Piero Buscaroli nel 1945, ha rischiato il linciaggio da parte di un gruppo comunista. Collaboratore di diverse testate giornalistiche, in un’intervista a Il Foglio del 21 aprile 2005 si è definito: «un superstite della Repubblica Sociale Italiana, in territorio nemico». Nel novembre dello stesso anno ricevette una segnalazione per il conferimento di un'onorificenza dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, che rifiutò. Scrisse queste parole alla direttrice dell'Ufficio Onorificenze e Araldica: «Io non desidero e non voglio alcuna onorificenza da questa repubblica. Mi parrebbe uno scherzo di cattiva specie. Fermi la macchina, La prego e non se n'abbia a male. Detesto questa repubblica. Grazie». Nel 2010 ha pubblicato "Dalla parte dei vinti – Memorie e verità del mio Novecento" (Mondadori Editore, pp 519, € 24,00). Nel 2013 ha pubblicato “Una nazione in coma”.
Interviste ne seguono tre perchè ognuna aveva qualcosa di interessante e di diverso dalle altre.
Farei notare che non dice nulla di molto diverso da quanto sostiene Gian Paolo Pansa, uomo di sinistra, anzi forse Pansa va giù pure più pesante. Altri due articoli che lo riguardano : Piero il Terribile L’arte di odiare del fascistissimo Buscaroli, che non perdona niente a nessuno, "Una nazione in coma. Dal 1793, due secoli" di Piero Buscaroli e le verità scomode .
Intervista con Piero Buscaroli
"Dalla parte dei vinti"
a cura di Francesco Algisi
17 marzo 2010
A: Dottor Buscaroli, da alcune settimane è in libreria "Dalla parte dei vinti. Memorie del mio Novecento". Perché ha deciso di pubblicare questo nuovo libro?
B: Per impedire che i tragici fatti accaduti alla fine della Seconda guerra mondiale vengano dimenticati. Le vere guerre civili, da quelle romane a quella americana, sono eterne. Finiscono le guerrette tra popoli diversi che non hanno niente da dirsi, ma le guerre civili sono eterne. Poi, quella italiana è ben più di una guerra civile…
A: In che senso?
B: Per impedire che i tragici fatti accaduti alla fine della Seconda guerra mondiale vengano dimenticati. Le vere guerre civili, da quelle romane a quella americana, sono eterne. Finiscono le guerrette tra popoli diversi che non hanno niente da dirsi, ma le guerre civili sono eterne. Poi, quella italiana è ben più di una guerra civile…
A: In che senso?
B: Nel senso che quella che ha avuto luogo da noi è stata una guerra inventata, voluta con scopi precisi da una parte. Io scrivo a un certo punto nel mio libro che il generalissimo Franco, che se ne intendeva, disse una volta che le guerre civili hanno sempre sedimenti, radici antichissime di secoli e secoli.
A: Nel libro, a pagina 35, Lei accusa l'antifascismo democratico di essersi defilato dalla storia d'Italia, mentre a pagina 38 parla dell'antifascismo comunista che «occupa il posto vuoto»…
A: Nel libro, a pagina 35, Lei accusa l'antifascismo democratico di essersi defilato dalla storia d'Italia, mentre a pagina 38 parla dell'antifascismo comunista che «occupa il posto vuoto»…
B: C'è una specie di sospiro che mi pento di non avere allargato e ingrandito oltre le 4-5 righe che gli ho dato dove dico: «gran fortuna sarebbe stata per l'Italia se nell'immensa disgrazia il partito comunista si fosse astenuto dalla guerra di briganti che stava preparando». Il partito comunista, non appena vide che era libero, decise di occupare quel posto nella vita politica italiana che gli avevano sempre negato tutti, anche i socialisti. Il Partito comunista, fin da quando il deputato Misiano fu espulso nel '21 dalla Camera, aveva l'ossessione di riconquistare un posto dominante dentro la politica italiana. Quando vide che i democratici cristiani e i liberali se la svignarono…
A: Perché se la svignarono?
B: Per paura e per opportunismo. Ebbene, il partito comunista colse al volo quest'occasione straordinaria di occupare il posto di tutti gli altri e a questo punto la "resistenza" divenne comunista, le stragi furono comuniste, la tattica comunista, la strategia comunista. Quindi non possiamo parlare di guerra civile, bensì di guerra comunista contro l'Italia. Non era guerra comunista contro i fascisti. Si noti bene che a un certo punto riprendo una espressione vera quando dico che noi fascisti non volevamo la morte di nessuno e infatti non ci fu la morte di nessuno. Mussolini riprende il potere sostenuto dai tedeschi (e questo non mi piace). Però che cosa poteva fare Mussolini dal momento che il re e Badoglio scappano?
A: Dunque, i tedeschi non furono "invasori"…
B: Nessuna espressione è falsa e malvagia come quella del tedesco invasore. Il tedesco si è trovato l'Italia fra le braccia. Il re e Badoglio abbandonarono 4/5 del territorio nelle loro mani. Che cosa dovevano fare? Tornare in Germania e dire «cari signori, ci dispiace, abbiamo sbagliato»? La storia aborre i vuoti. Qui c'era un vuoto che cominciava da piazza San Pietro: chi vedeva piazza san Pietro, vedeva la parte italiana rappresentata da paracadutisti… tedeschi, non c'era neanche più un carabiniere per sorvegliare piazza San Pietro. I tedeschi non furono invasori, furono i legittimi, legittimissimi eredi dello Stato che Badoglio e il re lasciarono loro scappando. Fino al 26 luglio mattina, ossia finché non diventano pubblici, in senso politico generale, i risultati del 25 luglio, il Reich tedesco non ha avanzato un'unghia di uno sgarro nei confronti del co-occupante italiano da Tolosa in Francia fino ad Atene e Smirne in Grecia. Non cercarono di portarci via, come dire, ebrei, non fu loro possibile e non tentarono neppure. Perché gli ordini di Hitler sono sempre stati severissimi contro tutti quei tedeschi che avessero desiderato infrangere la sovranità italiana. È il 26 luglio che si scagliano contro quello che resta della sovranità italiana e -noti bene- in questo loro scagliarsi contro la sovranità italiana i reggimenti che in seguito faranno parte della Repubblica Sociale (come quello comandato dal generale Solinas a Porta san Paolo) furono brevi scontri: non furono battaglie, non fu una guerra, furono brevi scontri di poche ore che poi si ammosciarono, si distrussero e si eliminarono da soli di fronte alla inerzia del governo scappato.
