di Antonio Esposito
«L’ordinamento sindacale corporativo è la pietra angolare dello Stato fascista, è la creazione che conferisce “originalità” alla nostra rivoluzione. […] Questi ordinamenti sono inseparabili dal regime, poiché lo identificano, lo differenziano, lo distaccano nettamente da tutti gli altri. Lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista».
L’obiettivo principale, della rivoluzione in camicia nera, era quello di smantellare il vecchio impianto istituzionale della vecchia Italia liberale e consegnare alla storia un paese moderno, tecnologicamente avanzato, finanziariamente forte, all’avanguardia nella tutela delle politiche sociali e del lavoro.
Per raggiungere tale scopo, il regime di Mussolini non mancò di servirsi degli uomini migliori, soprattutto in campo giuridico. Giuristi in grado di creare un impianto corporativo talmente solido da riuscire a contrastare e sostituire l’inefficacia e l’inefficienza del sistema liberale individualista.
Tale impostazione è sempre stata marchiata, dalla maggior parte degli storici e dagli studiosi, come un apparato inadeguato e privo di una reale efficacia.
Ma nell’epoca del trionfo mondiale del capitalismo finanziario, che logora i popoli e dissolve le nazioni, appare d’obbligo rivedere quelle teorie storiche, quasi sempre influenzate dalla politica e dal denaro, attraverso una rielaborazione, in chiave storico-giuridica, dello Stato Corporativo e della sua concreta e multiforme efficacia, non solo sul piano sociale ed economico ma anche su quello spirituale e morale.
Ringraziamo l'autore per aver fornito il materiale
La prima recensione:
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Fascio
“Mille candele insieme fanno splendore. La luce di nessuna candela danneggia la luce di un’altra. Così la libertà dell’individuo nello Stato ideale e fascista”.
- Ezra Pound - Carta da visita, 1942
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La prima recensione:
"Il testo è molto interessante perché è una panoramica storico-giuridica sulla nascita e lo sviluppo del modello corporativo. Il lavoro è abbastanza obbiettivo e punta a confutare tutte le tesi della storiografia dominante che hanno sempre delineato un'immagine del corporativismo come sostanziale fallimento.
L'analisi si svolge attraverso l'opera dei giuristi più importanti del regime tra i quali: Rocco (ovviamente), Costamagna, Spirito, Panunzio e anche Bottai.
E' spiegata anche molto bene la nascita e i meccanismi della Carta del Lavoro.
Punti di forza: L'argomento è molto interessante ed il libro è abbastanza breve, si legge in tre giorni. Prezzo modico. Punti deboli: a mio parere in alcuni punti è un po' tecnico".
- Lucio Severo -
Eh beh "Giuristi e stato corporativo" più che tecnico ... 😊
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Dettagli prodotto
Copertina flessibile: 154 pagine
Editore: youcanprint (1 settembre 2015)
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8893067544
ISBN-13: 978-8893067546
Copertina flessibile: 154 pagine
Editore: youcanprint (1 settembre 2015)
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8893067544
ISBN-13: 978-8893067546
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Giuristi e Stato corporativo
Indice
Introduzione Pag 11
CAPITOLO I: Il sistema corporativo nella rivoluzione fascista: dalla crisi dello Stato liberale al consolidamento dello Stato totalitario.
1. L’inadeguatezza del sistema liberale e la necessità di uno Stato sociale. Pag. 23
2. I primi anni del fascismo al potere e la legge Acerbo. Pag. 32
3. Le innovazioni giuridiche del fascismo : la fase sindacale e quella costituzionale. Pag. 36
4. La nuova figura del Primo Ministro Capo del Governo Segretario di Stato. Pag. 50
CAPITOLO II: Il percorso verso lo Stato corporativo e la fase sindacale. Dall’accordo di Palazzo Vidoni alla Carta del Lavoro.
1. La legislazione fascista di Alfredo Rocco, l’“architetto” del regime. Pag. 54
2. La legge Rocco sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, la natura giuridica dei sindacati e l’avvicendarsi del principio di unicità del sindacato. Pag. 64
3. La Carta del Lavoro: fondamento dell’apparato corporativo e l’aspirazione a porre la questione sindacale come una questione
costituzionale. Pag. 79
4. I principi e la struttura della Carta del Lavoro. Pag. 86
CAPITOLO III: Il periodo successivo all’emanazione della Carta del Lavoro, dalla fase sindacale a quella corporativa. Una Rivoluzione mancata?
