Descrizione

La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi” - Honorè de Balzac -

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano !" - Isaac Newton -

Contra factum non valet argumentum”

martedì 12 gennaio 2016

"I tedeschi non sono esseri umani..." E malediranno il giorno in cui partorirono

"I tedeschi non sono esseri umani ..."
citazione tratta dal libro "E malediranno il giorno in cui partorirono" di Marco Picone Chiodo, edizioni Mursia (su amazon)

I crimini degli alleati durante la 2a Guerra Mondiale

Gli storici calcolano che 2 milioni di donne tedesche sono state stuprate dopo che le forze alleate e sovietiche hanno sconfitto l’esercito di Hitler.

Il problema fondamentale è che la storia propinataci dai vincitori è che fu colpa di Hitler che trascinò il mondo nella II Guerra Mondiale, la verità è esattamente l'opposto e non sono farneticazioni di revisionisti, ma invece basta andare a leggere le dichiarazioni di Churchill prima e dopo la guerra e di varie personalità polacche prima della guerra e non solo ci sono quantità di prove. Quello che leggerete ora sembrerebbe giustificato dalle colpe tedesche della guerra, ma ce li han tirati per i capelli dentro con un genocidio sempre di tedeschi in Polonia dal 1938 di almeno 58.000 persone uomini, donne, vecchi e bambini.
Come ho già descritto la guerra fu dichiarata, voluta, fomentata, combattuta dall'internazionale ebraica, quì troverete un ebreo americano che scrisse "Germany must perish" e uno russo che scrisse "Kill the Germany" per esempio.
Arturo Navone

L'odissea tedesca fra il 1944 e il 1949
di Marco Picone Chiodo

Si trasgredisce nel modo peggiore ogni legge umana, se alle genti si toglie il diritto al Paese che abitano, costringendole a trasferirsi altrove. Alla fine della Seconda guerra mondiale, le potenze vincitrici inflissero questa sorte a diverse centinaia di migliaia di persone." Albert Schweitzer

Nell'inverno 1944-'45, con temperature polari e su percorsi resi quasi impraticabili dal gelo e dalla neve, bersagliata dal cielo e da terra, con mezzi di fortuna o a piedi, una fiumana di gente fuggiva verso Occidente nel disperato tentativo di sottrarsi all'Armata Rossa lanciata in direzione di Berlino. Erano gli abitanti delle regioni orientali del Reich, nella quasi totalità donne, vecchi, bambini e, mischiati a loro, sfollati in quelle zone, fuggiaschi dei Paesi Baltici, prigionieri di guerra. Chi non ebbe fortuna cadde in mano nemica. Donne stuprate poi crocifisse bambini e vecchi strangolati. Fu, per quella gente inerme, l'inizio di un calvario che si prolungò oltre la fine del conflitto: alle atrocità, alle deportazioni in terra sovietica, seguirono i campi di concentramento, le spoliazioni da parte di polacchi e di cechi e, infine la drammatica espulsione dalle loro terre per decisione alleata. In questa nuova edizione riveduta Picone Chiodo rievoca, attraverso la testimonianza delle vittime, un evento senza precedenti nella storia del mondo civile, volutamente ignorato di qua e di là della ex cortina di ferro, male adattandosi a schemi di propaganda e interessi politici.
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... Al fronte, in attesa del giorno X, la vita dei soldati si alternava tra gli abituali servizi di guerra e le frequenti riunioni politiche promosse dagli ufficiali di collegamento tra le forze armate ed il partito. Radunati negli agitpunkt (sede della sezione di propaganda) di reparto, essi ascoltavano i discorsi dei nuovi attivisti che li catechizzavano sui loro doveri verso lo Stato sovietico e, con l'aiuto dei giornali d'armata e dei bollettini di compagnia esaltanti le azioni di guerra e gli atti di valore, tenevano alto lo spirito militare. Altra volta intervenivano ai lavori politici e qui, compagni politicamente preparati riferivano sulle loro esperienze di combattimento e davano consigli. Contemporaneamente un'intensa azione psicologica li preparava (ora che non c'era piú un invasore da scacciare, una famiglia, una casa, la patria da difendere) ad accettare il supremo sacrificio per una guerra di conquista e, in particolare, ad odiare in maniera spietata il tedesco e tutto ciò che era tedesco. 

Da Mosca arrivavano la ‘Krasnaja Zveda’, l’organo delle forze armate, la ‘Pravda’ e le ‘Isvestija’ con articoli del propagandista Ilya Grigoryevich Ehrenburg (nato a Kiev in una famiglia ebrea), che scrisse l'opuscolo Kill, e dei suoi collaboratori, e nelle riunioni si cominciò a leggerne e a commentarne, con martellante insistenza, i passi più salienti: 
‘I tedeschi non sono esseri umani. D’ora in avanti il termine ‘tedesco’ é per noi tutti la maledizione più orribile. D’ora in avanti il termine ‘tedesco’ ci spinge a scaricare un’arma. Noi non parleremo. Noi non ci commuoveremo. Noi uccideremo. Se nel corso di una giornata non hai ucciso nemmeno un tedesco, allora per te é stata una giornata perduta. Se tu credi che il tedesco invece che da te sarà ucciso dal tuo vicino, allora tu non hai capito il pericolo. Se tu non uccidi il tedesco, sarà il tedesco ad uccidere te. Egli arresterà i tuoi e li torturerà nella sua dannata Germania.
Se tu non sei in grado di uccidere con una pallottola il tedesco, allora uccidilo con la baionetta. Se nel tuo settore vi é tregua e non é in corso una battaglia, allora uccidi il tedesco prima della battaglia. Se tu lasci in vita il tedesco, il tedesco impiccherà l’uomo russo e disonorerà la donna russa. Se tu hai ucciso un tedesco, allora uccidine un secondo. Per noi non c’è nulla di più piacevole dei cadaveri tedeschi. Non contare i giorni, i chilometri, conta solo una cosa: i tedeschi che hai ucciso. Uccidi i tedeschi! Questo implora la tua vecchia madre. Uccidi i tedeschi! Questo implorano i tuoi figli. Uccidi i tedeschi!
Così grida la nostra madre terra. Non perdere occasione! Non sbagliarti! Uccidi!’ […] ‘I tedeschi’ sentivano dire con un crescendo, ‘malediranno l’ora in cui calpestarono la nostra terra. Le donne tedesche malediranno l’ora in cui partorirono i loro feroci figli. Noi non infamiamo. Noi non malediamo. Noi siamo sordi. Noi ammazziamo’. (pag. 32)
crimini guerra


Una testimonianza di ciò che avvenne nella Prussia Orientale è fornita dall’inviato speciale del ‘Courrier’ di Ginevra nella seguente corrispondenza pubblicata nel numero del 7 novembre 1944 del quotidiano svizzero: 
‘La guerra che in Prussia Orientale si svolge nel triangolo Gumbinnen-Goldap-Ebenrode, da quando Goldap é stata ripresa dai tedeschi, è al centro degli avvenimenti.