A: Non teme che il suo libro possa essere annoverato tra la memorialistica "nostalgica"?
B: In questo libro non c'è alcuna nostalgia. Io avevo compiuto 13 anni, il 21 agosto del 1943, e tre giorni dopo fu ammazzato Ettore Muti. La mia famiglia non era particolarmente filo-tedesca, mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale, mia madre aveva avuto tre fratelli morti (l'ultimo fu ucciso il 10 settembre del 1943): naturalmente loro non facevano distinzione tra tedeschi e austriaci. Non c'è nessuna nostalgia; anzi come emerge fin dalle prime righe il mio rigore e le mie antipatie di ragazzo andavano contro la fiacca inerzia del Regime fascista. Ma quando uccisero Muti, fuggiti il re e Badoglio, che cosa succede? Subentrò un vuoto assoluto che la Repubblica sociale tentò di riempire. In primo luogo, contro i tedeschi che stavano occupando tutta l'Italia; ma il nostro nemico sotterraneo -come del resto il nemico sotterraneo degli inglesi e degli americani- erano sempre russi e comunisti. La Germania era nostra alleata e "protettrice", la sola grande potenza che fosse rimasta a tutelare in qualche modo l'Italia.
A: Nel suo libro, c'è un capitolo dedicato al 25 luglio…
B: Riguardo al 25 luglio, ci furono due congiure. La congiura vera fu quella del re e degli ufficiali che volevano portare via il potere a Mussolini per trattare la pace con gli anglo-americani. E poi ci fu la congiura dei fascisti all'ultimo momento, che servì alla prima congiura per prendere il potere. Perché, se non ci fosse stato il 24 luglio con la deposizione di Mussolini ordita da Grandi e dagli altri fascisti, mai e poi mai il re, Acquarone e i generali avrebbero preso il potere. L'unico che aveva capito l'intera situazione, nell'intervallo della riunione verso le 22 del 24 luglio, fu Buffarini Guidi, il quale si avvicinò a Mussolini e gli disse: «Ma perché non chiamiamo il console Marabini coi carri Tiger che sono a Bracciano?». E Mussolini, come al solito, da quel coglione che era, non gli diede ascolto.
A: Perché non vi prestò fede?
B: Perché sopravvalutò enormemente il suo potere manovriero e soprattutto la protezione del re. Quando io mi trovai a Tokyo nel 1966, domandai all'ambasciatore Hidaka se Mussolini sapesse. Mussolini sapeva benissimo tutto quello che accadeva e sicuramente aveva confidato al re che il 28 luglio Hitler avrebbe ricevuto un telescritto con il seguente aut/aut: «o ci date più armamenti, o noi usciamo dal conflitto». Tanto che non si riesce a capire a quale Mussolini credere. Crediamo nel Mussolini che ci hanno dipinto ormai impotente, incapace, irresoluto, senza più voglia di fare politica, desideroso solo di rifugiarsi nella sua tenuta di Romagna? Così lo hanno presentato, e così lo hanno svilito per tutti questi 70 anni. Io non difendo Mussolini, sono stato tentato veramente di credere che Mussolini non avesse più voglia o capacità di fare niente, e come un qualunque Giolitti volesse tornarsene nella sua Dronero e starsene in pace anche con la riserva molto astuta di lasciare la guerra in mani di altri. Hidaka, l'ambasciatore del Giappone, mi disse che Mussolini aveva già predisposto tutto per tre giorni dopo -si noti bene!-, e queste cose Mussolini non le aveva dette sicuramente ai suoi perché tutto quello che diceva a Ciano e alle sue contesse veniva riferito all'ambasciatore d'Inghilterra presso il Vaticano e il giorno dopo gl'inglesi lo avrebbero saputo.
A: Quindi l'interrogativo su Mussolini rimane aperto…
B: Io non posso ora, con l'esperienza e lo sguardo di quello che era allora un ragazzo di tredici anni, risolvere una situazione. Rimane tuttavia dubbio tutto quello che è stato detto sul 25 luglio.
A: Proviamo a fare un passo indietro. Gli avvenimenti di cui stiamo parlando sono in qualche modo l'epilogo della Seconda guerra mondiale. L'entrata dell'Italia in questo conflitto fu davvero inevitabile? Non c'erano alternative per ...
B: L'entrata in guerra non fa parte di questo libro. Farebbe parte del secondo volume se io non avessi perduto fiducia, stima e simpatia per la Mondadori: se non fossi rimasto offeso da perdite di tempo (perfino un anno), silenzi, cambiamenti, menzogne, tutte manovre che si concretarono in tentativi di liberarsi del contratto con me.
A: Non ci può anticipare sul contenuto del secondo volume?
B: Tutto cominciò nel 1975 con una lunghissima passeggiata a Madonna di Campiglio con l'ambasciatore Pietromarchi. Nella nostra entrata in guerra, l'allora consigliere Pietromarchi era stato, nei primi mesi del 1940, quella che nel gergo diplomatico si chiama la «ragione per cui»… era stato il funzionario addetto ai rifornimenti e alla protezione della navigazione dalle insidie degli inglesi. Perché si era visto che gli inglesi, nei mesi della cosiddetta "non belligeranza", intralciavano il traffico marittimo italiano con ispezioni e umilianti intralci ancora documentati nei documenti diplomatici. Pietromarchi preparò per il Duce un quadro terribile della situazione; non si poteva andare avanti così: il traffico portoghese, quello spagnolo non venivano molestati, mentre veniva insidiato il traffico italiano con giorni e giorni di sequestri.
A: Come avvenne l'incontro con Pietromarchi?
B: Era l'estate del 1975, mi ero appena liberato dalla direzione del "Roma". Stavo facendo le vacanze in montagna, a Madonna di Campiglio, quando dalla terrazza della mia casa, vedo passare, inconfondibile per i bellissimi baffi e per la figura eretta, alto e magro, l'Ambasciatore. La strada finiva lì ed entrava in un bosco bellissimo. Mi feci coraggio, mi avvicinai a lui e gli dissi:
A: Perché se la svignarono?
