Prigionieri italiani a Ragusa (da archivio privato) di Andrea D'Orazio 8 giugno 2007 |
Sicilia, 1943. Un carro armato fermo sul ciglio di una strada. Vicino, un drappello di soldati distribuisce cioccolata ai ragazzini. È una delle tante foto di guerra, stereotipo della vittoria: gli americani che regalano libertà alla popolazione. Un’immagine circondata da un’aurea di sacralità. Dalla solennità di una memoria ufficiale che vuole un solo carnefice e un solo giustiziere. Eppure, accanto a questa memoria, ne esiste una collettiva che alle volte emerge, senza parte e bandiera, forse meno austera ma non per questo apocrifa.
Ebbene, la storia dei libri ci dice che il 10 luglio del 1943 divisioni di fanteria inglesi e americane sbarcarono sulle coste sicule, dando vita alla cosiddetta operazione Husky, uno dei più grandi D-Day della seconda guerra mondiale. La Settima Armata americana era comandata dal generale George Smith Patton, amante della guerra, temuto dagli altri ufficiali per il carattere risoluto che gli valse il soprannome di “generale d’acciaio”. Sbarcata nella zona costiera di Ragusa, la 45° divisione dell’Armata si diresse verso est per la conquista degli aeroporti di Biscari e Comiso.
il luogo dove furono uccisi due soldati tedeschi a Biancavilla |
In particolare, il battaglione della 180° fanteria, dopo sanguinosi scontri con le truppe dell’asse italo-tedesco, il 12 luglio riuscì a conquistare la città di Biscari, l’attuale Acate (Ragusa), quindi a puntare verso il piccolo aeroporto, voluto da Mussolini nel ’41, in mano alla Luftflotte tedesca. Ed è proprio a partire da quel giorno e da quel luogo che, accanto alla storia ufficiale, si affianca la memoria orale e collettiva del piccolo borgo di Piano Stella: 38 poderi di pochi ettari ciascuno, a 7 chilometri da Acate, verso Catania.
Una memoria ancora viva, nelle parole di chi allora era ragazzo e passava le giornate a coltivare frumento nel terreno di famiglia. «Giornate intense, specie prima e dopo lo sbarco», ricorda Giuseppe Ciriacono, il più piccolo di otto fratelli, «con i continui bombardamenti degli alleati». Tanto che, vanga alla mano, i coloni del borgo pensarono bene di costruire un rifugio antiaereo, rudimentale ma efficace. Giuseppe al tempo aveva 13 anni, e abitava nel podere n. 26. Il suo racconto è il prologo di una tragedia. Alle undici del 12 luglio un paracadutista americano si presenta davanti al podere n. 24, gestito dalla famiglia Smerlo. È ferito e i coloni gli prestano le prime cure. Poche ore più tardi altri americani alla guida di una jeep entrano nel podere, caricano il ferito e vanno via.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, un carro armato si ferma davanti casa Smerlo e spara alle finestre. Nell’abitazione ci sono anche la madre e i fratelli di Giuseppe, mentre il ragazzo, insieme al padre e a quattro amici dei Ciriacono, si trova nel rifugio.
I vicini degli Smerlo, Nicolò Marcinnò e il figlio Francesco, escono di casa a braccia alzate. Francesco viene subito ucciso. Poche ore dopo, un drappello di americani circonda il rifugio antiaereo e ordina ai contadini di uscire e marciare verso la città di Biscari.
Una memoria ancora viva, nelle parole di chi allora era ragazzo e passava le giornate a coltivare frumento nel terreno di famiglia. «Giornate intense, specie prima e dopo lo sbarco», ricorda Giuseppe Ciriacono, il più piccolo di otto fratelli, «con i continui bombardamenti degli alleati». Tanto che, vanga alla mano, i coloni del borgo pensarono bene di costruire un rifugio antiaereo, rudimentale ma efficace. Giuseppe al tempo aveva 13 anni, e abitava nel podere n. 26. Il suo racconto è il prologo di una tragedia. Alle undici del 12 luglio un paracadutista americano si presenta davanti al podere n. 24, gestito dalla famiglia Smerlo. È ferito e i coloni gli prestano le prime cure. Poche ore più tardi altri americani alla guida di una jeep entrano nel podere, caricano il ferito e vanno via.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, un carro armato si ferma davanti casa Smerlo e spara alle finestre. Nell’abitazione ci sono anche la madre e i fratelli di Giuseppe, mentre il ragazzo, insieme al padre e a quattro amici dei Ciriacono, si trova nel rifugio.