La situazione non è solo caratterizzata dagli aspri combattimenti delle truppe regolari, ma, purtroppo, pure dai troppo noti metodi di conduzione della guerra: mutilazioni e impiccagione dei prigionieri ed il quasi TOTALE STERMINIO DELLA POPOLAZIONE CONTADINA TEDESCA rimasta sui luoghi nel tardo pomeriggio del 20 ottobre…

La popolazione civile è, per così dire, scomparsa dalla zona di combattimento poiché la maggior parte dei contadini è fuggita con la propria famiglia. Tutto è stato annientato dall’Armata Rossa. Trenta uomini, venti donne, quindici bambini sono caduti nelle mani dei russi a Nemmersdorf ed uccisi. A Brauersdorf ho visto di persona due lavoratori agricoli d’origine francese, ex prigionieri di guerra, fucilati. Uno lo si è potuto identificare. Non lontano da loro trenta prigionieri tedeschi avevano subito la stessa sorte. Vi risparmio la descrizione delle mutilazioni e della orribile vista dei cadaveri sui campi. Sono impressioni che superano perfino la più accesa fantasia. (pag.21)


I militari sovietici che cercavano di soccorrere la popolazione civile tedesca si rendevano colpevoli di uno dei reati contro la sicurezza dello Stato previsti dall’art. 58 del codice penale sovietico e puniti con la reclusione non inferiore a mesi sei e, nei casi più gravi, con la fucilazione.

Lo scrittore Leo Kopelev, per aver reagito a Neidenburg e ad Allenstein alle brutalità perpetrate dai suoi commilitoni, fu accusato di ‘umanitarismo borghese’ e, nonostante fosse un comunista convinto e maggiore del servizio di propaganda, addetto in particolare all’istruzione e all’impiego al fronte dei militari tedeschi che erano passati al servizio dell’Armata Rossa dopo Stalingrado, fu condannato in base al citato articolo e deportato per anni. (pag.62)

Testimoni, sopravvissuti di Metgethen, riferirono che cadaveri di donne erano stati appesi agli alberi dei giardini pubblici; che donne in stato interessante erano state sventrate e gettate in fosse nella foresta di Schönfliess. (pag.79)

[…] Era notte quando un reparto sovietico, al comando di un capitano, giunse alla fattoria di Peter Haupt. Peter Haupt e i suoi non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo che già si trovarono tirati giù dai letti e sospinti, in camicia, tremanti per il freddo ed il terrore, nello stanzone che occupava buona parte del piano terreno e schierati, faccia al muro, contro una parete. […]

Poi si rivolse a Peter Haupt ed ai suoi familiari. Obbligò l’uomo ed i suoi tre figli di 16, 14 e 4 anni ad inginocchiarsi e, fatte avanzare la moglie e le sue due figlie di 18 e 12 anni, le denudò e le costrinse a distendersi sul freddo pavimento e violentò la moglie. La donna gemeva e si divincolava sotto la stretta morsa che la tratteneva e invocava aiuto. Peter Haupt non resistette. Con un balzo, urlando di furore, si lanciò in avanti, afferrò l’ufficiale in procinto di avvicinarsi alla figlia diciottenne e lo tirò con forza per le gambe, facendolo cadere a terra. […] Peter Haupt fu colpito più volte, ma non mortalmente, e così ferito e sanguinante, ad un ordine del capitano, fu trascinato fuori, sull’aia. Nello stanzone moglie e figli osservavano terrorizzati la scena, senza osare li benché minimo movimento.

Trascorsero così lunghi attimi di profondo silenzio: il capitano al centro della stanza, le donne distese per terra, i ragazzi inginocchiati al muro. Sembravano statue. In quel silenzio all’improvviso rintronò un urlo lacerante cui fecero eco le grida della moglie di Peter Haupt. La donna non vide il marito che, in un ultimo sussulto di energie, con le mani irrigidite sulle viscere, si trascinava nella neve. Fece pochi metri, poi cadde e la sua voce si spense in un rantolo. I soldati gli avevano schiacciato, con pietre, i testicoli. […] Fuori della fattoria, nel villaggio di Peter Haupt e nei villaggi a nord-est di Cracovia, ovunque erano giunti i soldati dell’Armata Rossa, quella notte fu una notte di spavento, di violenza, di morte. (pag.35-36)

[…] Pesanti passi, violenti colpi alle porte, urla cominciarono a rintronare per tutto il palazzo. Al primo piano la signora König fu una delle prime prede: l’afferrarono, sgombrarono il letto, gettando a terra la madre settantottenne che vi giaceva agonizzante, e la violentarono. Quindi toccò alla ragazza della porta accanto: aveva vent’anni e venti bruti si buttarono su di lei, a turno. Nel corridoio videro uno sfollato di Goldap e lo abbatterono. Dall’appartamento del dottor Grünwald giungevano assordanti rumori e risa: i vincitori vi si erano installati, bevevano acquavite e spaccavano mobili. (pag.69)

"Dalle pareti delle baracche di raduno l'immagine del tedesco Carlo Marx sembrava meditare accorato sulla strana analogia che esisteva tra questi concetti e quelli razzisti del nazísta Rosenberg e strane quelle frasi dovevano apparire pure a qualcuno degli ascoltatori piú anziani che, avendo fatto la prima guerra, ricordava ancora i fraterni abbracci che, dopo la rivoluzione, russi e tedeschi si erano scambiati al fronte. Ma la massa, anche quella che, giungendo per la prima volta a contatto con le regioni sovietiche dell'Occidente e col mondo europeo, non aveva vissuto l'occupazione nazista e di conseguenza non aveva motivi di animosità od offese da vendicare, assorbiva quelle frasi, risonanti come un ordine, quasi fossero un dogma. A Nemmersdorf, questa massa aveva fornito una prima prova del perfetto indottrinamento ricevuto. Fra poco lo avrebbe dimostrato ancor meglio. A dicembre, come ultimo incentivo alla prossima lotta, fu annunciato all'Armata Rossa che ogni mese ogni soldato poteva inviare a casa sua, 8 kg.  (16 kg. gli ufficiali) di merce ed oggetti "prelevati" in Germania".

L'autorizzazione ai "liberi prelievi" fu un provvedimento preso direttamente da Stalin nella sua veste di Commissario del Popolo alla Difesa (il testo del decreto, tradotto in tedesco, trovasi nella raccolta dei documenti della Repubblica Federale non resi pubblici). Verso la fine del conflitto, per rinsaldare anzitutto la disciplina dei reparti, i comandi militari furono costretti a emanare ordini del giorno e a distribuire volantini per porre un freno agli atti di vandalismo e di violenza, come attesta un ex ufficiale defl'Armata Rossa, Vogulov Sabik, Im besiegten Deutschland s.I., s.e., 1947. Gli articoli di incitamento all'odio verso i tedeschi erano per lo più ricavati da un libro di Ehrenburg intitolato "VOJNA" ,Mosca 1943 . citazione dal libro "i fondamenti della politica israeliana" di Garaudy. Nel 1942 il ministro britannico Lord Vansittart, vero apostolo dell'odio, allo scopo di giustificare il terrore provocato dai bombardamenti inglesi, disse:
"Gli unici bravi tedeschi sono i tedeschi morti; dunque che piovano le bombe Nel luglio del 1944 Churchill inviò al suo capo di stato maggio re, generale Hastings Imay, un memorandum di quattro pagine, in cui propose il seguente progetto: "Voglio che riflettiate molto seriamente sulla questione dei gas asfissianti" E assurdo, in questo affare, tenere in conto la moralità, dal momento che tutti li hanno utilizzati durante l'ultima guerra, senza che ci fossero proteste da parte dei moralisti e della Chiesa. D'altra parte, allora i bombardamenti di città aperte erano considerati vietati; oggi tutti li praticano come una cosa che va da sé. Si tratta solo di una moda paragonabile al mutamento della lunghezza delle gonne …..."Voglio che si esamini freddamente quanto converrebbe utilizzare dei gas asfissianti non bisogna farsi legare le mani da sciocchi principi ... "Potremmo inondare le città della Ruhr, così come altre città tedesche, in modo che la maggioranza della popolazione abbia bisogno di costanti cure mediche…. Forse bisognerà attendere qualche settimana o anche qualche mese prima che io vi chieda d'inondare la Germania con i gas asfissianti e, se lo faremo, facciamolo in modo completo. Nel frattempo, vorrei che la questione fosse esaminata freddamente da persone sensate e non da persone travestite da cantori di salmi, guastafeste come se ne trovano qua e là".
Fonte: "American heritage", agosto-settembre 1985