B: Per paura e per opportunismo. Ebbene, il partito comunista colse al volo quest'occasione straordinaria di occupare il posto di tutti gli altri e a questo punto la "resistenza" divenne comunista, le stragi furono comuniste, la tattica comunista, la strategia comunista. Quindi non possiamo parlare di guerra civile, bensì di guerra comunista contro l'Italia. Non era guerra comunista contro i fascisti. Si noti bene che a un certo punto riprendo una espressione vera quando dico che noi fascisti non volevamo la morte di nessuno e infatti non ci fu la morte di nessuno. Mussolini riprende il potere sostenuto dai tedeschi (e questo non mi piace). Però che cosa poteva fare Mussolini dal momento che il re e Badoglio scappano?
A: Dunque, i tedeschi non furono "invasori"…
B: Nessuna espressione è falsa e malvagia come quella del tedesco invasore. Il tedesco si è trovato l'Italia fra le braccia. Il re e Badoglio abbandonarono 4/5 del territorio nelle loro mani. Che cosa dovevano fare? Tornare in Germania e dire «cari signori, ci dispiace, abbiamo sbagliato»? La storia aborre i vuoti. Qui c'era un vuoto che cominciava da piazza San Pietro: chi vedeva piazza san Pietro, vedeva la parte italiana rappresentata da paracadutisti… tedeschi, non c'era neanche più un carabiniere per sorvegliare piazza San Pietro. I tedeschi non furono invasori, furono i legittimi, legittimissimi eredi dello Stato che Badoglio e il re lasciarono loro scappando. Fino al 26 luglio mattina, ossia finché non diventano pubblici, in senso politico generale, i risultati del 25 luglio, il Reich tedesco non ha avanzato un'unghia di uno sgarro nei confronti del co-occupante italiano da Tolosa in Francia fino ad Atene e Smirne in Grecia. Non cercarono di portarci via, come dire, ebrei, non fu loro possibile e non tentarono neppure. Perché gli ordini di Hitler sono sempre stati severissimi contro tutti quei tedeschi che avessero desiderato infrangere la sovranità italiana. È il 26 luglio che si scagliano contro quello che resta della sovranità italiana e -noti bene- in questo loro scagliarsi contro la sovranità italiana i reggimenti che in seguito faranno parte della Repubblica Sociale (come quello comandato dal generale Solinas a Porta san Paolo) furono brevi scontri: non furono battaglie, non fu una guerra, furono brevi scontri di poche ore che poi si ammosciarono, si distrussero e si eliminarono da soli di fronte alla inerzia del governo scappato.
A: Non teme che il suo libro possa essere annoverato tra la memorialistica "nostalgica"?
B: In questo libro non c'è alcuna nostalgia. Io avevo compiuto 13 anni, il 21 agosto del 1943, e tre giorni dopo fu ammazzato Ettore Muti. La mia famiglia non era particolarmente filo-tedesca, mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale, mia madre aveva avuto tre fratelli morti (l'ultimo fu ucciso il 10 settembre del 1943): naturalmente loro non facevano distinzione tra tedeschi e austriaci. Non c'è nessuna nostalgia; anzi come emerge fin dalle prime righe il mio rigore e le mie antipatie di ragazzo andavano contro la fiacca inerzia del Regime fascista. Ma quando uccisero Muti, fuggiti il re e Badoglio, che cosa succede? Subentrò un vuoto assoluto che la Repubblica sociale tentò di riempire. In primo luogo, contro i tedeschi che stavano occupando tutta l'Italia; ma il nostro nemico sotterraneo -come del resto il nemico sotterraneo degli inglesi e degli americani- erano sempre russi e comunisti. La Germania era nostra alleata e "protettrice", la sola grande potenza che fosse rimasta a tutelare in qualche modo l'Italia.
A: Nel suo libro, c'è un capitolo dedicato al 25 luglio…
B: Riguardo al 25 luglio, ci furono due congiure. La congiura vera fu quella del re e degli ufficiali che volevano portare via il potere a Mussolini per trattare la pace con gli anglo-americani. E poi ci fu la congiura dei fascisti all'ultimo momento, che servì alla prima congiura per prendere il potere. Perché, se non ci fosse stato il 24 luglio con la deposizione di Mussolini ordita da Grandi e dagli altri fascisti, mai e poi mai il re, Acquarone e i generali avrebbero preso il potere. L'unico che aveva capito l'intera situazione, nell'intervallo della riunione verso le 22 del 24 luglio, fu Buffarini Guidi, il quale si avvicinò a Mussolini e gli disse: «Ma perché non chiamiamo il console Marabini coi carri Tiger che sono a Bracciano?». E Mussolini, come al solito, da quel coglione che era, non gli diede ascolto.
A: Perché non vi prestò fede?
B: Perché sopravvalutò enormemente il suo potere manovriero e soprattutto la protezione del re. Quando io mi trovai a Tokyo nel 1966, domandai all'ambasciatore Hidaka se Mussolini sapesse. Mussolini sapeva benissimo tutto quello che accadeva e sicuramente aveva confidato al re che il 28 luglio Hitler avrebbe ricevuto un telescritto con il seguente aut/aut: «o ci date più armamenti, o noi usciamo dal conflitto». Tanto che non si riesce a capire a quale Mussolini credere. Crediamo nel Mussolini che ci hanno dipinto ormai impotente, incapace, irresoluto, senza più voglia di fare politica, desideroso solo di rifugiarsi nella sua tenuta di Romagna? Così lo hanno presentato, e così lo hanno svilito per tutti questi 70 anni. Io non difendo Mussolini, sono stato tentato veramente di credere che Mussolini non avesse più voglia o capacità di fare niente, e come un qualunque Giolitti volesse tornarsene nella sua Dronero e starsene in pace anche con la riserva molto astuta di lasciare la guerra in mani di altri. Hidaka, l'ambasciatore del Giappone, mi disse che Mussolini aveva già predisposto tutto per tre giorni dopo -si noti bene!-, e queste cose Mussolini non le aveva dette sicuramente ai suoi perché tutto quello che diceva a Ciano e alle sue contesse veniva riferito all'ambasciatore d'Inghilterra presso il Vaticano e il giorno dopo gl'inglesi lo avrebbero saputo.