1. Reazioni alla Carta del Lavoro e l’inizio dello Stato corporativo. Pag. 94
2. Bottai, il Ministero e il Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Pag. 101
3. Costamagna e la nuova dottrina dello Stato. Un’alternativa all’impostazione di Bottai. Pag. 112
4. Lo Stato corporativo e l’economia fascista. Pag. 120
5. L’attuazione della Carta del Lavoro nel Codice civile e l’esperienza della Corporazione proprietaria nella R.S.I. Pag. 127
Il corporativismo si offriva, infatti, come soluzione per affrontare la fragilità, economica e sociale, dello Stato liberale ed ottemperare alle esigenze della nuova società di massa che stava emergendo nell’Europa postbellica, ma non solo.
Infatti, un po’ ovunque nel mondo occidentale si ricorse a sperimentazioni di tipo corporativo, con l’Italia fascista, ovviamente, in prima linea, tanto che si assistette alla nascita di vari e diversificati tentativi di imitazione del “modello italiano”.
Le difficoltà principali che si sono incontrate nell’esposizione di queste argomentazioni sono state dettate, per lo più, dalla mole enorme di opere e pubblicazioni ammassate nel corso degli anni, sia durante il Ventennio mussoliniano e sia nei decenni successivi. Opere caratterizzate dalla diversità delle posizioni in merito, da parte dei vari autori, non soltanto sulla natura del sistema corporativo, ma anche e soprattutto, sulla sua efficacia e sulla sua presunta incompiutezza.
Durante gli anni del regime, infatti, posta la meta corporativa quale obiettivo fondamentale della Rivoluzione fascista, la maggior parte della giuspubblicistica del tempo se ne occupò quasi esclusivamente. Tanto che nel 1942 Alfredo Gradilone, raccogliendo tutto il materiale bibliografico sul tema, pubblicò, in più di 1.100 pagine, l’elenco di circa 12.000 volumi.
Davanti a questa impressionante quantità di materiale diventa però di fondamentale una sostanziale differenziazione tra storiografia politica e storiografia giuridica. Parte degli autori, in particolare Aldo Mazzacane, mette in evidenza un innegabile ritardo della storiografia giuridica rispetto a quella politica, dovuta essenzialmente alla scarsa diffusione della storia del diritto al di fuori dei circuiti universitari, questo ha fatto si che rimanessero nell’ombra questioni essenziali del diritto fascista che ancora oggi appaiono consegnate alle pagine inserite in narrazioni storiche più generali.
2. Il testo integrale è riportato in appendice al volume di R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino, 1965.
Introduzione Pag 11
CAPITOLO I: Il sistema corporativo nella rivoluzione fascista: dalla crisi dello Stato liberale al consolidamento dello Stato totalitario.
1. L’inadeguatezza del sistema liberale e la necessità di uno Stato sociale. Pag. 23
2. I primi anni del fascismo al potere e la legge Acerbo. Pag. 32
3. Le innovazioni giuridiche del fascismo : la fase sindacale e quella costituzionale. Pag. 36
4. La nuova figura del Primo Ministro Capo del Governo Segretario di Stato. Pag. 50
CAPITOLO II: Il percorso verso lo Stato corporativo e la fase sindacale. Dall’accordo di Palazzo Vidoni alla Carta del Lavoro.
1. La legislazione fascista di Alfredo Rocco, l’“architetto” del regime. Pag. 54
2. La legge Rocco sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, la natura giuridica dei sindacati e l’avvicendarsi del principio di unicità del sindacato. Pag. 64
3. La Carta del Lavoro: fondamento dell’apparato corporativo e l’aspirazione a porre la questione sindacale come una questione
costituzionale. Pag. 79
4. I principi e la struttura della Carta del Lavoro. Pag. 86
CAPITOLO III: Il periodo successivo all’emanazione della Carta del Lavoro, dalla fase sindacale a quella corporativa. Una Rivoluzione mancata?