I vicini degli Smerlo, Nicolò Marcinnò e il figlio Francesco, escono di casa a braccia alzate. Francesco viene subito ucciso. Poche ore dopo, un drappello di americani circonda il rifugio antiaereo e ordina ai contadini di uscire e marciare verso la città di Biscari.
Soldato tedesco ucciso nei pressi dell'aeroporto di Biscari |
A pochi metri da Acate, i militari si fermano presso una casa rurale, radunano i contadini sotto un albero e li freddano a colpi di mitra. Tutti, tranne Giuseppe, che viene allontanato a un soldato, ma fa in tempo a sentire le grida del padre.
Cinque i morti, tra i quali Sebastiano Curciullo, 14 anni. Un eccidio senza nessun colpevole: nella memoria di Ciriacono non resta alcun nome da poter giudicare. Soltanto volti, frasi incomprensibili, e una domanda, ossessiva perché uccidere dei contadini inermi? Domanda che resta ancora in sospeso e fa eco al processo che si è aperto a Palermo. Un processo che riguarda fatti altrettanto dolorosi, collegati alle esecuzioni di Piano Stella come coda di un’unica, veloce processione di sangue.
Cinque i morti, tra i quali Sebastiano Curciullo, 14 anni. Un eccidio senza nessun colpevole: nella memoria di Ciriacono non resta alcun nome da poter giudicare. Soltanto volti, frasi incomprensibili, e una domanda, ossessiva perché uccidere dei contadini inermi? Domanda che resta ancora in sospeso e fa eco al processo che si è aperto a Palermo. Un processo che riguarda fatti altrettanto dolorosi, collegati alle esecuzioni di Piano Stella come coda di un’unica, veloce processione di sangue.
Il giorno seguente al 13 luglio, in due luoghi diversi ma vicini al borgo contadino, 73 soldati italiani vengono giustiziati a sangue freddo. Stavolta, a testimoniare i fatti sono i resoconti della Corte Marziale degli Stati Uniti, riunita tra agosto e novembre del 1943 per giudicare il sergente Horace T. West e il capitano Jonh Compton, entrambi afferenti alla 180° fanteria, la stessa che da Acate e Piano Stella muoveva verso l’aeroporto di Biscari. Qui, nella giornata del 14 luglio, gli italiani del 153° battaglione mitraglieri si arrendono dopo una strenua difesa.
Alcuni di loro, 37 tra bresciani e vicentini, vengono affidati al sottufficiale West e ad altre cinque guardie per essere portati nelle retrovie e interrogati. Spogliati di camicie e scarpe, in modo da evitarne la fuga, ai soldati viene ordinato di marciare verso Acate.
Dopo un chilometro, un’altra incomprensibile esecuzione. Senza che nessun prigioniero tenti di scappare o ribellarsi, West urla ai suoi uomini: «Adesso uccido questi figli di puttana», imbraccia il mitragliatore “Thommy gun” e falcia gli italiani, che inutilmente implorano pietà.
Davanti alla Corte, nessuna delle guardie riesce a spiegare razionalmente il fatto. Neanche il cappellano militare William E. King, che il 15 luglio trova i corpi e segnala l’accaduto ai superiori.
Il 4 novembre dello stesso anno, West viene condannato all’ergastolo in violazione dell’articolo 92 del Codice di guerra: per «aver fucilato con malvagità premeditata, crudelmente e illegalmente 37 prigionieri».
Prigionieri dell'asse in Sicilia |
La sentenza, successivamente, è riformata in pochi mesi di prigione. Durante la stessa giornata, 14 luglio, sulla collina che porta all’aeroporto di Biscari, i soldati del capitano John Compton circondano un fortino di cecchini italiani, che per l’intera mattinata avevano bersagliato la 180° fanteria.
Dal fortino escono fuori, mani alzate, 36 persone, alcune in abiti civili. Il capitano è categorico, ne ordina l’immediata fucilazione.Terzo eccidio ma, a differenza di West, Compton viene assolto. Tra le tesi della difesa, la Corte dà credito a quella dell’ordine maggiore: per preparare lo sbarco in Sicilia, a giugno il generale Patton avrebbe tenuto un discorso agli ufficiali e invitato loro a non avere compassione per il nemico. In particolare, secondo le testimonianze di molti ufficiali, Patton avrebbe affermato: «se i cecchini sparano a una distanza di 200 yards e poi si arrendono, uccideteli senza pietà».