Né Churchill, né Stalin, né Truman presero posto al banco dei criminali di guerra. Non più, d'altra parte, di quanto furono chiamati in causa gli autori dei più ignobili appelli al crimine. Citeremo solo due esempi, tra i più deliranti: per primo l'appello a un "genocidio", questa volta nel vero senso della parola, lanciato nel 1941 con il libro dell'ebreo americano Theodor N. Kaufman, Germany must perish (La Germania deve morire) la cui tesi principale è la seguente:
"I tedeschi (quali che siano: antinazisti, comunisti o anche filosemití) non meritano di vivere. Di conseguenza dopo la guerra si mobiliteranno 20.000 medici perché ognuno sterilizzi 25 tedeschi al giorno, di modo che in tre mesi non ci sarà un solo tedesco capace di riprodursi e in 60 anni la razza tedesca sarà totalmente eliminata".
Si trattò di una bravata che alimentò l'antisemitismo: Hitler fece leggere dei brani di questo libro da tutte la stazioni radio. In secondo luogo, l'ebreo russo Ilya Grigoryevich Ehrenburg nel suo Appello all'Armata Rossa, pubblicato nell'ottobre 1944, scrisse:
"Uccidete! Uccidete! Tra i tedeschi non ci sono innocenti, né tra i vivi, né tra chi deve nascere! Eseguite le istruzioni dei compagno Stalin schiacciando per sempre la bestia fascista nella sua tana. Spezzate con la violenza l'orgoglio delle donne germaniche. Prendetele come legittimo bottino. Uccidete, uccidete, valorosi soldati dell'Armata Rossa, nel vostro irresistibile assalto" 
citato dall'ammiraglio Donitz, Dix ans et 20 jours, pp.343-344.

Costoro non figurarono tra gli accusati di Norimberga, non più dei capi di Stato che li avevano protetti. Né vi figurarono i responsabili
anglo-americani del bombardamento su Dresda che fece 200.000 vittime civili e senza alcun interesse militare, giacché l'esercito sovietico aveva oltrepassato quell'obiettivo. Né vi prese posto Truman, colpevole dell'apocalisse atomica di Hiroshima e di Nagasaki che provocò 300.000 vittime civili, anche in questo caso senza necessità militare, perché la resa dei Giappone era già stata decisa dall'imperatore. Non toccò nemmeno a Berija e a Stalin, che scaricarono sulle spalle dei tedeschi il massacro di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn

Brani estratti dal libro di Erich Kuby intitolato "I russi a Berlino" ed. Longanesi 1969. Queste citazioni, provenienti da un'autore antifascista e amico dei sovietici dimostrano sia le responsabilità di Ehrenburg e dell'ufficio propaganda sovietico nell'incitare all'odio e allo stupro i militari sovietici sia i loro sforzi successivi per limitare i danni onde portare la popolazione tedesca dalla parte comunista.

……Per i milioni di uomini. per "il popolo in uniforme", che Zukov, Konev, Bogdanov ed altri comandanti dell'esercito guidarono verso l'Europa centrale, "l'occidente" era un miracolo inebriante. Se le berlinesi si nascondevano nei piani superiori degli edifici alti, erano abbastanza al sicuro da violenze: la maggioranza dei soldati sovietici era cresciuta in case di legno ad un piano; gli alti edifici di pietra li mettevano in soggezione. Anche l'ufficiale Storia della grande guerra patriottica descrive la Germania fascista, la quale sarebbe "rimasta un avversario forte e pericoloso fino ai giorni precedenti il suo crollo completo", con frasi di questo genere: "Tutti gli edifici, non soltanto nelle città, ma anche nei villaggi, erano di pietra" (vol. V, p. 251).

Marescialli e generali si chiedevano preoccupati che cosa sarebbe successo dal momento che questi uomini primitivi fossero penetrati nella metropoli berlinese, che, sebbene devastata, poteva loro apparire pur sempre imponente, stracarica di tesori. Essi temevano che la truppa potesse sfuggire loro di mano, e per un certo periodo accadde proprio questo. Per prevenire tali incidenti e mantenere la forza d'urto delle loro formazioni, essi fecero tutti gli sforzi possibili. Tentarono di "istruire" in maniera adeguata i loro soldati. Ma questo compito educativo era superiore alle forze dei reparti politici delle formazioni di truppa, perché ormai non si poteva più, tutto a un tratto, far credere che il demone fascista in blocco fosse costituito soltanto da poveri lavoratori tedeschi indotti in errore. Si dovevano fare distinzioni complicate che i soldati non sarebbero riusciti a capire. I diavoli dovevano restare diavoli; oltre ad essi c'erano i sedotti, ma come li si poteva individuare? Tutti erano tedeschi, parlavano tedesco, avevano l'aspetto di tedeschi. Alcuni sparavano giù dai tetti; era chiaro che quelli andavano stanati. Ma con tutti gli altri, che non sparavano, come si doveva capire se meritavano fiducia oppure morte? Non si può verificare se quel tentativo di "rieducazione" abbia avuto successo, perché non sappiamo che cosa sarebbe accaduto a Berlino in mancanza di quello. Si sarebbe ripetuto qualcosa di simile di quel che avvenne a Kiev, a Krasnodar, a Dunaburg, a Minsk, tanto per citare soltanto alcune delle città dell'Urss "assassinate da cima a fondo" dai tedeschi (assassinate da cima a fondo è usato qui come altrove si usa il termine "disboscare")? In ogni caso il risultato politico che interessava a Stalin non fu raggiunto ed al dissolvimento della disciplina si poté far fronte soltanto con interventi drastici e portando immediatamente le truppe fuori dalle grandi città. Dal 15 maggio 1945 gli uomini dell'Armata Rossa sul suolo tedesco vissero in un isolamento molto più severo che qualsiasi altro esercito di occupazione. Ma anche dopo il 15 maggio gli eccessi non terminarono. Quando, all' inizio di luglio, i contingenti di truppe occidentali presero in consegna i loro settori a Berlino, i soldati sovietici commisero vere e proprie rapine notturne nei quartieri cittadini loro assegnati; per questo Zukov, preoccupato per il prestigio internazionale delle sue truppe, si rivolse a Mosca con una pressante richiesta d'aiuto. In tutta fretta fu messa in marcia per Berlino una divisione scelta, che non aveva ancora preso parte ad alcuna azione di guerra; essa riuscì finalmente a ristabilire l'ordine e la sicurezza.