A: Quindi l'interrogativo su Mussolini rimane aperto…
B: Io non posso ora, con l'esperienza e lo sguardo di quello che era allora un ragazzo di tredici anni, risolvere una situazione. Rimane tuttavia dubbio tutto quello che è stato detto sul 25 luglio.
A: Proviamo a fare un passo indietro. Gli avvenimenti di cui stiamo parlando sono in qualche modo l'epilogo della Seconda guerra mondiale. L'entrata dell'Italia in questo conflitto fu davvero inevitabile? Non c'erano alternative per ...
B: L'entrata in guerra non fa parte di questo libro. Farebbe parte del secondo volume se io non avessi perduto fiducia, stima e simpatia per la Mondadori: se non fossi rimasto offeso da perdite di tempo (perfino un anno), silenzi, cambiamenti, menzogne, tutte manovre che si concretarono in tentativi di liberarsi del contratto con me.
A: Non ci può anticipare sul contenuto del secondo volume?
B: Tutto cominciò nel 1975 con una lunghissima passeggiata a Madonna di Campiglio con l'ambasciatore Pietromarchi. Nella nostra entrata in guerra, l'allora consigliere Pietromarchi era stato, nei primi mesi del 1940, quella che nel gergo diplomatico si chiama la «ragione per cui»… era stato il funzionario addetto ai rifornimenti e alla protezione della navigazione dalle insidie degli inglesi. Perché si era visto che gli inglesi, nei mesi della cosiddetta "non belligeranza", intralciavano il traffico marittimo italiano con ispezioni e umilianti intralci ancora documentati nei documenti diplomatici. Pietromarchi preparò per il Duce un quadro terribile della situazione; non si poteva andare avanti così: il traffico portoghese, quello spagnolo non venivano molestati, mentre veniva insidiato il traffico italiano con giorni e giorni di sequestri.
A: Come avvenne l'incontro con Pietromarchi?
B: Era l'estate del 1975, mi ero appena liberato dalla direzione del "Roma". Stavo facendo le vacanze in montagna, a Madonna di Campiglio, quando dalla terrazza della mia casa, vedo passare, inconfondibile per i bellissimi baffi e per la figura eretta, alto e magro, l'Ambasciatore. La strada finiva lì ed entrava in un bosco bellissimo. Mi feci coraggio, mi avvicinai a lui e gli dissi:
«Sono l'ex direttore del "Roma". Mi sono permesso di accostarla perché ho una domanda che mi tormenta da anni. È una domanda difficile, temo che possa anche offenderla. Per tutti quelli che si occupano della Seconda guerra mondiale, sua è la firma del diplomatico di carriera messa accanto alla decisione di Mussolini di entrare in guerra; il suo rapporto sulla navigazione fu sempre considerato come il pretesto che Mussolini si era preparato per giustificare l'entrata in guerra prima di tutti col re. Le impazienze di Vittorio Emanuele erano ben conosciute nel marzo-aprile del 1940. Con tutti quelli che lo avvicinavano diceva di Mussolini "quel cretino non approfitta delle conquiste tedesche, che cosa aspetta"».A: E che cosa le disse Pietromarchi ?
B: «Certamente quel mio rapporto fu una giustificazione e una spiegazione». Gli chiesi: «Ma lei ebbe mai l'impressione, mentre faceva quel rapporto, di assecondare un desiderio del Capo del governo? Ebbe la coscienza di fare, in poche parole, quello che Mussolini voleva per avere una motivazione accertata e approvata dal tecnico della situazione, com'era lei, per entrare in guerra?». Mi rispose con questa frase:
«Io non mi sarei mai prestato e Mussolini non me lo avrebbe mai chiesto» e aggiunse: «Per quanto si possa considerare bene o male, Mussolini aveva per il funzionario una correttezza e un rispetto tali che non avrebbe mai chiesto una cosa come questa; certo, io dissi che in quella situazione in cui eravamo giunti (maggio 1940) non poteva fare a meno, se voleva tutelare l'onore e il prestigio dell'Italia, di entrare in guerra; ma questo non vuole dire che io approvassi la sua politica. La disapprovavo fin da quando nel 1936 col patto di Stresa si era messo in condizione un giorno di essere prigioniero degli inglesi e dei francesi».Comunque, tutto quello che riguarda l'entrata in guerra non ha posto in questo libro… "Dalla parte dei vinti" riguarda le vendette alla fine della Seconda guerra mondiale da privati assassini. Io non posso permettere che sia dimenticato quello che è stato fatto agli uomini della nostra parte e non posso permettere a delle persone come l'attuale ministro della Difesa, nella piazza di un paesino d'Abruzzo chiamato Onna, l'anno scorso, fregandosi le mani davanti alla città, di dire che «siamo arrivati finalmente alla memoria condivisa». Io dico condivisa un corno!!! Non condivideremo mai niente!!! Ho fatto questo libro perché i nipoti e i pronipoti di quelli che furono uccisi non condividano mai niente con questi assassini! È chiaro? Io, a 59 anni di distanza da quei tragici fatti, non riesco ancora a dimenticare... L'Italia è piena di stragi come quella di Urgnano, vicino a Bergamo, che sono considerate "eventi bellici" dalla giurisprudenza vigente: nel maggio dell'anno scorso una corte di Firenze ha punito un senatore e un consigliere comunale della vecchia Alleanza Nazionale perché non avevano detto che il Fanciullacci -l'assassino di Giovanni Gentile- aveva compiuto un'impresa di guerra. Finché si continuerà ad avere una legislazione in cui l'uccisione del senatore Gentile viene considerata un'azione di guerra, non è possibile che questo Paese risorga verso una vita decente.
A: "Dalla parte dei vinti" è stato pubblicato da un grande editore come Mondadori. Vuol dire che qualcosa -nel panorama editoriale italiano- sta cambiando?
B: Non so. Non capisco ancora. C'è un marasma morale insondabile. Più che una crisi di valore, un inabissamento di tutti valori. Ma dalla disgrazia, dalla paura che per 65 anni ha paralizzato questo popolo, sta sorgendo una insofferenza verso il passato, di due generazioni. Insorgono nipoti e pronipoti che rifiutano di accettare il macello, come io l'ho chiamato, assai peggiore che la strage, durato cinque anni dopo la fine della guerra.
