni per il sostegno al terrorismo e la violazione di diritti umani. E si trattava, non a caso, di vendite di petrolio. La prima banca francese ha, in seguito, rinforzato il suo controllo giuridico ed è adesso particolarmente attenta a non farsi coinvolgere dai paesi confinanti con la Siria.

La Svizzera, paradiso dei mercanti di petrolio…e del traffico di beni archeologici

La Svizzera è anche al centro delle preoccupazioni circa il commercio di beni antichi sottratti nei territori occupati da Daesh. Un rapporto del presidente del Louvre, reso pubblico dopo gli attentati di Parigi, indica che i principali antichi siti di Siria e Iraq sono stati oggetto di «un numero incalcolabile di scavi selvaggi». Anche la vendita di questi oggetti contribuisce a gonfiare le finanze di Daesh. «Daesh ha probabilmente recuperato i pezzi più pregiati del museo di Raqqa (oltre a quelli rubati dai musei iracheni) per rivenderli ai trafficanti che possono giovarsi della rete perfettamente organizzata che esisteva già prima dell’apparizione di Daesh», recita il rapporto. Ora, è possibile che questi pezzi rubati si trovino in porti franchi sparsi nel mondo alla ricerca di un compratore, perché in questo «paradiso dell’occultamento», confidenza e discrezionalità sono la regola. «In certi porti franchi, non è richiesto dichiarare l’inventario alle dogane: la natura dei beni, il loro valore e l’identità del loro proprietario rimangono strettamente confidenziali», sottolinea il direttore del Louvre. Tra questi territori ci sono Singapore e Shanghai, ma anche Ginevra e il Lussemburgo. Nel cuore dell’Europa.


Traduzione per www.comedonchisciotte,org a cura di NICOLA PALILLA

Des miliciens de l’Etat islamique dans la région de Tikrit en Irak et leurs prisonniers, en juin 2014. Après la prise de la ville et d’une base militaire irakienne, l’État islamique revendique le massacre de 1700 prisonniers chiites.

FINANCEMENT DU TERRORISME

Le pétrole, le coton ou le phosphate de l’Etat islamique sont-ils vendus en Europe ?

24 NOVEMBRE 2015

Des puits de pétrole, des gisements gaziers, des mines de phosphate, des champs de coton, des cultures de céréales… Autant de ressources sur lesquelles l’Etat islamique a mis la main grâce aux territoires qu’il contrôle en Irak et en Syrie. Malgré l’embargo dont il fait l’objet, une partie de ces produits sont écoulés sur les marchés, vers les pays voisins, et servent à financer sa guerre sans fin. Comment les entreprises des secteurs concernés, les négociants de matières premières, les banques et les institutions internationales s’assurent-ils qu’ils ne contribuent pas à remplir les caisses de Daech ?

« Les établissements financiers et de crédit sont appelés à exercer une vigilance particulière à l’égard de toutes transactions commerciales de nature à bénéficier à Daech » prévient Tracfin, la branche du ministère français des Finances chargée de la lutte contre le blanchiment. Les revenus annuels de l’État islamique avoisinent les 3 milliards de dollars, selon les estimations. En prenant le contrôle d’une partie du territoire syrien et irakien, le groupe armé a mis la main sur plusieurs puits de pétrole, sur des gisements gaziers, des fabriques d’engrais, des champs de coton et de céréales… Autant de matières premières qui peuvent contribuer à son financement. En plus de l’argent venu des enlèvements, des taxes imposées aux populations, du trafic d’antiquités, cette mainmise sur des ressources naturelles et les hydrocarbures rapportent des sommes conséquentes. Encore faut-il écouler ces matières premières. Qui sont donc les partenaires commerciaux de Daech ? Les autorités internationales et les grandes entreprises des secteurs concernés ont-elles pris les mesures qui s’imposent ?

Avec le déploiement du porte-avions Charles-De-Gaulle en Méditerranée orientale, suite aux attentats de Paris du 13 novembre, l’armée française va intensifier ses bombardements aériens – débutés il y a plus d’un an – contre Daech en Syrie et en Irak. La veille des attaques de Paris, le ministère de la Défense annonçait avoir bombardé trois sites pétroliers syriens. Les frappes menées par les États-Unis ciblent également des installations pétrolières de Daech. L’opération a été baptisée "Tidal Wave II", en référence à la première opération Tidal Wave qui visait les ressources pétrolières des nazis en Roumanie durant la Seconde Guerre mondiale. Le lundi 16 novembre, pour la première fois, les États-Unis ont commencé à attaquer également des convois de camions citernes, transportant du pétrole destiné à la contrebande. Ce dont ils s’étaient abstenus jusqu’alors par crainte de faire des victimes civiles.