….Pressoché nessuna testimonianza è riferita esclusivamente alla propria persona, nessuna lascia intravedere l'ambiente che circonda il protagonista. L'idea che ciascuno porta sulle spalle un destino personale, si era andata spegnendo per i tedeschi, se non già prima della guerra e con l'evolversi dello Stato onnipotente, almeno durante la guerra stessa; infine, con la pioggia di bombe su Berlino, si era venuta formando non la comunità popolare combattente vagheggiata da Hitler, bensì una collettività di pazienti e di sofferenti. Quando l'impotenza militare da un lato e la violenza che entrava nell'esistenza individuale dall'altro raggiunsero il limite massimo con gli stupri, codesti non furono più sentiti come un destino che colpiva l'individuo, ma come un destino collettivo: fu proprio questo fatto che aiutò molte donne a superare lo choc interiore con sorprendente rapidità. Con questo non si vuol negare che ci furono anche dei casi in cui le conseguenze fisiologiche e psicologiche portarono ad una distruzione della personalità. Alcune donne divennero pazze incurabili. La sensazione, allora predominante, di subire un destino collettivo spiega anche perché in quei giorni, nelle cantine e più tardi nelle abitazioni, si parlasse degli stupri così come si conversa sul tempo o sull'ultima distribuzione di viveri: caratteristica, nelle note, di diario delle donne di allora e nelle loro testimonianze di adesso, è la concretezza. Non parlano di se stesse, ma della cantina, della casa, dell'isolato, dell'ospedale, delle autorità o di qualsiasi altro elemento della comunità, direttamente percepibile da chi racconta. Questo rende possibile il registrare la frequenza delle violenze commesse nell'ambito della comunità interessata, tanto da permettersi se non proprio una statistica precisa, almeno un mosaico di casi non inesatto per ordine di grandezza.

Rinunciamo qui a ripetere l'analisi statistica di centinaia di testimonianze, dalla quale risulta che il numero degli stupri a Berlino è dell'ordine di grandezza di alcune decine di migliaia di casi. Quando i sovietici occuparono la capitale del Reich, Berlino aveva una popolazione di 1,4 milioni di donne, bambine comprese. Circa l'80 per cento delle violenze nel territorio della Grande Berlino sono state commesse tra il 24 aprile ed il 3 maggio 1945. Col passare del tempo, i singoli casi di stupro destavano maggiore scandalo. Se nel giro di pochi giorni quei soldati sovietici che si lasciarono andare a simili violenze non riuscirono più a trovare altre vittime, ciò non fu dovuto soprattutto alla cessazione delle ostilità, al ritorno dell'ordine o ai provvedimenti dei comandi dell'esercito, ma fu in primo luogo una conseguenza dell'astuto atteggiamento delle stesse berlinesi: esse, appena si resero conto del pericolo, inventarono una quantità di misure cautelative e di astuzie, per sfuggire al flagello o impedire il suo ripetersi. Queste misure andavano dal mascherarsi indossando stracci consunti, spalmandosi di cerone e mettendosi parrucche, all'inventare malattie infettive o ripugnanti, al reperimento di nascondigli sicuri, all'informarsi sulle abitudini dei soldati sovietici ed all'applicazione di metodi psicologici più sottili. Chi aveva la forza interiore e l'intelligenza di non mostrare diffidenza né paura ed aveva la trovata giusta al momento giusto (come quella donna che, sorpresa da sei russi, tolse dall'armadio un trenino e si mise a giocare con i nuovi arrivati sul pavimento) di regola ne uscì indenne. Altre donne scelsero un'altra strada. Tale fu la scelta di quell'ignota berlinese, dal cui diario, pubblicato, abbiamo già tratto numerose citazioni.

Ella racconta:
"Prima di andarsene, frugando nella tasca dei pantaloni, tira fuori qualcosa e lo mette sul comodino... La mia mercede! Quando mi alzo, giramenti di testa, voglia di vomitare. Gli stracci mi cadono ai piedi. Barcollando lungo il corridoio, passo davanti alla vedova che singhiozza ed entro nel bagno. Vomito... Non ho il coraggio di ripulire, perché gli sforzi continuano e l'acqua nel secchio delle pulizie è così scarsa. Ad alta voce dico: 'Maledetto!' Prendo una decisione. Chiaro: qui ci vuole un lupo che tenga lontani i lupi. Ufficiale, più alto che si può, comandante, generale, quel che viene. A che mi serve il mio cervellino e quel poco di conoscenza di lingue"
Invece di essere scelte a caso, scelsero loro stesse e si cercarono un
protettore russo. Se costui, da un giorno all'altro, viene trasferito,
inviato d'ufficio altrove, non di rado ritorna. Se nel frattempo un altro protettore ha preso il suo posto, succede la rissa.

[…] ’Il 13 febbraio’ gli riferì la donna, ‘giorno dell’ingresso dei sovietici, restammo in cantina sino alle 20, indisturbate. Poi sentimmo dei passi e tanto era il terrore che ci prese, che non osavamo neppure respirare. Comparvero quattro soldati che dapprima si comportarono sopportabilmente; presto però divennero un pò troppo intraprendenti verso di me e verso la giovane signora Keil e all’improvviso fu: ‘Frau komm’. Non risposi. Al terzo ordine, spazientito, il soldato mi afferrò per un braccio, mi sollevò e mi diede un calcio tale che volai sino alla porta della cantina. Un altro malmenò la signora Keil e poi se la trascinò dietro, costringendola a portare con sé la figlia Traudl. Anche sua mamma e sua sorella dovettero andare.

Cosa poi ci capitò, non occorre che glielo descriva: andò avanti tutta la notte sino al mattino; bestiale! Io tornai per prima nella cantina e lì trovai i due anziani coniugi della nostra casa uccisi e con gli occhi enucleati: si erano opposti, come mi raccontò la signora Tindel, a lasciar andare con loro la cognata ed il nipotino. Verso le 10, ci fu un po’ di tranquillità e tutte ci recammo nell’appartamento della signora Keil, la cui figlia undicenne era stata pure violentata.

Lì ci cucinammo qualcosa da mangiare e in quel mentre udimmo di nuovo passi e si ricominciò daccapo. Urlavamo, li pregavamo di lasciarci in pace, ma non avevano pietà. Ci accordammo allora di impiccarci, ma ne sopraggiunsero altri. Quando finalmente anche costoro se ne andarono eravamo pronte. Ognuna di noi si era procurata un coltello ed anche un lenzuolo era pronto. La signora Polowski s’impiccò per prima. La signora Keil impiccò dapprima la sua Traudl e poi se stessa, lo stesso la sua cara mamma fece con sua sorella. Restammo solo noi due, sua mamma ed io.