1. Reazioni alla Carta del Lavoro e l’inizio dello Stato corporativo. Pag. 94
2. Bottai, il Ministero e il Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Pag. 101
3. Costamagna e la nuova dottrina dello Stato. Un’alternativa all’impostazione di Bottai. Pag. 112
4. Lo Stato corporativo e l’economia fascista. Pag. 120
5. L’attuazione della Carta del Lavoro nel Codice civile e l’esperienza della Corporazione proprietaria nella R.S.I. Pag. 127
Mussolini, Discorso Dello Stato Corporativo
dinanzi al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni, il 14 novembre 1933
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INTRODUZIONE
Parlare di fascismo non è mai semplice ed il presente lavoro ha per contenuto la ricostruzione dell’esperienza corporativa in Italia proprio durante gli anni del regime.
Non è mai semplice perché, a quasi cento anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento ed a oltre settanta dalla sconfitta del fascismo nella seconda guerra mondiale, il movimento politico ed il regime fondati da Benito Mussolini continuano a subire gli strascichi demonizzanti di una propaganda diffamatoria, la quale non sembra essersi minimamente affievolita con il passare dei decenni.
Nonostante il tempo trascorso infatti, i toni delle campagne mediatiche denigratorie non hanno mostrato alcuna attenuazione nel trattare il fenomeno che per noi (ma non soltanto per noi) continua ad essere il nocciolo duro del Novecento.
L’obiettivo che si pone questo libro, in particolare, si concentra su un singolo aspetto del fascismo, forse quello più importante, quello predominante: ricostruire storicamente la nascita e l’evoluzione del sistema corporativo, dedicando un’attenzione speciale alla posizione della Carta del Lavoro quale centro di questo sistema.
Non è mai semplice perché, a quasi cento anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento ed a oltre settanta dalla sconfitta del fascismo nella seconda guerra mondiale, il movimento politico ed il regime fondati da Benito Mussolini continuano a subire gli strascichi demonizzanti di una propaganda diffamatoria, la quale non sembra essersi minimamente affievolita con il passare dei decenni.
Nonostante il tempo trascorso infatti, i toni delle campagne mediatiche denigratorie non hanno mostrato alcuna attenuazione nel trattare il fenomeno che per noi (ma non soltanto per noi) continua ad essere il nocciolo duro del Novecento.
L’obiettivo che si pone questo libro, in particolare, si concentra su un singolo aspetto del fascismo, forse quello più importante, quello predominante: ricostruire storicamente la nascita e l’evoluzione del sistema corporativo, dedicando un’attenzione speciale alla posizione della Carta del Lavoro quale centro di questo sistema.
Si ritiene opportuno sottolineare, inoltre, che il tutto sarà ancorato ad una ricostruzione storico/giuridica, improntata all’analisi degli avvenimenti e soprattutto dei personaggi che contribuirono alla costruzione dell’impianto corporativo, soffermandosi, in particolare, sull’operato di quei giuristi che non si limitarono a rivestire il semplice ruolo di “tecnici”, ma che occuparono una posizione di primo piano anche nel panorama politico-istituzionale. Per parlare di corporativismo fascista si ritiene utile partire dalle parole di Mussolini:
“L’ordinamento sindacale corporativo è la pietra angolare dello Stato fascista, è la creazione che conferisce “originalità” alla nostra rivoluzione. […] Questi ordinamenti sono inseparabili dal regime, poiché lo identificano, lo differenziano, lo distaccano nettamente da tutti gli altri. Lo Stato fascista o è corporativo o non è fascista” [1]
Le parole dell’allora Capo del Governo ci portano a comprendere il primo dato fondamentale e cioè che il corporativismo fu il punto focale della Rivoluzione Fascista. Si cominciò a parlarne, infatti, sin dalla fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento avvenuta il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro a Milano. Ma l’ideale corporativo mostrava di avere radici ben più profonde. Il corporativismo, infatti, fu concetto caro anche al sindacalismo rivoluzionario di inizio Novecento, come quello di Alceste De Ambris, che inserì lo schema delle Corporazioni nell’impalcatura costituzionale della Fiume dannunziana, ossia nella celebre Carta del Carnaro. Si potrebbe anche citare il Manifesto del Partito futurista italiano, firmato da Filippo Tommaso Marinetti nel 1918, a guerra ancora in corso.
