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Contra factum non valet argumentum”

lunedì 23 maggio 2016

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, il primo articolo della Costituzione fu scritto da un fascista



20 maggio 2016

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Quante volte abbiamo letto questo frase, sferzati da qualche professoressa democratica intenta a farci scoprire le meraviglie della Costituzione più bella del mondo”.
Sapevi che il primo articolo della Costituzione fu scritto da un fascista?
Eppure la frase suona come già sentita. La Carta, come sappiamo, è del 1948. Ma appena cinque anni prima, in Italia, era apparso un altro documento fondativo, che al punto 9 recitava:
“Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro manuale, tecnico, intellettuale in ogni sua manifestazione”.
Era il Manifesto di Verona della Rsi. Certo: l’articolo 1 della Costituzione contiene quella parola, “democratica”. Ma non dimentichiamo che il punto 4 della Carta di Verona recitava:
“La negativa esperienza elettorale già fatta dall’Italia e la esperienza parzialmente negativa di un metodo di nomina troppo rigidamente gerarchico contribuiscono entrambe a una soluzione che concili le opposte esigenze”.
Insomma, un sistema semi-democratico. Questo non significa che le due carte – l’una scritta nel pieno di un disperato quanto eroico esperimento rivoluzionario, l’altra scritta all’ombra dei carri armati nemici – siano moralmente equivalenti, ma indica che il preteso spartiacque etico che sarebbe sancito dalla Carta del ’48 fra la barbarie fascista e il radioso avvenire antifascista è una bella panzana.

Anche perché quel primo articolo della Costituzione fu scritto da un personaggio che con il fascismo qualche rapporto lo ebbe. Parliamo di Amintore Fanfani. Di estrazione cattolica, il futuro padre costituente ottenne nel 1936 la cattedra di storia delle Dottrine Economiche e fu un entusiasta seguace del corporativismo. In seguito collaborò con la Scuola di mistica fascista, essendone professore e scrivendo articoli per la sua rivista Dottrina fascista, finendo perfino per firmare il Manifesto della razza. Nello scritto Il problema corporativo nella sua evoluzione storica (1942), Fanfani scriveva che
“il corporativismo fascista è tornato all’idea di una costituzione organica della società; ha abbandonato i presupposti del movimento operaio precedente, relativi ad un fatale ed incontenibile cozzo degli interessi delle classi; ed ha sostenuto che per raggiungere mete di giustizia e di progresso sociale occorreva tener presente e difendere gl’interessi delle singole categorie, armonizzati tra loro […] Al di fuori ed al di sopra dell’ordinamento corporativo, ma disciplinatore e garante del suo funzionamento in armonia con i principi che lo fecero promuovere, deve ritenersi il Partito nazionale fascista, l’unico ammesso nel regime fondato da Benito Mussolini”.
Un’adesione completa, quindi, alla visione gerarchica del corporativismo fascista.

Va inoltre ricordato che Fanfani collaborò al progetto di una monumentale Storia del lavoro curata da Riccardo Del Giudice, importante sindacalista fascista. Non si trattava di un’analisi settoriale ma una vera e propria rilettura della storia della civiltà dal punto di vista del lavoro. Era una nuova interpretazione storica di ampio respiro, che emergeva. Ha scritto lo storico Giuseppe Parlato:
“L’affermazione che il lavoro […]  potesse esprimere nuovi valori e nuove gerarchie ebbe un’importanza determinante nel disegnare il ruolo preciso della nuova ‘ideologia’ fascista”. Il lavoro diventava centrale non solo nell’economia, ma nell’intera società, che doveva trasformarsi in quella “civiltà del lavoro” a cui era dedicato il “Colosseo quadrato” dell’Eur. “Colto in tale ottica, il concetto di lavoro, progressivamente, era destinato a perdere le connotazioni essenzialmente economiche che gli erano proprie, per acquisirne altre, più generali e più funzionali a una lettura e a un uso politici del concetto stesso: la storia del lavoro come momento unificante e interpretativo della storia della società”.
Il progetto fu grandioso, ma interrotto dalla guerra. Ne uscirono solo due volumi, nel 1943, uno dei quali curato proprio da Fanfani. Il quale, attenzione, dopo la guerra fu tra i sostenitori di una ripresa del progetto, che fu continuato da ambienti cattolici come se niente fosse.

Anche le idee sociali di Fanfani non erano cambiate granché. Lo si vide, appunto, al dibattito all’Assemblea Costituente. A Togliatti, che per il primo articolo voleva la formula “Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori”, e ai liberali, che preferivano una maggiore attenzione ai valori di libertà, l’esponente democristiano proponeva quella che sarebbe diventata la formulazione definitiva, spiegando:
“In questa formulazione l’espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali, i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v’è democrazia. Ma in questa stessa espressione la dizione ‘foondata sul lavoro’ vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano, quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune”.
L’idea del lavoro non solo come diritto, ma anche come dovere, peraltro, veniva dritto dritto dalla Carta del lavoro fascista. Con questo non si vuole ovviamente tessere l’elogio del “fanfascismo”, come lo chiamava Lotta continua nel ’71, o trasformare le partecipazioni statali della Prima Repubblica in un episodio della lotta del sangue contro l’oro. Andando in comodo esilio in Svizzera negli anni finali della guerra, Fanfani ha compiuto la sua scelta. E non basta certo un po’ di assistenzialismo per fare di uno Stato il nostro Stato. Ma la continuità di temi e uomini fra la riflessione fascista sul lavoro e quella presuntamente antifascista dovrebbe dare da riflettere a chi scambia l’attuale Carta costituzionale per un documento dei centri sociali.
Adriano Scianca


Con ventisei milioni di iscritti al PNF, il Partito Nazionale Fascista e gli alleati che dicevano che gli italiani non erano 45 milioni ma 90, 45 milioni di fascisti e 45 milioni di antifascisti sembrerebbe una barzelletta se non ci fossero stati centinaia di migliaia di morti dopo la guerra, altra barzelletta gli assassini han poi sempre fatto i moralisti accusando le vittime di aver fatto quello che invece avevano subito e così non se ne esce ...
Arturo Navone


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