La pregai di farmi il cappio, poiché, per l’eccitazione, non ci riuscivo; lo fece, ci abbracciammo ancora una volta, e spingemmo via coi piedi il bauletto sul quale stavamo. Mi accorsi di toccare terra con la punta dei piedi: sua mamma mi aveva fatto la corda troppo lunga. Provai ancora e ancora, perché volevo morire, ma senza riuscirvi; guardai e destra e a sinistra: eravamo appese tutte su una fila e loro si trovavano bene, poiché erano morte. A me non restò che liberarmi dal cappio, cosa che mi riuscì dopo molti tentativi. Ero sola e fuggii disperata. (pag.91)

«Il 3 maggio, quando la regione di Teschen fu abbandonata dall’esercito tedesco, i coniugi Faricek convennero che il loro soggiorno nella città, dove erano sfollati nel febbraio, era divenuto del tutto superfluo e che il meglio che potessero fare era di tornarsene a Pless, loro città natale. […] Non andarono oltre. Sulla strada incapparono in un posto di blocco della milizia polacca e dovettero presentare i documenti e poiché da questi risultava che erano cittadini tedeschi, due guardie intimarono loro di seguirli e li portarono alla sede del loro comando. […] Non era escluso che fossero anche dei ‘criminali nazionalsocialisti’. Li arrestò e l’indomani li consegnò alla Bespieka di Bielitz. […] Pensava a suo marito e quasi non lo riconobbe quando se lo vide davanti, tant’era paonazzo in viso per le percosse ricevute. Ebbe il tempo di dirle che così l’avevano conciato perché volevano che dichiarasse di essere stato membro del partito nazionalsocialista e scomparve con gli altri uomini diretto al fabbricato vicino, dove lo rinchiusero nel sotterraneo lì adibito a prigione. […] Tutto quanto poté apprendere era che nel sotterraneo c’erano uomini che per i maltrattamenti subiti non erano più in grado di muoversi. Trascorsero mesi e, un giorno, lei non era più prigioniera, un soldato tedesco d’origine polacca, miracolosamente riabilitato e rimesso in libertà, le fece sapere che, al terzo giorno di prigionia, a suo marito, per non aver voluto ammettere di essere nazionalsocialista gli avevano spaccato tutti i denti e poi lo avevano strozzato». (pag.180-181)

«Fatale tutta la faccenda lo fu invece per Max Haller, il quarantacinquenne gestore dell’albergo della stazione di Tillowitz. L’avevano già accusato di essere stato nelle SS e ora gli ribadivano l’accusa che lui respingeva come aveva fatto a Tillowitz. Un colloquio tra sordi che si trascinò per un pò finché l’oste fu spinto in un camerino accanto all’ufficio, assieme al Proll di Schurgast, e otto miliziani li seguirono e riempirono tutti e due di botte. Ma più quelli picchiavano e più loro negavano di essere stati nelle SS, finché Haller, non sapendo più a cosa votarsi, li pregò di andare a informarsi presso tutti i suoi compaesani e le guardie, consenzienti, li portarono fuori. Avevano i vestiti strappati e in alcune parti si poteva vedere il corpo nudo e tutte queste parti nude sanguinavano. Haller s’illuse: non lo fecero passare davanti ai suoi compaesani, ma piegarono dietro l’angolo dell’ufficio e lì lo fucilarono. A controllo ultimato i vecchi furono raggruppati in una baracca dove avrebbero ricevuto così poco da mangiare da poter morire in pochi giorni, le donne ed i bambini in altre e così pure le ragazze.»

«Si avviò ognuno al posto assegnato con in mano un pezzo di stoffa con una grande ‘W’, che voleva dire Wiezien, prigioniero, da cucire sulla giacca e con questo si chiuse il primo giorno d’internamento. […] Fece bene, perché i miliziani il numero lo dicevano una sola volta e la seconda e tutte le successive volte picchiavano senza pietà tutti quelli che sbagliavano nel ripeterlo. Quel mattino tre suoi compagni per questo persero la vita: stramazzarono al suolo ed i guardiani li trascinarono per i piedi sin dietro le baracche delle donne. Toccò a lui, assegnato con altri sei alla squadra becchini, andare a raccoglierli. Giacevano nell’erba, il primo con la testa così spaccata che di essa restava solo la mascella inferiore, mentre cervello ed ossa erano sparsi di qua e di là, il secondo ed il terzo non erano che resti carbonizzati, bruciati nei vestiti che indossavano. Da quel giorno Johann Thill divenne l’involontario cronista dell’anno di esistenza del Lager. Vide i suoi connazionali crollare per le estenuanti fatiche e per le scarse razioni che nelle festività non venivano neppure distribuite; seppellì i vecchi e gli invalidi ed i bimbi spesso divorati dai pidocchi e dalle cimici, raccolse i corpi dei fucilati e dei torturati. Anche quello di Johann Lein, il suo conoscente di Bauerngrund.» (pag.182-183)

«Si formò in tal modo, dopo i colpiti dalle deportazioni e dal lavoro coatto sovietici e dopo i colpiti per nazionalsocialismo o per tradimento, una terza serie, la serie dei depauperati, una sorta di sottoproletariato disponibile per ogni incombenza. La Milizia la mobilitò in massa, prelevandola a seconda delle necessità e dove capitava: nei quartieri che abitava, per le strade dove passava, nei villaggi dove viveva, agli ingressi delle chiese, nei giorni di funzione, quando urgeva. La portava a demolire fabbricati, a sgombrare macerie, a riesumare e seppellire cadaveri; se ne serviva per riattivare settori industriali e fornire braccia all’agricoltura e, a lavori ultimati, lasciava che se ne tornasse ai propri luoghi, indebolita e malata per l’insufficiente vettovagliamento ricevuto e senza mezzi per poter procurarsi qualcosa per sostentarsi. […] Finirono, in altri termini, dietro il filo spinato, in Lager che di cambiato non avevano che il nome e la nazionalità dei sorveglianti e dove, per il resto, sembrava che il tempo si fosse fermato ad un recente passato, cosicché chi vi capitò, rivisse quello che altri vi avevano vissuto: appelli, maltrattamenti, lavoro, fame, malattie, morte. […]