ExxonMobil, Chevron et Total convoitent les sous-sol kurdes

Les puits pétroliers contrôlés par Daech représentent, en octobre 2014, 60 % de la production syrienne de pétrole et 10 % de la production irakienne, selon un rapportde l’agence d’informations financières Thomson Reuters. Ce qui correspond à l’époque à une capacité de 60 000 barils par jour dans chaque pays. Une production qui place en théorie le « califat » au 40ème rang des pays producteurs de pétrole, et rapporte un profit estimé entre 2 et 4 millions de dollars par jour. Mais c’était il y a plus d’un an.

La situation militaire a changé. Une partie des puits capturés par Daech en 2014 ont été reconquis par les forces kurdes et irakiennes appuyées par les États-Unis et l’Iran, réduisant considérablement les ressources potentielles de l’État islamique. S’ils revêtent une importance majeure pour la conduite de la guerre, les gisements actuellement exploités par Daech restent en fait modestes : quelques dizaines de milliers de barils par jour au plus, alors que la production totale de l’Irak se compte en millions de barils. Les gisements syriens contrôlés par l’organisation sont par ailleurs sur le déclin. Mais l’avancée de Daech dans le nord de l’Irak durant l’été 2014 menace alors directement des gisements pétroliers bien plus considérables, ce qui a probablement motivé l’intervention états-unienne. ExxonMobil, Chevron et la française Total se préparent d’ailleurs à exploiter les richesses du sous-sol kurde.

Pétrole, phosphate et textile made in Etat islamique ?

Que fait Daech avec ses ressources, même limitées, en pétrole ? L’État islamique« couvre ses propres besoins et, semble-t-il, vend le reste sur le marché noir local, et exporte du pétrole brut ou raffiné vers la Jordanie, l’Iran, le Kurdistan et la Turquie », indique le rapport de Thomson Reuters. Les djihadistes profiteraient des réseaux de contrebande existant depuis les embargos frappant l’Irak de Saddam Hussein puis l’Iran. Un rapport d’avril 2015 du Congrès des États-Unis signale que le groupe vend du pétrole extrait de ses puits irakiens via la Turquie « de la même manière pour l’essentiel que le pétrole syrien ». Des informations font également état de ventes possibles du pétrole de Daech au régime syrien, et même aux rebelles et aux Kurdes de Syrie, qui combattent les islamistes.

En plus du pétrole, Daech a aussi pris le contrôle de plusieurs gisements gaziers, d’une mine de phosphate irakienne, d’une usine de production d’acide sulfurique et phosphorique et de cinq cimenteries, dont une de Lafarge en Syrie. Mais, précise une analyse du groupement intergouvernemental de lutte contre le blanchiment d’argent (Groupement d’action financière, Gafi), « au contraire du pétrole brut et raffiné, pour lesquels il existe des circuits de contrebande établis de longue date et des marchés noirs locaux, ces autres ressources sont probablement plus difficile à monétiser pour Daech ». Des inquiétudes existent aussi sur la possibilité que du coton syrien cultivé dans les champs sous contrôle de Daech puisse passer par la Turquie, avant de se retrouver dans les stocks des fabricants textiles européens. Une étude réalisée par une consultante française sur la filière textile régionale alertait il y a deux mois sur l’existence d’un risque réel pour les consommateurs français d’acheter des vêtements contenant du coton de l’État islamique. Des conclusions que l’Union française des industries textiles, indirectement mise en cause, juge erronées.

Les transaction de pétrole avec Daech interdites par l’UE, les États-Unis et l’ONU

En principe, toute transaction qui risque d’alimenter les caisses des groupes islamistes en Syrie et en Irak est interdite. Des entreprises ont stoppé leurs achats de matières premières avec la Syrie dès le début de la guerre. La multinationale norvégienne Yara, spécialisée dans les engrais, assure ne plus acheter de phosphate syrien depuis février 2011, ni venant d’Irak. L’Union européenne a prohibé tout achat de pétrole syrien [1]. À cette époque, les sanctions visent spécifiquement le régime de Bachar El-Assad et la répression sanglante face au soulèvement populaire – l’Etat islamique n’a pas encore surgi sur la scène régionale. Total cesse toutes ses activités de production en Syrie en décembre 2011. L’entreprise française y exploitait du pétrole dans la région de Deir Ez Zor. Elle n’emploie aujourd’hui plus que deux personnes dans son bureau de Damas, afin de « respecter les obligations contractuelles », fait savoir la compagnie.