Compton, dunque, aveva semplicemente eseguito gli ordini. Scagionato, morirà lo stesso anno durante lo sbarco a Salerno.
Tre stragi, un solo colpevole. Un nome, Horace T. West, attorno al quale ruota tutto il processo di Palermo. L’ultima pagina di un libro aperto 64 anni fa, poi sepolto, ma non ancora chiuso. Per adesso, dell’ex sergente di fanteria non si hanno notizie.
Andrea D'Orazio
08/06/2007
Quando la memoria non perdona
Riprende a Palermo il processo chiuso 64 anni fa
Che fine ha fatto Horace T. West? L’ex sergente della 180° fanteria, sbarcato in Sicilia nel 1943 per combattere le truppe dell’Asse, giudicato dalla Corte Marziale americana nel novembre dello stesso anno come responsabile dell’assassinio di 37 prigionieri italiani, rappresenta oggi, per le famiglie dei caduti, la speranza di un riconoscimento storico. È l’ago della bilancia nel processo che la Procura militare di Palermo ha da poco riaperto. Se West è ancora vivo, anche se in contumacia, il processo continua e la parte civile, l’“Associazione vittime delle stragi americane”, potrebbe vincere quell’euro simbolico che ha chiesto come risarcimento per i danni subiti. Un euro che vale come rivincita su anni d’oblio. Se West è morto, senza un imputato il processo crollerebbe.
E anche se per la convezione di Ginevra i reati di guerra non cadono mai in prescrizione, i 37 caduti risulterebbero ancora come “dispersi”. Fino ad ora il Dipartimento di Stato americano non ha dato alcuna risposta. In attesa di notizie sul sergente, un risultato è stato comunque raggiunto: la strage, anzi, le stragi di Biscari sono uscite in qualche modo dall’oblio. Questo si deve, soprattutto, alla testardaggine di un giovane storico siciliano, Gianfranco Ciriacono, figlio di Giuseppe, il ragazzo del borgo colonico di Piano Stella (Acate) che a 13 anni, nel 1943, vide suo padre morire sotto i colpi dei fucili americani, insieme ad altre quattro persone, a freddo, senza alcun motivo. «È stata la morte assurda di mio nonno a scatenare in me la sete di ricerca – afferma Gianfranco - e, a partire dal 2003 ho raccolto le testimonianze delle persone che allora abitavano il borgo. In questo modo sono venuto a conoscenza degli altri due eccidi ad opera di West e Compton».
Da lì è cominciato un lungo iter di studio. Ciriacono è andato prima a consultare l’Ufficio storico dell’Esercito italiano, dove ha scoperto i nomi dei dispersi italiani ad Acate. In seguito a Washington, per spulciare nell’Archivio militare americano. « Questa – continua – è stata la svolta: ho rintracciato i verbali top secret del processo marziale a West e Compton, de-secretati già nel 1958. È bastata la carta di credito per acquistarli». Verbali che oggi hanno una grande portata storiografica.
Dalle dichiarazioni degli imputati e di altri soldati della 45° divisione, «si evince infatti – ricorda Ciriacono – che in Sicilia ci furono stupri e violenze perpetrate ai danni della popolazione, e che ai soldati, prima degli attacchi, veniva somministrato un eccitante, la benzedrina. Inoltre, è chiaro il tentativo da parte del generale Patton di insabbiare gli eccidi di Biscari, ed emerge anche la sua indole sanguinaria, tanto che prima dello sbarco egli ordinava agli ufficiali: «kill, kill, and kill some more», uccidete quanto più possibile». Da queste testimonianze è nato poi un libro,Le stragi dimenticate (Coop C.D.B. Ragusa) dello stesso Ciriacono.