A: Lei dedica diversi capitoli ai "crimini dei vincitori", in particolare alle vittime dei bombardamenti anglo-americani. Non crede che sarebbe opportuno istituire -visto che ormai si dedicano giornate della memoria alle vittime di diversi eventi storici drammatici- una giornata per ricordare le vittime dei bombardamenti anglo-americani?
B: Non lo faranno mai, perché per loro solo le vittime dei tedeschi sono vittime: le vittime degli americani sono sacrifici malinconici ma inevitabili, dovuti. Le vittime che i partigiani hanno imposto ai tedeschi furono neppure 10.000; le vittime degli americani e degli inglesi sono state 70.000. Ma, per loro, i bambini di Gorla sono sacrifici dovuti. Deplorare gli inglesi, gli americani? Non lo faranno mai. Berlusconi che tocca gli americani?!? Gli americani hanno fatto del bene, hanno salvato l'Italia, e Berlusconi non ha voluto personalmente che si facesse un cimitero a Nettuno… Nel primo capitolo sul terrorismo aereo, ho dimostrato che la strategia tedesca non era fatta per bombardare le popolazioni, ma era espressa da un monomotore da bombardamento preciso che era lo Stuka. La strategia anglo-americana, invece, era rappresentata da quadrimotori che portavano in seno delle montagne di bombe e continuarono a buttare montagne di bombe fino all'ultimo giorno di guerra. Qui c'era un paese vicino a Bologna che fu distrutto l'ultimo giorno di guerra… Non avevano pace finché non distruggevano tutto… Ho visto la piattaforma di Brest, che era un porto militare francese sulla Manica, distrutta come erano state distrutte le città tedesche e italiane perché gli americani e gli inglesi non avevano pace se non distruggevano l'Europa. Tutte le città a partire da Dresda non avevano un minimo significato militare, poche città tedesche hanno protestato per questo. Si considera, ancora oggi, Churchill una persona buona da un punto di vista individuale: le decisioni provate lo presentano come un assassino, assai peggio di Hitler.
A: Non è un po' tardi, dopo quasi settant'anni, per riprendere un motivo come quello delle stragi dopo la guerra?
B: Non c'è un sentimento tardivo nella pubblicazione di un libro come questo. Ci sono il presagio, la speranza di un altro futuro, come invocò Alessandro Pellegrini, un forte avvocato, la sera del 9 marzo a Bologna. Non vogliamo la condivisione, la mescolanza, la confusione che invocano ministri opportunisti e traditori. Non ci sentiremo mai uguali a loro. Impediremo l'imbroglio ignobile. Non c'è più il sentimento della vendetta, tardiva e impossibile. Ma una netta, fierissima divisione delle tracce scavate nel terreno della nostra storia. Il tempo dirà se ci saremo riusciti.
28 giugno 2010
B. Mi fecero diventare fascista a furia di calci e di botte, dopo la guerra, quando avevo tredici anni. Guardi io non mi inginocchio di fronte al Nazareno, ma sulla tomba del sergente maggiore Guido Minardi, ogni venticinque Maggio. Fu un assassinio avvenuto a tradimento, lo stesso giorno della morte di Mussolini; nella terminologia ufficiale si chiama la fine della guerra e l’inizio della Liberazione, quando cioè i vinti avrebbero dovuto avere salva la vita. Il fatto fondamentale è che invece non c’è nella storia una separazione tra l’una e l’altra. Come sono da considerarsi i massacri e le atrocità nei confronti del vinto? Vergogne che ancora si ripetono e che vengono proclamate azioni di guerra, come ancora l’anno scorso ha deciso la corte d’appello di Firenze nel caso Gentile. Questo libro vuole respingere la legittimità di proclamare non punibili azioni di guerra quelli che sono stati assassinii e lo restano. Quando La Russa ha dichiarato che oggi stiamo arrivando alla condivisione, che vuol dire l’identificazione di un popolo in una sola versione, mi sono detto che bisognava rifare tutto, che occorreva spiegare agli italiani che la dignità e l’onestà nazionale non si conciliano con la legislazione attuale.
L. Poiché questa Costituzione nasce dalla resistenza?
B. Certo! Noi siamo un popolo che cerca di dimenticare non un morto o due di un terrorismo, figlio legittimo di tutte le Armate Rosse. Parliamo di decine di migliaia di morti non conteggiati, che non fanno parte delle statistiche, che non entrano nell’elenco dei caduti della Repubblica Sociale; mancano all’appello almeno cinquantamila caduti, miratamente cancellati.
L. Come si fa a rovesciare questa ingiustizia?
B. Appunto,come si fa? Ho scritto Dalla parte dei vinti per far nascere negli italiani la vergogna di se stessi. A me non interessa colpire Mussolini, che decise di entrare in guerra; a parte il fatto che il re Vittorio Emanuele II secondo fremeva perché l’Italia entrasse in guerra, vedeva la Germania vincere e Mussolini gli appariva un esitante imbecille. Non può una Repubblica adagiarsi sul letto sciagurato e insultato di migliaia e migliaia di morti senza appello.Certamente la Repubblica francese è molto peggio della nostra: usa come inno la Marsigliese, che è un inno criminale. Non si possono educare le generazioni dimenticando; eppure tutti contano sulla dimenticanza di misfatti che il passare del tempo insabbia.
L. Questo non è un libro di memorie, ma della memoria?
B. E’ da consegnare ai giovani italiani perché imparino l’onore e la dignità militare che i partigiani non hanno mai avuto e mai saputo. Si dovrebbe recuperare questo senso dell’onore nazionale che non c’è e mi permetto di richiamare il Presidente della repubblica – già noto per le sue tenerezze di Budapest – dichiarando che la dignità e l’onore dell’Italia non sono soltanto dei terroristi, ma di tutta quella di gente trattata da ignota. Non ha senso civile una Repubblica che nasca da una montagna di morti di cui la legge dice che sono stati assassinati giustamente.
L. Non ha quindi senso parlare di unità d’Italia?
B. Esattamente, e come si potrebbe mai quando non si riconosce ai vinti l’aver subito la delinquenza perfida, patologica, abnorme che noi stiamo vivendo sulla nostra memoria, che è figlia del sadismo e dell’arte di far male propri alla resistenza? Non c’è mai stato un momento leale di riconciliazione perché non c’è mai stato un momento di riconoscimento. Il nostro tricolore è la brutta copia di quella schifezza che è il tricolore francese.