Renate Schulze arrivò al Lager di Potulice il 30 marzo 1946. Portava con sé i segni e le esperienze di un anno di prigionia e l’immagine ed il ricordo dei luoghi da dove era dovuta passare. Prigioniera l’avevano fatta i sovietici durante la fuga nel gennaio del 1945 e l’avevano rinchiusa a Crone sulla Brahe, nel circondario di Bromberg, a spidocchiare e ripulire, per tutto l’inverno, stracci e coperte e a liberare degli escrementi i luoghi che quelli, poco usi ai gabinetti o scientemente, imbrattavano. […] Due miliziani l’afferrarono e la condussero nel sotterraneo della prigione, in una delle cellette, senza finestre ed aerazione, un tempo adibite per i peggiori criminali, e le ordinarono di spogliarsi. Sorpresa ed imbarazzata, quel giorno aveva le sue regole e perdeva sangue, cercò di tergiversare, ma un paio di sonori schiaffi le fecero capire che bisognava obbedire. Lo fece tra pianti e colpi di manganello e di calcio di fucile e quando restò nuda perdette pure i sensi: i miliziani le gettarono addosso un secchio d’acqua e se ne andarono e quando lei rinvenne si accorse che le mancavano alcuni denti. Al terzo giorno tornarono, non per darle da mangiare, ma per bastonarla ancora. […] La tirarono fuori cinque giorni dopo con il divieto di riferire cosa era stato di lei e la rimisero a lavorare, fino a quando, ridotta inabile alle fatiche, la spedirono nel Lager di Langenau. Langenau sembrava un porto di mare. La Schulze vi trovò internati civili e prigionieri di guerra tedeschi e prigionieri di guerra stranieri che avevano servito nelle forze armate del Reich e perfino polacchi dell’armata di Anders venuti dall’Occidente in licenza al loro paese. Incontrò tedeschi nati e vissuti in quei luoghi in comunità coi polacchi e tedeschi nati, come lei, all’estero e ancora tedeschi del Reich, bloccati da quelle parti dagli eventi bellici. Vide pure arrivare gli internati di Kaltwasser e poi quelli di Hohensalza, questi ultimi ancora traumatizzati dai metodi di Wladislaw Dopierala, il ‘terrore del Lager’, che usava far distendere i colpevoli di mancanze o persone scelte a caso in bare disposte in fila e, lì, fulminarle con un proiettile alla testa. […] Un saggio di questa lo ebbe già poco dopo il suo arrivo, il giorno in cui Heinrich Fischer e Willy Kalle, tenuti lì come prigionieri di guerra, avevano tentato la fuga. Lontano i due non erano riusciti ad andare; ad alcuni chilometri dal Lager la Milizia li aveva catturati e ricondotti indietro giusto al momento in cui gli internati erano schierati in cortile. Arrivarono trascinati come sacchi e i radunati si videro davanti due esseri che più nulla avevano dei due robusti giovanotti che tutti conoscevano, ma non ebbero il tempo di commuoversi perché furono sopraffatti da quello che seguì. Uno dei due miliziani estrasse la baionetta e colpì Fischer alla nuca e poi sommersero lui e Kalle di manganellate e di colpi di fucile e per ultimo li trascinarono ai cessi e li costrinsero a vuotarli con dei recipienti piccolissimi. Il sangue colava a Fischer e a Kalle ed il loro corpo era irrigidito dalle bastonate, per cui facevano fatica a portar via, con quegli aggeggi, il luridume senza versarlo e poiché facilmente sporcavano, ogni volta erano costretti a leccarlo o a distendervisi sopra, finché i miliziani si stancarono e i due rimasero inanimati per terra. Fischer morì qualche settimana dopo, Kalle fu portato via con un trasporto e di lui né la Schulze né altri ebbero più notizia.» (184-186)
«In un rapporto al Foreign Office R.W.F. Bashford, nell’estate 1945, comunicava da Berlino: ‘I campi di concentramento non sono stati aboliti, ma sono stati presi in consegna dai nuovi padroni e vengono per lo più diretti dalla Milizia polacca. In Swietnochlowice (Alta Slesia) i prigionieri che non muoiono di fame o non vengono bastonati a morte son costretti a stare notte dopo notte nell’acqua gelida finché periscono. A Breslavia ci sono sotterranei da dove provengono di giorno e di notte le urla delle vittime’. L’argomento é pure trattato in un rapporto al Senato americano (28 agosto 1945). In esso vengono citati diversi casi di violenza e viene confermato pure che a Breslavia la Milizia polacca infierisce sui detenuti nelle proprie carceri sotterranee, tanto che gli abitanti delle case circostanti vogliono traslocare, non potendo più sopportare le grida delle vittime (cfr. Zayas, Alfred M. De, Die Anglo-Americaner und die Vertreibung der Deutschen, Monaco, dtv, 1980).» (pag.187)
«L’internata suor Maria Saroviz fece un giro attraverso il complesso di baracche destinate alle mamme nuove arrivate coi loro bimbi e, giunta alla baracca d’angolo, sentì, provenire dall’interno, sommesse grida accompagnate da pianti e da gemiti. Sorpresa, e allo stesso tempo curiosa, spinse la porta; il tanfo che la investì la fece retrocedere istintivamente, riuscì però a vincere il senso di repulsione che provava ed entrò. Sepolte nella paglia e nella sporcizia giacevano una quarantina di vecchiette pelle e ossa, irriconoscibili, quasi senza più sembianze umane che, al vederla, accentuarono i loro lamenti. Le guardò con aria inebetita e non seppe che dire e che fare; richiuse adagio la porta e si allontanò in fretta. Ci ritornò l’indomani, dopo il giro di distribuzione alle mamme dei buoni per la razione di brodaglia, per stabilire quante porzioni potevano occorrere per quelle poverette; trovò la porta spalancata e l’interno vuoto, salvo, sparsi qua e là, qualche straccio d’indumento e oggetti insignificanti. Fuggì inseguita dall’orribile sospetto che le era balenato a quella vista e arrivò, pallida e ansante, nella cucina del Lager. La videro le donne indaffarate ai paioli entrare e accasciarsi su una sedia e, spaventate e allarmate, le si fecero attorno, ma lei non ebbe il tempo di spiegare perché la miliziana di servizio, intuendo che cose le era capitato, la prevenne commentando seccamente:
‘Che cosa c’è di male se si liquidano questi vecchi tedeschi puzzolenti. Non c’è posto disponibile e non c’è da mangiare, meglio dunque farli sparire. Tutte quelle persone sono state fucilate stanotte’». (pag.188)
«Accadeva dopo mezzanotte: le donne, che nulla sospettavano, venivano svegliate e fatte uscire dalla baracca e condotte nel bosco che si trovava subito dietro il Lager. Là c’erano ancora molte trincee di approccio ai bordi delle quali le donne dovevano schierarsi e spogliarsi completamente e, quando erano pronte, ad un ordine partivano le raffiche delle mitragliatrici piazzate ai lati e quelle cadevano nei camminamenti. Era quindi la volta di farsi avanti della squadra spalatori, essa pure prelevata dalle baracche per riempire le fosse di terra. Il lavoro andava rapido senza badare a gemiti che da quelle fosse provenivano, ché non tutte erano morte, ed al mattino ogni traccia dell’accaduto notturno era scomparsa. […] Nel Lager dunque non doveva esserci posto per i vecchi e nemmeno per i bambini ed i fanciulli, dato che quelli dai quattro ai quattordici anni erano quasi ovunque assenti. […] A Potulice si erano accontentati del rombo dei motori in avviamento; i camion erano partiti e da quel momento i fanciulli erano entrati nell’avventura che da piccoli tedeschi avrebbero dovuto trasformarli in adulti polacchi. Le madri li videro allontanarsi senza sapere dove andavano e perché andavano; non necessitava che lo sapessero poiché anche i loro figli, come ogni cosa tedesca, animata ed inanimata, apparteneva allo Stato polacco. Alcune, tuttavia, sarebbero riuscite a rintracciarli, altre, invece, ne persero le tracce. […] Il tempo trascorse, i Lager si sfollavano, gli internati venivano espulsi dal paese.» (pag.189)
«Nel 1950 e nel 1951 gli ultimi prigionieri lasciarono i campi ancora aperti. August Rosner poteva essere considerato la sintesi delle sofferenze dei suoi connazionali in quella parte d’Europa. La sua storia iniziò il giorno della grande offensiva sovietica e si concluse nell’anno 1950 in una cittadina dell’Assia. ‘… In quel giorno del 19 gennaio 1945, dunque, i sovietici mi arrestarono e mentre mia moglie e mia figlia, senza più i miei nipotini, si allontanavano sulla strada per Penczniew, mi condussero nel carcere di Schroda. […] Dopo cinque settimane fummo trasferiti a Kalisch e aggregati ad altri tedeschi, molti dei quali versavano in condizioni assai pietose, e in circa 2.000 finimmo al Lager di Posen. Eravamo ora in 4.000, amministrati dai sovietici, ma strettamente sorvegliati da polacchi e per molti il destino si concluse qui davanti al plotone d’esecuzione. La nostra prossima destinazione doveva essere l’Unione Sovietica per cui, motivi ne avevo, mi diedi ammalato e la dottoressa della Commissione sanitaria che mi visitò mi dichiarò, con altre 174 persone, inidoneo ad essere trasportato e così mi fu risparmiata la deportazione. […] Ci impacchettarono e ci portarono a Schroda per farci vivere, ci dissero, per la prima volta ‘una accoglienza tedesca’; la provammo quando ci costrinsero a salire le scale della prigione sotto una gragnuola di colpi di bastone. […] Ci davano poco da mangiare e moltissime botte. Soprattutto il polacco Darlinski, che ci odiava, ci maltrattava volentieri e, quando a tre prigionieri riuscì di fuggire, impose a tutti la divisa del galeotto e la rapatura dei capelli anche alle donne e alle ragazze. Non mancavano del resto le occasioni per tormentarci e anche da noi, come in altri luoghi, i prigionieri dovettero riesumare morti (qui erano partigiani polacchi fucilati nel 1939 e seppelliti nel terrapieno della ferrovia) e baciarne le ossa per la gioia dei fotografi di Schroda. Era ormai il giugno del 1949 quando fui trasferito nel grande Lager di Lissa, dove ancora si trovavano un 4.000 prigionieri in attesa di essere rilasciati’.» (pag.228-229)