In particolare, tale documento, al punto 4 prevedeva la
“trasformazione del Parlamento mediante un’equa partecipazione di : industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti al Governo del Paese”. [2]
La tematica corporativa era, in verità, già nota nell’Italia del diciannovesimo secolo sebbene in fase embrionale, grazie alle tesi di Giuseppe Mazzini, precursore dell’associazionismo e del cooperativismo, che la considerava frutto di un’ idea nazionalista e di collaborazione che contraddistinse tutto il periodo dell’Unità. Da un punto di vista più moderato e sostanzialmente diverso dal corporativismo “in camicia nera”, si può pensare anche all’enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII (1891) e, più in generale, al corporativismo cattolico che in Italia ebbe come massimo rappresentante Giuseppe Toniolo. Rivisitando le tappe salienti dell’idea corporativa se ne possono trovare tracce fino a partire dalle Corporazioni di arti e mestieri che, nel lontano Medioevo, controllavano la vita sociale ed economica in molti Comuni d’Italia.
Questi “corporativismi”, disseminati nella storia, seppur con notevoli differenze tra loro, costituirono le “profonde radici”, “un’eredità ideologica” su cui crebbe l’idea corporativa fiorita nella prima metà del Novecento. Quell’idea, di cui si occuparono numerosi intellettuali ed esponenti degli orientamenti politico-culturali più vari, divenne poi la spina dorsale dell’impianto istituzionale ed economico progettato dal fascismo. La fortuna (nazionale ed internazionale) della suggestione corporativa deve essere ricondotta alla circolazione, in Italia ed in Europa prima, durante e dopo la Grande Guerra, di riflessioni sulle lacerazioni sociali prodotte dalla crisi del pluralismo individualistico (liberalismo) e dal crollo del mito del mercato autoregolato (liberismo).
Congresso Sindacale Fascista |
Infatti, un po’ ovunque nel mondo occidentale si ricorse a sperimentazioni di tipo corporativo, con l’Italia fascista, ovviamente, in prima linea, tanto che si assistette alla nascita di vari e diversificati tentativi di imitazione del “modello italiano”.
Le difficoltà principali che si sono incontrate nell’esposizione di queste argomentazioni sono state dettate, per lo più, dalla mole enorme di opere e pubblicazioni ammassate nel corso degli anni, sia durante il Ventennio mussoliniano e sia nei decenni successivi. Opere caratterizzate dalla diversità delle posizioni in merito, da parte dei vari autori, non soltanto sulla natura del sistema corporativo, ma anche e soprattutto, sulla sua efficacia e sulla sua presunta incompiutezza.
Durante gli anni del regime, infatti, posta la meta corporativa quale obiettivo fondamentale della Rivoluzione fascista, la maggior parte della giuspubblicistica del tempo se ne occupò quasi esclusivamente. Tanto che nel 1942 Alfredo Gradilone, raccogliendo tutto il materiale bibliografico sul tema, pubblicò, in più di 1.100 pagine, l’elenco di circa 12.000 volumi.
Davanti a questa impressionante quantità di materiale diventa però di fondamentale una sostanziale differenziazione tra storiografia politica e storiografia giuridica. Parte degli autori, in particolare Aldo Mazzacane, mette in evidenza un innegabile ritardo della storiografia giuridica rispetto a quella politica, dovuta essenzialmente alla scarsa diffusione della storia del diritto al di fuori dei circuiti universitari, questo ha fatto si che rimanessero nell’ombra questioni essenziali del diritto fascista che ancora oggi appaiono consegnate alle pagine inserite in narrazioni storiche più generali.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, le interpretazioni sul fascismo furono caratterizzate dall’ assenza di una riflessione sulle sue caratteristiche peculiari. In particolare, il fenomeno fascista, fu trattato solo nella sua generalità e non nei suoi singoli aspetti giuridici e culturali.