E un dossier, in base al quale, nel 2004, la Procura militare di Padova ha ordinato le prime indagini probatorie. Da allora sono stati ascoltati i parenti delle vittime, per la maggior parte vicentini e bresciani, mentre l’Interpol indagava sugli altri militari testimoni delle stragi. Fin quando, nel 2005, la Procura militare di Palermo non ha avocato a sé il processo per questioni di competenza territoriale. Da allora, un’udienza preliminare, lo scorso marzo, e poche altre notizie, attese, ogni giorno, da decine di famiglie.
l ragazzo che sentì il padre morire. Intervista a Giuseppe Ciriacono, superstite di un eccidioCapelli bianchi, sguardo intenso, nel volto di Giuseppe Ciriacono sono scolpiti anni di lavoro e sacrifici. Prima come contadino nel borgo di Piano Stella, poi in divisa, come maresciallo dei carabinieri. Una storia segnata da un giorno: 13 luglio 1943. All’epoca Giuseppe era tredicenne, troppo giovane per perdere il padre. Dove si trovava il borgo colonico e in quanti eravate ad abitarlo? Il borgo esiste ancora, anche se non è più popolato come prima. Si trova nel bosco di San Pietro, tra Caltagirone, in provincia di Catania, e Acate, Ragusa. Ci fu assegnato dallo Stato nel 1939, a seguito della legge sulla colonizzazione del latifondo siciliano. Al tempo c’erano 38 famiglie di contadini, tutte molto numerose, che occupavano altrettanti poderi. Si coltivavano frumento, legumi e foraggio per il bestiame. Come trascorreva le giornate prima che avvenisse lo sbarco? La mattina a scuola, poi a dare una mano nei campi. Di sera si stava in compagnia con le altre famiglie. Allora la televisione non esisteva e nel borgo non c’erano radio. Passavamo il tempo a casa di qualcuno, con i lumi a petrolio a raccontare storie. Vicino il bosco c’era un aeroporto militare in mano alla Luftflotte, come erano i rapporti con i tedeschi? Pacifici. Li sentivamo partire con gli aerei Stukas, in direzione Malta, dove c’erano gli avamposti alleati. I militari venivano spesso nel borgo per comperare polli, uova e un po’ di vino. Era tutto tranquillo, almeno fino ai giorni antecedenti lo sbarco, quando l’aeroporto fu bersagliato dalle bombe degli aerei americani. Avevamo paura di essere colpiti: il villaggio distava 7 chilometri. Quando l’aeroporto fu occupato dalle truppe americane cosa accadde al villaggio? Prima del 12 luglio, in zona avevamo già visto dei paracadutisti statunitensi e un via vai di soldati italiani in ritirata. Capimmo di essere circondati. I bombardamenti erano cessati, ma con la mia famiglia e altri amici passammo molte ore dentro il rifugio che mio padre aveva costruito. Era stretto e lungo, due metri di larghezza e cinque di lunghezza. In piedi non ci si poteva stare, ma a volte fino in 40 ci siamo entrati. Sotto ci sentivamo al sicuro. Ma il 13 luglio il rifugio non bastò più a proteggervi. Cosa ricorda di quel giorno? Io e mio padre eravamo lì dentro insieme ad altri quattro coloni, tra i quali anche un mio coetaneo. Mamma e fratelli, insieme ad altre famiglie, erano riuniti in un una casa vicina. Pomeriggio, gli americani circondarono il rifugio. Entrarono a casa nostra in cerca di tedeschi. Nell’abitazione non trovarono nessuno e se ne andarono. Ore dopo arrivarono altri soldati. Ci fecero uscire dal rifugio e marciare verso Acate. Dopo un po’ ci fermammo in una casa rurale, sotto un albero di gelso. A quel punto vidi i soldati imbracciare i fucili e… Uccidere suo padre e gli altri? Non ho visto i corpi cadere, ho sentito papà gridare e poi i colpi di fuoco. Io ero distante una decina di metri: un altro soldato mi aveva preso per il bavero e allontanato. Pensai di essere ucciso per primo, invece fui consegnato ad altri militari per raggiungere Acate. Urlavo «Hanno sparato a mio padre», ma nessuno mi capiva. I corpi li avrei visti tre giorni dopo, insieme a mia madre e ai miei fratelli. Perchè colpirono a sangue freddo 5 persone? È una domanda alla quale non sono mai riuscito a rispondere. Non erano armati, non erano iscritti a nessun partito, non erano spie né proteggevano soldati tedeschi. Sono vissuti e morti vicino alla terra. Non so perché li hanno uccisi. Davvero, non lo so.
Andrea D'Orazio
08/06/2007
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