Il ministro e deputato britannico R.R. Stokes, in una lettera al ‘Manchester Guardian’ dell’ottobre 1945, riferisce quanto egli vide e accertò:
«Ho tentato di trovare alcuni di questi campi di concentramento (della cui esistenza ho saputo qualche mese fa) e ho avuto la fortuna di scoprirne uno a Hagibor, presso Praga… Le baracche erano tipiche di un Lager, con tre letti disposti a castello, senza la più primitiva comodità e con servizi sanitari orrendi. Vi trovai ogni sorta di persone: alcune erano là solo da pochi giorni, altre da mesi e nessuno con cui parlai aveva la benché minima idea del motivo per cui era stato internato. Una signora settantaduenne, da 55 anni residente a Praga, vi si trovava da due settimane per il solo motivo di essere austriaca. C’era pure un settantenne professore d’arte drammatica di Belgrado, con la moglie, quasi del tutto cieco. Aveva lasciato la Russia nel 1911 e da allora viveva in Yugoslavia. Recatosi a Vienna per consultare uno specialista, era stato arrestato dai nazisti perché jugoslavo. Il giorno della Liberazione i cechi lo incarcerarono, probabilmente perché russo ‘bianco’. Poi vidi una signora settantacinquenne, vedova di un ammiraglio zarista, il cui solo desiderio era di raggiungere la figlia nel Tirolo. Si trovava lì da alcuni mesi e veniva nutrita a pane e acqua… In Cecoslovacchia si trovano 51 Lager del genere, nei quali migliaia di persone vegetano e fanno la fame: e se dico fanno la fame lo intendo letteralmente! Ho davanti a me la razione settimanale di questo Lager; ogni giorno é la medesima: colazione – caffè nero e pane; pranzo – zuppa di verdure; cena – caffè nero e pane. La razione giornaliera di pane é di 250 g. a persona… 250 g. di pane e caffè nero non possono tenere assieme corpo e anima e neppure consentire di muoversi. Secondo la mia valutazione le loro razioni forniscono giornalmente 750 calorie, inferiori dunque a quelle di Bergen-Belsen [il Lager nazista liberato dagli inglesi, N.d.A.]».
(Dokumente zur Austreibung der Sudeten Deutschen, cit.)(pag.213)
… Ma dov'erano gli ultimi tedeschi, cui sarebbe propriamente spettato di proteggere le donne? Sappiamo del celebre attore Friedrich Kayssler, che protesse con la propria persona la sua padrona di casa e fu ucciso. Sappiamo di un'altra mezza dozzina di berlinesi (tra le decine di migliaia) che difesero le loro donne e pagarono ciò con la vita. Sappiamo di un paio di dozzine (in totale possono essere stati alcune centinaia) che, senza essere uccisi, preservarono da stupri le loro donne o le donne della loro cerchia più intima con astuzia ed intelligenza. Friedrich Luft racconta:
"La casa accanto era stata distrutta a cannonate già due giorni prima. Tre persone, che si trovavano nella cantina, erano morte. Non so che cosa c'indusse a dissotterrarle: probabilmente un impulso proprio dei tedeschi, che tutto deve essere messo al suo posto. Abbiamo poi tirato fuori i cadaveri, li abbiamo collocati nel giardino vicino a noi e li abbiamo coperti con un tappeto. Questo ci permise di salvarci con l'astuzia quando i russi chiesero delle donne. Per alcuni giorni, non appena venivano da me dicendo 'Dove essere donna?' ho mostrato loro una scena macabra per proteggere le donne che avevamo nascosto sotto il tetto. Andavo coi russi nel giardino, toglievo il tappeto e facevo vedere loro due donne morte. Fingevo di piangere mia moglie, tanto che i soldati, cosa che mi commosse, scoppiavano a loro volta in lacrime; taluni si facevano il segno della croce e mi regalavano qualcosa, fosse pure un tozzo di pane. Poi se ne andavano, probabilmente nella strada adiacente, per cercare donne. Ma intanto le nostre donne, di sopra, erano salve ".
Sappiamo anche di mariti che furono costretti ad assistere allo stupro delle loro mogli e poi furono lasciati vivi oppure furono uccisi. Alcuni non ressero a questa prova. Per il resto, sappiamo che la stragrande maggioranza degli uomini si è rannicchiato dietro le proprie donne, per coprirsi, che ha avuto paura ed ha dimostrato vigliaccheria: una inimmaginabile vigliaccheria. Anche le donne avevano paura, ma dimostrarono coraggio: un inimmaginabile coraggio. Erano loro che uscivano dalle cantine durante le incursioni aeree e sotto le cannonate andavano a prendere acqua, che facevano la coda per acquistare il cibo, in mezzo alle esplosioni delle bombe e delle granate. Riuscirono a preparare i pasti evocandoli praticamente dal nulla, cucinandoli su fuochi di legna, dopo essere andate loro stesse a raccogliere la legna, pur essendo abituate a cucinare, fino a poco prima, col gas o con la corrente elettrica. Nascosero ragazze giovani e tennero lontani da loro i soldati sovietici oppure sacrificarono se stesse, non potendo far altro. Portarono la minestra agli uomini che stavano a letto, perché avevano coliche biliari o dolori ai reni, che duravano tanto quanto durava il pericolo. (Non conosciamo donne che abbiano avuto coliche biliari, in quei giorni). Inchiodarono assi di legno sulle finestre senza vetri: tolsero le macerie da Berlino e lo fecero con un umorismo che stupì i russi, che spesso raccontano come facessero la catena e passandosi i mattoni dicessero: Bitteschoen, dankeschoen; bitteschoen, dankeschoen (prego, grazie; prego, grazie).