Il fascismo fu etichettato, dai maggiori studiosi italiani ed internazionali, come “malattia morale” e questo ne ha generalmente impedito un analisi oggettiva e libera da preconcetti dettati da ragioni di convenienza politica. Norberto Bobbio, ad esempio, seguito in questo da autori delle più diverse estrazioni, arrivò a dichiarare che il fascismo non avesse avuto alcuna ideologia e che fosse stato soltanto il risultato di eventi storici nefasti, frutto della guerra e della violenza. Per di più, come messo in evidenza da Alessandra Tarquini e Mirella Serri, spesso molti intellettuali e studiosi tentarono di nascondere il proprio passato fascista (come ad esempio lo stesso Bobbio), attraverso rivisitazioni di parte e pesanti critiche rivolte al regime, al solo scopo di “rifarsi una verginità politica”.
Questo clima di superficialità e di rinnegazione, quasi mai libero dalle interferenze della politica, ha ritardato di molti anni la ricerca storica su uno dei fenomeni più rilevanti del Novecento. Ed inoltre ha fatto sì che il corporativismo venisse inquadrato come logica incapace di prevaricare gli schemi del capitalismo e che l’accertata scarsezza di risultati, occultata dalla trionfalistica propaganda di regime, fosse la conseguenza di un evidente difficoltà di conseguire realizzazioni concrete.
Il fascismo fu etichettato, dai maggiori studiosi italiani ed internazionali, come “malattia morale” e questo ne ha generalmente impedito un analisi oggettiva e libera da preconcetti dettati da ragioni di convenienza politica. Norberto Bobbio, ad esempio, seguito in questo da autori delle più diverse estrazioni, arrivò a dichiarare che il fascismo non avesse avuto alcuna ideologia e che fosse stato soltanto il risultato di eventi storici nefasti, frutto della guerra e della violenza. Per di più, come messo in evidenza da Alessandra Tarquini e Mirella Serri, spesso molti intellettuali e studiosi tentarono di nascondere il proprio passato fascista (come ad esempio lo stesso Bobbio), attraverso rivisitazioni di parte e pesanti critiche rivolte al regime, al solo scopo di “rifarsi una verginità politica”.
Questo clima di superficialità e di rinnegazione, quasi mai libero dalle interferenze della politica, ha ritardato di molti anni la ricerca storica su uno dei fenomeni più rilevanti del Novecento. Ed inoltre ha fatto sì che il corporativismo venisse inquadrato come logica incapace di prevaricare gli schemi del capitalismo e che l’accertata scarsezza di risultati, occultata dalla trionfalistica propaganda di regime, fosse la conseguenza di un evidente difficoltà di conseguire realizzazioni concrete.
Tra la fine degli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, le uniche analisi degne di nota furono esposte soltanto da parte di alcuni dei “vinti” della Seconda Guerra Mondiale, tra cui: Camillo Pellizzi e Giuseppe Bottai. Uomini che avevano contribuito all’edificazione della dittatura e che dopo la sconfitta cominciarono a riflettere sugli “errori” commessi durante il Ventennio, in particolare in campo sociale. Più in dettaglio, Pellizzi descrisse una “rivoluzione mancata”, in quanto la pesante intrusione della politica nelle strutture corporative ne avrebbe irrimediabilmente frenato la spontaneità e l’evoluzione. Su posizioni simili si espresse Bottai (con un evidente intento auto assolutorio di fondo) in quanto anche per lui, le riforme sociali del fascismo si bloccarono davanti ad un’eccessiva centralizzazione delle decisioni ed alla mancanza di elezioni all’interno delle Corporazioni :
“elettiva era la via maestra: la si abbandonò, per buttarsi alle scorciatoie delle investiture dall’alto, dietro il Partito”.
E così :
Fondamentale è stata anche l’opera di Sabino Cassese che, negli anni Settanta, rilanciò la formula bottaiana di “corporativismo senza Corporazioni”, nel senso che, tutta l’architettura sociale del regime, dietro agli enfatici proclami, avrebbe funzionato in maniera lenta e disorganica e con una totale mancanza di incisività, tanto che la gestione dell’economia pubblica, in cui il successo del fascismo fu evidente, venne realizzata attraverso le grandi holdings statali come l’IRI, quindi al di fuori dell’ordinamento corporativo.
Successivamente, Perfetti e Parlato negli anni Ottanta, apportarono un notevole contributo per lo studio delle meccaniche corporative, in particolare, attraverso l’esame delle variegate anime della c.d. “sinistra fascista” che premevano per formare uno Stato corporativo di impronta esclusivamente anticapitalistica.