Les États-Unis aussi ont interdit l’importation de pétrole venu de Syrie avant que Daech ne prenne le contrôle d’une partie des puits [2]. Les sanctions états-uniennes prohibent toutes les transactions de pétrole, mais aussi toute transaction financière en lien avec du pétrole d’origine syrienne. Au sein de l’ONU, les décisions prises visent uniquement les groupes islamistes de la région, mais épargnent le gouvernement syrien, grâce au soutien de la Russie, qui dispose d’un droit de véto au Conseil de sécurité. Une résolution [3] de février 2015 condamne « tout engagement dans un commerce direct ou indirect en particulier de produits pétroliers, et de raffineries modulables, avec Daech et le Front Al-Nusra », une autre composante des forces islamistes en Syrie.

Des réseaux de contrebande qui datent de l’embargo irakien

En France, Tracfin invite « les établissements financiers et de crédit » à « considérer les transactions financières relatives, directement ou indirectement, à l’achat de pétrole, brut ou non, en provenance d’Irak ou produit en Irak, comme des transactions à risque élevé, justifiant des vigilances particulières, sauf si la State Oil Marketing Organization, qui relève du ministère du Pétrole du gouvernement Irakien, y a consenti. » Sur place, les frontières sont poreuses, les alliances de factions sont à géométrie variable, la corruption est généralisée et la situation régionale, notamment au Kurdistan irakien, extrêmement complexe. Autant d’éléments qui favorisent évidemment la vente de pétrole de Daech par l’intermédiaire de trafiquants à travers l’Irak et la Turquie. Le gouvernement régional kurde d’Irak, s’il combat lui aussi Daech, exporte par exemple du pétrole sans l’accord du gouvernement central irakien, dans une stratégie d’indépendance politique et financière [4].

Dans cette situation de guerre, où les réseaux de contrebande sont implantés de longue date, les frontières troubles, et où le Kurdistan irakien vend du pétrole sans l’aval de Bagdad, il est extrêmement difficile de tracer le pétrole dans la région. Là encore, la frontière turque est montrée du doigt. « Les institutions financières feraient bien d’examiner précisément les transactions qui impliquent des entreprises turques ou des individus liés au secteur pétrolier en Turquie », conseille l’agence d’informations financières Thomson Reuters dans son rapport. En Irak, « il est apparu que Daech fait usage des anciens réseaux mis en place par le parti Baas [l’ancien parti au pouvoir à l’époque de Saddam Hussein, ndlr] pour contrevenir au programme Pétrole contre nourriture ».

Les sociétés de trading achètent-elles du pétrole de Daech ?

Ce programme, mis en place par l’ONU pour atténuer les effets de l’embargo des États-Unis contre l’Irak entre 1992 et 2002, s’est retrouvé au cœur d’un vaste système de corruption pour le contourner. Dans cette affaire, l’entreprise française Total a été poursuivie pour corruption. Elle est toujours en attente du jugement en appel [5]. Une grande entreprise suisse de négoce de pétrole, Vitol, a également été condamnée en 2007 aux États-Unis à plus de 17 millions de dollars d’amende et de compensation pour la corruption de fonctionnaires irakiens.

Comment les négociants de pétrole et de matières premières s’assurent-ils qu’ils ne commercent pas de l’or noir extrait par l’État islamique ? « Vitol a un programme global de conformité qui inclue des politiques et des procédures rigoureuses d’examen des intermédiaires et de leurs chaîne d’approvisionnement », nous assure la société de trading. « Dans la région, une vigilance et des contrôles renforcés ont été mis en place, comme l’exigence de ne traiter qu’avec des interlocuteurs connus de longue date et de confiance. »

« Il est très difficile de tracer l’origine exacte d’un produit pétrolier »

Trafigura, une autre grande entreprise de courtage de matières premières, apporte une réponse similaire : « Trafigura n’achète du pétrole et des produits pétroliers, des métaux, et minerais qu’à des sources que nous connaissons bien et qui ont passé nos procédures de connaissance clients ». Trafigura avait aussi été pointée du doigt pour des transactions illicites avec le pétrole soudanais au moment de la guerre du Darfour (ainsi que dans un scandale de déversement de déchets toxiques en Côte d’Ivoire). Les deux entreprises collaboreraient désormais avec les autorités de Washington : elles « ont été invitées dans le seul but de donner, sur la base de leurs connaissances de leur branche, une évaluation du possible volume et le déroulement des opérations pétrolières de l’État islamique », communiquent les autorités suisses.