Senza le donne, nel 1945, la vita si sarebbe spenta, a Berlino. Senza gli uomini, invece, tutto sarebbe andato come andò effettivamente; ma le donne avrebbero avuto meno preoccupazioni e lavoro. Avevano nascosto gli uomini già prima dell'occupazione, affinché non fossero arruolati nella milizia popolare, e quando cominciarono le demolizioni, quando si dovettero smuovere con i mezzi più primitivi macchine che pesavano tonnellate, su cento persone che facevano questo lavoro, ottanta erano donne, Non parlarono degli stupri con tono tragico; anzi, ben presto non ne parlarono più. Chi ne parla, come se avesse subìto lui questa sorte, è l'uomo, non soltanto a Berlino, ma anche nell'angolo più remoto della Germania, là dove non è mai arrivato un soldato sovietico; là ancor oggi sono gli uomini, non le donne, che raccontano storie orripilanti. Le donne erano e sono piuttosto dell'opinione che il laureando Horst Schutzler ha espresso con la quasi classica formulazione:
"C'erano soldati ed ufficiali che avevano l'idea errata che nella Germania fascista tutto fosse loro permesso".
Fu esattamente così. Ma quell'idea non dipendeva soltanto dal fatto che erano effettivamente i vincitori ,ma anche da quanto avevano provato e visto in Russia;quell'idea era da attribuirsi al modo in cui questo nemico era stato presentato ai loro occhi ed al modo in cui era stato loro dipinto. A questo punto si può tirare in ballo Erenburg; egli ha avuto la sua Parte nel tratteggiare il profilo dei tedeschi. Però nei suoi articoli non si trova un solo passo in cui le sue affermazioni sui crimini tedeschi nell'Unione Sovietica non si possano documentare). I soldati dell'Armata Rossa erano esaltati dalla vittoria ed esaltati dal contatto vivo con la civiltà occidentale. Erano esaltati nel senso letterale della parola. Anche a questo proposito esistono affermazioni concordanti: tra stato di ebbrezza e violenza esisteva di regola un rapporto casuale. In questo stato di disinibizione i soldati sovietici commisero delle azioni di cui sentivano desiderio (dopo anni trascorsi senza ferie e senza donne), ma non le commisero ad onore dell'Unione Sovietica.

……L'orrore per gli atti di violenza fu così generale che le violazioni dell'articolo 218 del codice penale, che vietava l'aborto, furono considerate del tutto legali. In base al calcolo delle probabilità, decine di migliaia di stupri avrebbero dovuto avere come conseguenza un buon migliaio di "figli russi". Non ne conosciamo nemmeno uno. Com'è possibile?

Ci dà un chiarimento un'affermazione del pastore dottor Heinrich Gruber:
"Dinanzi a tutte queste circostanze ci eravamo decisi ad invalidare per questo periodo l'articolo 218 del codice penale. In aggiunta alle disinfezioni immediate compiute dal medico e dalle infermiere a tutte le donne e le ragazze che si presentarono da noi, abbiamo messo in atto il suggerimento morale di compiere aborti".
In realtà l'articolo 218 fu applicato solo nei casi in cui si trattava di "figli di russi", cosicché nella Germania odierna esiste una quantità di giovani perfettamente integrati nella società, i cui padri sono francesi, inglesi, belgi, danesi, americani bianchi e negri, ma figli di soldati russi non ce ne sono. (Oggi però, in base alle leggi vigenti nella Repubblica Federale, una donna è costretta ad allevare un bambino anche se è stata violentata da un criminale). Abbiamo fatto sondaggi per appurare se, dopo la resa le autorità tedesche
hanno invalidato formalmente e per iscritto il divieto degli aborti
nell'ambito della Grande Berlino. Non abbiamo trovato prove di questo, ma ciò non significa che un provvedimento del genere non sia stato preso. L'avvocatessa signora K.-Sch., abitante a Wedding, dichiarò di non ricordarsi che in quel periodo (si tratta dei mesi che vanno da maggio ad agosto del 1945) sia stato istruito qualche processo per aborto compiuto su sé o su altre persone. Sulla base di quanto le è noto, una commissione avrebbe autorizzato ufficialmente l'interruzione della maternità, se la partoriente avesse dimostrato di essere stata violentata. L'avvocato dottor R., che al tempo della resa viveva a Konigsberg, venne il 20 settembre 1945 a Berlino e cinque giorni dopo fu autorizzato ad esercitare la professione. Come molti avvocati berlinesi, nel periodo di transizione, egli assolse occasionalmente le funzioni di giudice, dovendo trattare gli "arretrati" lasciati dai giudici regolari nazisti, i quali nel frattempo erano stati esonerati dal loro incarico. Il dottor R. ritiene impossibile che le autorità di Berlino abbiano emanato una disposizione in base alla quale le donne violentate dai russi avrebbero potuto abortire impunemente; una disposizione di questo tenore sarebbe stata impensabile se non altro per la grande suscettibilità dei russi a questo proposito. Ci sarebbe stato piuttosto un tacito accordo tra polizia, pubblici ministeri e giudici, nell'adottare la più ampia indulgenza possibile. Anche il dottor R. non conosce alcun processo penale istruito in questo periodo per violazione dell'articolo 218. "Perciò è impossibile fare una valutazione, sia pure approssimativa, del numero di aborti; d'altra parte, questi non erano affatto da imputarsi totalmente a stupri commessi dai russi. Numerose donne interruppero la maternità perché pensavano che in quei tempi di miseria non avrebbero potuto nutrire i loro figli. Presso l'ufficio stampa del tribunale di Berlino è stato possibile appurare che, subito dopo la resa, una commissione composta da giuristi, funzionari di polizia, funzionari di Stato e rappresentanti del clero, discusse sul modo per aiutare le donne incinte in seguito ad uno stupro. Poiché la discussione minacciava di continuare fino a che queste donne avessero già partorito", i dibattiti s'insabbiarono. Nessuna donna fu perseguita per aborto compiuto da sé o da estranei su di lei. A Berlino vigeva il tacito accordo di non intervenire. Non è dimostrata l'esistenza di una direttiva delle autorità giudiziarie che suggerisce di tenere un comportamento passivo. In nessun caso sono state impartite disposizioni scritte ".

…..Un colonnello: "Mosca si sarebbe accattivata la simpatia della popolazione se non avesse permesso le violenze, soprattutto verso le donne. Il nostro vero odio era rivolto allora contro gli alleati occidentali, da cui ci sentivamo abbandonati ai sovietici".

Così, fra discorsi ed applausi, se ne partì l’Armata Rossa. Aveva avuto il tempo di infierire, stuprare, deportare, ridurre allo stremo la popolazione tedesca e, soprattutto, di spogliare il paese dei macchinari e delle apparecchiature industriali, dei beni agricoli e del patrimonio zootecnico. Si portò via i mezzi di trasporto, le attrezzature scolastiche, municipali, alberghiere, ospedaliere e, singolarmente, si arricchì di ogni possibile bene privato, senza trascurare le biciclette, un mezzo che molti dell’Armata Rossa non avevano mai usato. (pag.176)


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