“invece del corporativismo, con la sua esigenza di organizzazione molteplice e snodata di categorie, avemmo il “totalitarismo”, furiosamente accentrato, monopolistico. Tutto d’un pezzo”. [3]
Negli anni Sessanta arrivò la “svolta” per gli studi sul fascismo in generale e sul corporativismo in particolare, provocata dall’opera e dalle pubblicazioni di studiosi di rilievo. In alcuni casi considerati “revisionisti”; primo fra tutti Renzo De Felice, che cominciò a trattare in maniera più analitica il fascismo e di conseguenza la tematica corporativa.
Successivamente, Perfetti e Parlato negli anni Ottanta, apportarono un notevole contributo per lo studio delle meccaniche corporative, in particolare, attraverso l’esame delle variegate anime della c.d. “sinistra fascista” che premevano per formare uno Stato corporativo di impronta esclusivamente anticapitalistica.
Nonostante l’enorme valore accademico di queste opere che si occuparono del fenomeno fascista si deve considerare, in verità, che solo la storiografia più recente, ha cercato di sviluppare un sistema di analisi non politicizzata sul corporativismo, ovvero, non influenzata dal quel coinvolgimento emotivo che le discussioni sul fascismo inevitabilmente accendono.
In tempi recenti, dunque, si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti del corporativismo fascista, che si è tradotto nell’uscita di taluni pregevoli studi di varia impostazione.
In tempi recenti, dunque, si è assistito ad un rinnovato interesse nei confronti del corporativismo fascista, che si è tradotto nell’uscita di taluni pregevoli studi di varia impostazione.
Hanno visto la luce, infatti, diversi lavori specificamente dedicati al fenomeno. Tra i più rilevanti troviamo quelli di Gianpasquale Santomassimo e Irene Stolzi, che hanno ripercorso l’intera parabola del “mito corporativo”, analizzandone prevalentemente l’impianto ideologico e giuridico. Alessio Gagliardi, invece, ha ricostruito i meccanismi di funzionamento delle strutture corporative, cercando di tracciare un primo bilancio della effettiva capacità operativa delle Corporazioni. Quest’autore ha infatti tratteggiato un ritratto del “corporativismo realizzato”, in parte divergente dall’immagine di totale fallimento generalmente tramandata dalla ricerca storica tradizionale. L’opera di Gagliardi individua nelle Corporazioni il luogo di compensazione di molteplici interessi dei diversi attori della vita economica e sindacale del Paese. Egli propone uno studio dell’attività concreta delle Corporazioni, dimostrando come questi furono luoghi di scontro e mediazione tra le parti sociali, spesso fruttuosi per i lavoratori. L’azione del sistema corporativo secondo questo autore non fu senza esito perché accompagnò, e a tratti favorì, le profonde trasformazioni nella organizzazione delle classi sociali, curando il loro rapporto con lo Stato.
La ricerca di Gagliardi, in alcuni casi, ha anche ridimensionato le opere degli autori che lo hanno preceduto. Sabino Cassese, ad esempio, in un recente lavoro è tornato su alcuni suoi precedenti studi, per proporre l’immagine di una macchina corporativa che, per quanto riguarda l’aspetto produttivo e distributivo, fu
La ricerca di Gagliardi, in alcuni casi, ha anche ridimensionato le opere degli autori che lo hanno preceduto. Sabino Cassese, ad esempio, in un recente lavoro è tornato su alcuni suoi precedenti studi, per proporre l’immagine di una macchina corporativa che, per quanto riguarda l’aspetto produttivo e distributivo, fu
“efficace strumento nelle mani degli attori economici e fu vero autogoverno delle autonomie”. [4]
Una macchina che, sia per l’aspetto sindacale, sia per quello economico, produsse una “verticalizzazione” della società, in maniera tale da creare un ordine gerarchico piramidale, e riuscì a ricondurre le nuove aggregazioni corporative nell’ambito dello Stato. Concesse ad alcuni gruppi di interesse (c.d. organizzati) un accesso privilegiato ai processi decisionali, assegnando loro un notevole potere di autoregolamentazione, ma sempre sotto il controllo dello Stato.