L. La ricostruzione economica dell’Europa ha significato la sua demolizione spirituale?
B. La decadenza spirituale è stata quasi unicamente un influsso americano. Ma non bisogna parlare troppo d’Europa: è un’invenzione postuma degli intellettuali per la quale mai nessuno ha agito in suo nome; è stata una speranza, un’invocazione perduta. Essa ha sempre fatto la guerra con se stessa, non ha mai avuto un’anima sola, o meglio ha avuto un’anima falsa, il Cristianesimo. L’Europa. Questa è l’Europa: Carlo Magno, Napoleone e Hitler; sono le tre volte nella storia in cui le forze militari si sono convogliate verso uno scopo. Oppure è una realtà geografica.
L. Lei crede che la nostra storia, così com’è stata e non per come la raccontano, finirà mai in maniera credibile sui testi scolastici?
B. Mai, perché non avremo mai un popolo né una classe dirigente. Tutto ciò che siamo è destinato a esaurirsi entro breve. Nelle scuole ci vorrebbero duecento tipi come me che combattessero questa battaglia tutti i giorni, avendo a disposizione gli strumenti che io non ho mai avuto. Ma non vale la pena per questi italiani. E poi queste cose non si pensa di farle a quarant’anni quando avresti l’energia, ma a settanta, quando si acquista la maturità della visione, che vuol dire riuscire ad accettare o a scartare un problema in due ore invece che in due anni. Un uomo è maturo quando si mette di fronte a un sì o a un no. E’ il tempo che passa che guida le nostre vita, null’altro. I giovani, compresi i più valenti, non sentono più questa esigenza di scavare e di mettere in luce. Certo, bisognerebbe ricominciare e rifare, ma poi da dove? Tutto quello che resta in Italia resta al macero, questo è il destino che gli spetta.
L. Dipende dal carattere degli Italiani, immagino
B. Gli Italiani non sono capaci di mantenere un proposito, di studiarlo, di definirlo. Mussolini per primo, insieme ai suoi collaboratori, che – esclusi pochissimi – erano come la classe dirigente che ci ritroviamo oggi, anche se un po’ più educata, usava ancora, ai tempi. Il grande ministro Bottai non spese una parola contro le leggi razziali e né Marconi né D’annunzio ebbero la presenza e l’onesta di dire al duce che stava facendo una follia. Nessuno dei capi fascisti ebbe il coraggio di indicare o di deviare Mussolini. Così è la razza. L’Italia non è neanche un’ambizione di poeti, ma di letterati. Massimo d’Azeglio sapeva bene cosa volesse dire fare gli italiani, cioè fare l’educazione, le buone maniere, l’onestà, il coraggio, la disciplina. Nessuno ha fatto gli Italiani; Mussolini ci ha provato, ma si stufava, cambiava oggetto, cambiava uomini giungendo a un nulla di fatto.
L. I moderati sono peggiori però degli estremisti?
B. (Prende carta e penna e scrive – secondo un’equazione filosofica – moderazione = avere paura di tutto). Il moderato si mette sempre nelle condizioni di non dover mai compromettere la pelle. E’ colui che non vuole offendere l’educazione degli altri, che non vuole cambiare la cultura e che quindi resta a mezzo in tutto e non è nulla. La paura lo fa scappare e quando non può allora cambia le proprie affermazioni e posizioni. I moderati sono gli artisti dell’arte di corrompere le proprie parole e, per confermarle di non averle mai dette, smettono di pensarle. Sono terribili!
B. La decadenza spirituale è stata quasi unicamente un influsso americano. Ma non bisogna parlare troppo d’Europa: è un’invenzione postuma degli intellettuali per la quale mai nessuno ha agito in suo nome; è stata una speranza, un’invocazione perduta. Essa ha sempre fatto la guerra con se stessa, non ha mai avuto un’anima sola, o meglio ha avuto un’anima falsa, il Cristianesimo. L’Europa. Questa è l’Europa: Carlo Magno, Napoleone e Hitler; sono le tre volte nella storia in cui le forze militari si sono convogliate verso uno scopo. Oppure è una realtà geografica.
L. Lei crede che la nostra storia, così com’è stata e non per come la raccontano, finirà mai in maniera credibile sui testi scolastici?
B. Mai, perché non avremo mai un popolo né una classe dirigente. Tutto ciò che siamo è destinato a esaurirsi entro breve. Nelle scuole ci vorrebbero duecento tipi come me che combattessero questa battaglia tutti i giorni, avendo a disposizione gli strumenti che io non ho mai avuto. Ma non vale la pena per questi italiani. E poi queste cose non si pensa di farle a quarant’anni quando avresti l’energia, ma a settanta, quando si acquista la maturità della visione, che vuol dire riuscire ad accettare o a scartare un problema in due ore invece che in due anni. Un uomo è maturo quando si mette di fronte a un sì o a un no. E’ il tempo che passa che guida le nostre vita, null’altro. I giovani, compresi i più valenti, non sentono più questa esigenza di scavare e di mettere in luce. Certo, bisognerebbe ricominciare e rifare, ma poi da dove? Tutto quello che resta in Italia resta al macero, questo è il destino che gli spetta.
L. Dipende dal carattere degli Italiani, immagino
B. Gli Italiani non sono capaci di mantenere un proposito, di studiarlo, di definirlo. Mussolini per primo, insieme ai suoi collaboratori, che – esclusi pochissimi – erano come la classe dirigente che ci ritroviamo oggi, anche se un po’ più educata, usava ancora, ai tempi. Il grande ministro Bottai non spese una parola contro le leggi razziali e né Marconi né D’annunzio ebbero la presenza e l’onesta di dire al duce che stava facendo una follia. Nessuno dei capi fascisti ebbe il coraggio di indicare o di deviare Mussolini. Così è la razza. L’Italia non è neanche un’ambizione di poeti, ma di letterati. Massimo d’Azeglio sapeva bene cosa volesse dire fare gli italiani, cioè fare l’educazione, le buone maniere, l’onestà, il coraggio, la disciplina. Nessuno ha fatto gli Italiani; Mussolini ci ha provato, ma si stufava, cambiava oggetto, cambiava uomini giungendo a un nulla di fatto.