Est-ce suffisant ? Pour Marc Guéniat, responsable d’enquêtes à l’ONG suisse Déclaration de Berne, qui suit de près les activités des grandes frimes de négoce, « il est très difficile de tracer l’origine exacte d’un produit pétrolier, surtout s’il est mélangé. Il n’existe pas de dispositif qui contraindrait un négociant à se poser cette question. En Suisse, où se trouvent les grands négociants, ceux-ci n’ont pas l’obligation de s’interroger sur l’origine des matières premières qu’ils commercent, contrairement aux banques, qui doivent s’interroger sur l’origine des fonds qu’elles reçoivent en vertu de la loi sur le blanchiment d’argent. Les négociants peuvent acquérir une matière première d’origine illégale ou qui serait le produit d’un crime. »Le traçage semble d’autant plus difficile dans des situations de conflit ouverts, des situations qui ne repoussent pourtant pas les négociants, au vu des scandales passés.

Cesser toute activité avec les pays voisins ?

En septembre 2014, l’ambassadrice européenne en Irak Jana Hybaskova confie qu’il est connu que des pays européens achètent en bout de course du pétrole de Daech [6]. Sans que plus d’informations à ce sujet n’ait été communiquée par les institutions européennes depuis. « Les négociants seraient bien gênés de véritablement exclure le commerce de pétrole provenant des zones de Daech, juge Marc Guéniat. Une banque française qui travaille à Genève dans le financement du négoce a décidé d’écarter totalement ce risque en cessant toute activité dans le pétrole de la région, ce qui signifie aussi en Turquie. C’est, à mon sens, le seul moyen d’être certain de ne pas écouler ce pétrole sur les marchés mondiaux. »

Les banques françaises savent bien que ce type de transaction en zones troubles peuvent leur valoir un coûteux retour de bâton. L’année dernière, c’est pour des transactions avec des régimes sous sanctions des États-Unis (Soudan, Iran, Cuba) que BNP Paribas a écopé d’une amende record de plus de six milliards d’euros. Près de trois quarts des transactions incriminées concernaient des échanges réalisés avec le régime soudanais, visé par des sanctions pour soutien au terrorisme et violations des droits de l’homme. Et c’est de vente de pétrole dont il s’agissait [7]. La première banque française a, depuis, considérablement renforcé son contrôle juridique, et serait particulièrement vigilante à ne pas s’impliquer dans les pays voisins de la Syrie.

La Suisse, paradis des commerçants de pétrole… et du trafic d’antiquités

La Suisse est aussi au cœur des préoccupations sur le commerce des antiquités pillées dans les zones occupées par Daech. Un rapport du président du Louvre, rendu public après les attentats de Paris, indique que les principaux sites antiques de Syrie et d’Irak ont fait l’objet « d’un nombre incalculable de fouilles sauvages ». La vente de ces objets viendrait, elle aussi, gonfler les finances de Daech.

« Daech a probablement récupéré les plus belles pièces du musée de Raqqa (en plus de celles volées dans les musées en Irak) pour les revendre à des trafiquants qui bénéficient de réseaux parfaitement organisés et qui existaient bien avant l’apparition de Daech », pointe le rapport. Or, il se peut que ces pièces volées se retrouvent dans les ports francs du monde entier pour y trouver acheteur. Car dans ces « paradis du recel », confidentialité et discrétion sont la règle. « Dans certains ports francs, aucune obligation d’inventaires à l’intention des douanes n’est imposée : la nature des biens entreposés, leur valeur et l’identité de leur propriétaire restent confidentiels », souligne le directeur du Louvre. Parmi ces territoires, on trouve Singapour et Shangaï, mais aussi Genève et Luxembourg. Au cœur de l’Europe.

Rachel Knaebel, avec Olivier Petitjean

Notes
[1Voir ici.
[2Voir ici.
[3Voir ici.
[4Il y a quelques jours, Reuters révélait que ces exportations se feraient notamment via Israël.
[5Après une relaxe en première instance, le parquet a requis l’amende maximale de 750 000 euros contre Total lors du deuxième procès fin octobre.
[6Voir cet article de Médiapart.
[7Voir ici la description des faits reprochés.

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