A questo punto, risulta comprensibile come non sia affatto un’impresa semplice disegnare un profilo chiaro dello Stato corporativo. Per questo motivo si è scelto di partire dall’individuazione e dall’analisi dello scenario storico nel quale il fascismo gettò le sue basi, con particolare riferimento alla crisi di sovranità che afflisse lo Stato liberale.
Tale modello istituzionale, caratterizzato sostanzialmente da un’impalcatura a base democratica e da una netta divisione dei poteri dello Stato, era un tipico esempio dello schema di “Stato moderno”, nato durante la Rivoluzione Francese ed affermatosi in buona parte dell’Europa. Si parlava anche di “Stato minimo” per sottolineare la caratteristica propria dello Stato liberale di porsi come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, contrariamente allo Stato sociale, quello liberale prediligeva il rispetto e la salvaguardia dell’iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di dirigismo statale.
Tale modello istituzionale, caratterizzato sostanzialmente da un’impalcatura a base democratica e da una netta divisione dei poteri dello Stato, era un tipico esempio dello schema di “Stato moderno”, nato durante la Rivoluzione Francese ed affermatosi in buona parte dell’Europa. Si parlava anche di “Stato minimo” per sottolineare la caratteristica propria dello Stato liberale di porsi come unico obiettivo la tutela dei diritti fondamentali. Infatti, contrariamente allo Stato sociale, quello liberale prediligeva il rispetto e la salvaguardia dell’iniziativa privata in opposizione ad ogni tentativo di dirigismo statale.
Il compito fondamentale non era quello di perseguire forme di eguaglianza sostanziale, ma di limitarsi unicamente a quelle di eguaglianza formale. Ne consegue l’idea di un apparato “alleggerito”, incentrato sulla tutela di pochi diritti essenziali ed in grado di lasciare la massima libertà all’iniziativa dei singoli ma contemporaneamente lasciando i destini dei più deboli alla mercé della “legge del più forte”.
La crisi in cui entrò lo Stato liberale occupò, come vedremo, un segmento temporale molto più ampio rispetto ai soli anni del primo dopoguerra. Essa, infatti, affondava le sue radici già negli anni finali dell’Ottocento e derivò essenzialmente dall’erodersi della struttura dello Stato monoclasse, creando un sistema “balbettante” nella politica economica, incapace di provvedere alle esigenze sociali e di assistenza della popolazione.
A questo si aggiunse il deficit di rappresentanza politica accusato dalle varie organizzazioni e gruppi d’interesse che si andavano formando già nei primi anni del Novecento, sempre più ansiosi di partecipare alle decisioni politiche. La prima conseguenza di questa crisi, infatti, fu il successivo riconoscimento di queste nuove organizzazioni di massa; organizzazioni portatrici degli interessi delle diverse categorie sociali e professionali che, stabilizzandosi e moltiplicandosi, cominciarono ad erodere la sovranità dello Stato e del Parlamento.
La crisi in cui entrò lo Stato liberale occupò, come vedremo, un segmento temporale molto più ampio rispetto ai soli anni del primo dopoguerra. Essa, infatti, affondava le sue radici già negli anni finali dell’Ottocento e derivò essenzialmente dall’erodersi della struttura dello Stato monoclasse, creando un sistema “balbettante” nella politica economica, incapace di provvedere alle esigenze sociali e di assistenza della popolazione.
A questo si aggiunse il deficit di rappresentanza politica accusato dalle varie organizzazioni e gruppi d’interesse che si andavano formando già nei primi anni del Novecento, sempre più ansiosi di partecipare alle decisioni politiche. La prima conseguenza di questa crisi, infatti, fu il successivo riconoscimento di queste nuove organizzazioni di massa; organizzazioni portatrici degli interessi delle diverse categorie sociali e professionali che, stabilizzandosi e moltiplicandosi, cominciarono ad erodere la sovranità dello Stato e del Parlamento.
L’identificazione in queste organizzazioni, da parte dei cittadini, portò ad una perdita di legittimità della rappresentanza politica ed al successivo “collasso” del Parlamento. Quest’ultimo, infatti, risultava essere sempre più emarginato dal centro delle decisioni politiche, incapace di farsi interprete delle esigenze sociali, già presenti dalla fine dell’Ottocento e solo accentuatesi dopo il primo conflitto mondiale.