L. I moderati sono peggiori però degli estremisti?
B. (Prende carta e penna e scrive – secondo un’equazione filosofica – moderazione = avere paura di tutto). Il moderato si mette sempre nelle condizioni di non dover mai compromettere la pelle. E’ colui che non vuole offendere l’educazione degli altri, che non vuole cambiare la cultura e che quindi resta a mezzo in tutto e non è nulla. La paura lo fa scappare e quando non può allora cambia le proprie affermazioni e posizioni. I moderati sono gli artisti dell’arte di corrompere le proprie parole e, per confermarle di non averle mai dette, smettono di pensarle. Sono terribili!
L’intervista. Piero Buscaroli: “Fascista per disciplina. Credo nelle cose, non negli uomini”
di Bruno Giurato
3 febbraio 2013
Bologna – Altro che Piero il terribile: cortese, cortesissimo, spunta in cima alle scale della casa nel centro di Bologna, lo sguardo da Re Leone. Al telefono aveva detto: «È passato a trovarmi un reduce della RSI. Aveva perso la guerra e alla fine era in pace. Io non l’ho fatta perché ero troppo piccolo, ed è finita che ho dovuto odiare al posto loro. Per sessant’anni».
Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro… Mi hanno trovato un po’ di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing)(sic. "Una Nazione in Coma" NdR). C’è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all’animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare.
Ma a 82 anni Buscaroli più che di combattere ha voglia di raccontare, intrattenere, perfino ridere: «Gli dei mi avevano assicurato che nel 2012 sarei morto. Invece dicono tutti che sto bene, se lo dicono loro… Mi hanno trovato un po’ di diabete. Raccontava un amico napoletano, Oderisio Piscicelli Taeggi, ufficiale del Regio Esercito: il diabete è la malattia più deliziosa del mondo. È una schermaglia quotidiana con la glicemia». Storia, giornalismo, musicologia: Buscaroli ha scritto «in guerra». «Il mio Beethoven ha corretto più di 150 dati storici. Per decenni mi sono domandato se avrei avuto la forza di prendere per il collo questo gigante. Mi sono chiuso nella casa in campagna, a Monteleone, per quattro anni: mangiavo e dormivo quando capitava. Una volta ebbi un collasso, se ne accorsero in tempo per fortuna». Ma Dalla parte dei vinti (Mondadori, 2010) è una controstoria italiana, risentita, sì, però piena di dati, episodi, cose. E ora La bancarotta dei vincitori (uscirà in primavera per Minerva edizioni, pare gli abbiano assicurato la massima libertà e il minimo di editing)(sic. "Una Nazione in Coma" NdR). C’è il revisionismo «alla Buscaroli», ma anche i pezzi dal Vietnam, pieni di vitalismo e curiosità; e i ricordi dei maestri. Oltre all’animo eracliteo da Polemos signore di tutte le cose, emerge la gioia sottile di raccontare.
G. Nel libro emerge un Leo Longanesi inaspettato: uomo dalle idee «ferme e forti».
B. «Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?. Rispose: Con tutto quello che si sapeva l’uno dell’altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».
G. Prego.
B. «Appena prima di morire voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall’Italia».
G. Come lei…
B. «Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».
G. Anche sotto il fascismo?
B. «Già allora l’Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l’astuzia di dire a Mussolini: stai facendo una porcata con le leggi razziali».
G. E chi si salva?
B. «Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell’ospizio».
G. Un italiano buono, e zitto…
B. «Appartenere a una parte o all’altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, per disciplina come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch’io lo sono, per disciplina».
G. Ma non è stato tenero con l’Msi.
B. «Negli anni ’50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano rifondare la destra invitarono Longanesi e me. C’erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza… Mentre parlavano di vecchi ideali, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?».
G. Non apprezzava Almirante. Chissà Fini…
B. «Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».
G. I politici di oggi?
B. «Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l’altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».
G. Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.
B. «Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni ’50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l’aveva scaricato crudamente, e lui l’aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: È l’ultimo dispetto che potevi farmi».
G. E veniamo a uno che la nomea di evitabile l’ha avuta per decenni, Mario Praz.
B. «La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell’anno, era il ’59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d’istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: Pensi che l’ho copiata dal duca di Bedford. È questa qui».
G. La sua passione per il collezionismo?
B. «Io credo nelle cose, non credo negli uomini».
G. Regalò una moneta d’argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal ’65 al ’67…
B. «Inviai a Ky un esemplare delle due lire d’argento del 1923, col fascio littorio e la scritta Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».
G. Quale idea?
B. «Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».
G. Il suo incontro con Ky…
B. «Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».
G. In Vietnam incontrò Susanna Agnelli…
B. «Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico…».
G. Per lei la guerra è continuata.
B. «Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l’altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».
G. Come?
B. «Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all’esistenza di questo vescovo…».
* da Il Giornale del 3 febbraio 2013
B. «Non ci demmo mai del tu. Ma era lo stesso con il suo grandissimo amico Giovanni Ansaldo, cui una volta domandai: ma come mai, con la dimestichezza che avevate avete continuato a darvi del lei fino alla fine?. Rispose: Con tutto quello che si sapeva l’uno dell’altro, se ci si dava del tu che troiaio veniva fuori!. Su Longanesi le confesso una cosa esplosiva».
G. Prego.
B. «Appena prima di morire voleva andarsene in America con una ragazza lunga, di belle fattezze, che chiamavamo la Cannavòta. Aveva raccolto molti soldi, era pronto. Forse non avrebbe avuto il coraggio di lasciare la moglie, che aveva annusato qualcosa, e i figli. Era disgustato dall’Italia».
G. Come lei…
B. «Ho rifatto i conti con il passato almeno tre volte. Gli italiani buoni non sono mai esistiti. O meglio, gli italiani buoni non parlano. E sono pochissimi».
G. Anche sotto il fascismo?
B. «Già allora l’Italia era quella di adesso. Nessuno degli intellettuali, da Benedetto Croce a Marconi, ebbe il tempismo o l’astuzia di dire a Mussolini: stai facendo una porcata con le leggi razziali».
G. E chi si salva?
B. «Un episodio. A Imola, quello che poi divenne il comandante delle Brigate Nere di mestiere faceva il direttore di un ospizio. I soli ricchi ebrei a Imola erano la famiglia Fiorentino: padre e madre riuscirono a scappare, lasciando lì il padre della moglie, il generale Gallicchi. Fu aiutato da questo gerarca, e accolto nell’ospizio».