Questa debolezza del sistema parlamentare e la stabilizzazione delle organizzazioni sociali sfociarono in una crisi istituzionale che a sua volta generò una spaccatura tra Stato e società.
In questa spaccatura si inserì l’opera del fascismo nato come movimento di massa, come “rivoluzione dal basso”, portatore di un progetto corporativo ritenuto in grado di dare la soluzione ad un problema che lo Stato liberale era stato incapace di affrontare.
Attraverso l’ordinamento corporativo, infatti, si tentò di disciplinare e di regolare i rapporti tra Stato e gruppi d’interesse, mediante un’organizzazione in grado di sistemare la vita sociale, economica e politica, sorta dal tramonto dello Stato moderno.
In questa spaccatura si inserì l’opera del fascismo nato come movimento di massa, come “rivoluzione dal basso”, portatore di un progetto corporativo ritenuto in grado di dare la soluzione ad un problema che lo Stato liberale era stato incapace di affrontare.
Attraverso l’ordinamento corporativo, infatti, si tentò di disciplinare e di regolare i rapporti tra Stato e gruppi d’interesse, mediante un’organizzazione in grado di sistemare la vita sociale, economica e politica, sorta dal tramonto dello Stato moderno.
Il progetto corporativo rappresentò il tentativo di superare quella dissociazione tra Stato e società, tra capitale e lavoro, attraverso la riaffermazione della centralità dello Stato e, contemporaneamente, tramite l’assemblaggio di un asse politico-istituzionale di cui facessero parte, non soltanto le nuove organizzazioni di massa, ma anche e soprattutto il Partito Nazionale Fascista.
In pratica, si prospettava la costruzione di uno Stato, unico e forte, in grado di inglobare tutti quegli enti e tutti quei gruppi, sorti a causa della crisi dello Stato liberale, e modellarli all’interno dello schema “del Nuovo Stato e della Nuova società” voluti dal regime.
In pratica, si prospettava la costruzione di uno Stato, unico e forte, in grado di inglobare tutti quegli enti e tutti quei gruppi, sorti a causa della crisi dello Stato liberale, e modellarli all’interno dello schema “del Nuovo Stato e della Nuova società” voluti dal regime.
A livello costituzionale, gli interventi legislativi che potremmo considerare cardine almeno a livello formale, furono sostanzialmente: l’istituzionalizzazione delle Corporazioni [5] e la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. [6] Queste due impalcature trovarono una base d’appoggio comune in un
documento a loro precedente: la Carta del Lavoro, che fu approvata dal Gran Consiglio del Fascismo nella notte tra il 21 e il 22 Aprile 1927. Tale documento, che nelle intenzioni del regime doveva essere una specie di “Costituzione del Lavoro”, possiede una natura giuridica ambigua sulla quale si sono alternati diversi orientamenti dottrinali. Secondo un primo filone questa sarebbe un documento abbastanza confuso, nella quale si alternano affermazioni di carattere generale e prescrizioni legislative di dettaglio, che non produssero nessun risultato di tipo positivo, anzi avrebbe avuto uno scopo esclusivamente politico, volto a dare al regime una patina di socialità. Secondo altri autori, invece, fu l’espressione di un cambiamento senza precedenti, in quanto documento “costituzionale” proprio perché non semplicemente legislativo, capace di tracciare le linee guida per la costruzione dell’edificio corporativo che, anche se fu probabilmente debole sul piano istituzionale (il suo completamento avvenne solo nel 1939 a ridosso della seconda guerra mondiale) non sarebbe stato di uguale inconsistenza sul piano economico e sociale in cui il fascismo operò, forse, la sua vera rivoluzione.
Note
1. B. Mussolini, La crisi economica mondiale (1930), in Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, vol. 44, La Fenice, Firenze 1951-1963, poi Volpe, Roma 1978-1980, vol. XXIV. 2. Il testo integrale è riportato in appendice al volume di R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino, 1965.
3. G. Bottai, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano, 1949.
4. S. Cassese, Lo Stato fascista, Il Mulino, Bologna, 2010.
Mussolini si confessa
Quel Bilancio attivo. Osservazioni stranamente profetiche di Mussolini
5. L. del 5 Febbraio 1934, n. 163.
6. L. del 19 Gennaio 1939, n. 129.
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