G. Un italiano buono, e zitto…
B. «Appartenere a una parte o all’altra dipende da un momento, dal Caso. Mio padre era fascista, per disciplina come disse, con frase bellissima, Edda Ciano. Senza farsi tante domande. Anch’io lo sono, per disciplina».
G. Ma non è stato tenero con l’Msi.
B. «Negli anni ’50. Un gruppo di politici e intellettuali che volevano rifondare la destra invitarono Longanesi e me. C’erano De Marzio, Tedeschi, Guglielmi. E Arturo Michelini, che aveva scarpe bianche, di una bellezza… Mentre parlavano di vecchi ideali, guardavo Longanesi, abbacinato dalle scarpe. Poi sbottò: Ma lei! Come si fa a parlare di destra con quelle scarpe lì?».
G. Non apprezzava Almirante. Chissà Fini…
B. «Il peggiore di tutti. Una volta mi invitò a Faenza. Fece due comizi tutti uguali, comprese le congiunzioni. Un nulla totale».
G. I politici di oggi?
B. «Bersani dice cose serie, sensate, ma non lo voto. Berlusconi è stato una delusione, anche se l’altra sera da Santoro ha fatto una cosa divertentissima, sul piano della farsa».
G. Torniamo ai buoni e ai belli di cui parla nel libro: Vincenzo Cardarelli.
B. «Montale, che non gli fu amico, scrisse che era stato lo scopritore del vero Leopardi, quello dello Zibaldone e delle Operette morali. Ma quando lo conobbi, a Roma, negli anni ’50 era un fagotto. Stava al primo caffè di via Veneto, aveva sempre freddo. Era nato naufrago, abbandonato dal padre. Longanesi l’aveva scaricato crudamente, e lui l’aveva capito. Una volta avrebbe dovuto portarselo dietro alla mostra che organizzava al Sistina, ma lo lasciò lì. Longanesi era capace di freddezze assolute. Quando Longanesi morì Cardarelli disse: È l’ultimo dispetto che potevi farmi».
G. E veniamo a uno che la nomea di evitabile l’ha avuta per decenni, Mario Praz.
B. «La casa della vita era il più grande libro italiano dopo Lemmonio Boreo di Soffici. Ma quell’anno, era il ’59, il premio andò a Il Gattopardo. Scrissi una recensione, me ne ringraziò, e iniziò il nostro rapporto. Antidemocratico d’istinto. Timido, piede caprino, occhio torto. Una volta andai da lui, vidi una magnifica libreria, gli chiesi di copiarla. Mi disse: Pensi che l’ho copiata dal duca di Bedford. È questa qui».
G. La sua passione per il collezionismo?
B. «Io credo nelle cose, non credo negli uomini».
G. Regalò una moneta d’argento a Nguyen Cao Ky, primo ministro sud-vietnamita dal ’65 al ’67…
B. «Inviai a Ky un esemplare delle due lire d’argento del 1923, col fascio littorio e la scritta Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora. Avevo una mia idea della guerra in Vietnam. Convinsi, con fatica, Tedeschi e Giovannini a spedirmici come inviato».
G. Quale idea?
B. «Stavo con i vietnamiti del Sud, gravati dalla divisa americana. Capii che il vero coraggio stava dalla loro parte: considero i sudvietnamiti come la RSI».
G. Il suo incontro con Ky…
B. «Sapeva che non avrebbero vinto. Come premio i generosi americani gli diedero una pompa di benzina. Gli americani sono il peggio, peggio dei russi. E ora sono contento perché rimarranno fregati dai cinesi».
G. In Vietnam incontrò Susanna Agnelli…
B. «Egisto Corradi e io credevamo fosse arrivata come crocerossina. E invece era lì, puntualizzò, come inviata da una lega di società di Croce rossa. Approfittava dei mezzi di trasporto degli americani ma stava con i vietcong. Piena di snobismi, raccontava delle serate con Moravia e la Maraini chiamandoli Dacia e Alberto. Mi venne alla mente la delicata poesia di Dacia: Ti orinerò sulle mani, mio tanto amico…».
G. Per lei la guerra è continuata.
B. «Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l’altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».
G. Come?
B. «Nel 1970, quel farabutto di Willy Brandt volle fare un regalo in danaro al Vaticano, in occasione della sua visita a Roma. Quando i tedeschi cercarono di capire le reazioni, raccontai che un importantissimo vescovo lituano faceva notare che si aspettava molto di più da una potenza come la Germania. Tutti credettero all’esistenza di questo vescovo…».
* da Il Giornale del 3 febbraio 2013
Piero Buscaroli, nato nel 1930, dopo il liceo classico studia organo, armonia e contrappunto con Ireneo Fuser, si laurea in Storia del diritto italiano con Giovanni de Vergottini. Nel 1955 Leo Longanesi lo chiama al "Borghese", vi rimane con Mario Tedeschi fino al 1977. Inviato in musica e guerre, corre tra festival e invasioni, Palestina, Praga, Vietnam. Dopo quattro anni alla direzione di un quotidiano a Napoli, lascia il giornalismo politico, accetta una cattedra nei conservatori di Stato a Torino, Venezia, Bologna. Nel 1979 Montanelli gli offre la critica musicale del "Giornale". Pubblica: "La stanza della musica" (Fogola 1976), "La nuova immagine di Bach" (Rusconi 1982), "Bach" (Mondadori 1985), "Johannes Brahms a Bologna e in Romagna" (Nuova Alfa Editoriale 1988), "La morte di Mozart" (Rizzoli 1996), "Beethoven" (Rizzoli 2004), "Al servizio dell'Imperatore" (Marietti 1820 2006), "L'imbroglio del Requiem" (Zecchini 2006). E tra storia politica e arte: "Figure & Figuri" (Volpe 1977), "I luoghi e il tempo" (Fogola 1979), "La vista, l'udito, la memoria" (Fogola 1987), "Paesaggio con rovine" (Camunia 1989), "Gabriel musico maestro di simboli labirinti & terremoti" (Zecchini 2007).
Fonti fncrsi mirorenzaglia barbadilloArticoli correlati
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