Descrizione

La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi” - Honorè de Balzac -

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano !" - Isaac Newton -

Contra factum non valet argumentum”

Il Delitto Matteotti di Maurizio Barozzi

IL DELITTO MATTEOTTI

di Maurizio Barozzi

Una inchiesta sul caso Matteotti e una analisi critica della
tesi, oggi di “moda”, avanzata dallo storico Mauro Canali


«I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell’omicidio fosse Re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair.
Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l’eliminazione del suo avversario politico». 
- Mauro Canali - “Oggi” 13.12.2000
«Si può essere sicuri solo di due cose: che Mussolini non c'entrava affatto, e che i mandanti del delitto sono ancora sopra di noi, refrattari alle vicende giudiziarie, potenti al punto da essere esonerati dal figurare tra i protagonisti della Storia».
- Franco Scalzo -

ROMA - MARZO 2015 – TESTO NON IN VENDITA – AI SOLI FINI DI STUDIO
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MUSSOLINI NON C'ENTRA "NIENTE" CON L'OMICIDIO matteotti
http://www.youtube.com/watch?v=sq8nf95Zxg8&feature=youtu.be


Contribuisci ora per la gioia di Sion
INDICE GENERALE

INDICE GENERALE ................................................................. pag. 2
INTRODUZIONE....................................................................... pag. 5
Giacomo Matteotti: cenni biografici .......................................... pag. 9
PROLOGO: ........................................................................... pag. 12
I documenti del “camioncino” e/o di Dongo ....................... pag. 12
Lo scetticismo su Silvestri di Mauro Canali ....................... pag. 15
La lettera memoriale di Dumini ......................................... pag. 18
Il teorema di Mauro Canali ............................................... pag. 19
Il personaggio Mussolini .................................................. pag. 23
IL DELITTO MATTEOTTI ......................................................... pag. 25
Le cronache del misfatto .......................................................... pag. 27
I primi timori sulla scomparsa ............................................. pag. 33
La seconda auto e Otto Thierschald ................................... pag. 34
Indagini e sviluppi .................................................................... pag. 40
Primi arresti e dimissioni ..................................................... pag. 48
Mussolini nella bufera ......................................................... pag. 54
Ritrovamento del cadavere ...................................................... pag. 58
La borsa dei documenti ...................................................... pag. 60
La storiella della morte per emottisi .................................... pag. 61
Rivelazioni di Benedetto Fasciolo & Co. .............................. pag. 62
L’AFFAIRE MATTEOTTI .......................................................... pag. 65
Menzogne, depistaggi e veri responsabili ........................... pag. 65
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Uno “strano” mandante chiacchierone ................................ pag. 67
Cause, movente e modalità del delitto ...................................... pag. 69
LA TESI DELLO STORICO MAURO CANALI........................... pag.72
Arnaldo Mussolini .............................................................. pag. 75
Il petrolio ................................................................................... pag. 80
Le vicende petrolifere degli anni ’20 ................................... pag. 81
La convenzione con la Sinclair ........................................... pag. 85
C'era la Standard Oil dietro la Sinclair Oil? ....................... Pag. 91
Una lettera dello storico Giorgio Spini ................................ pag. 95
Le bische ........................................................................... pag. 98
Altri interessi ...................................................................... pag.100
I SOCIALISTI AL GOVERNO? ................................................. pag. 105
Due piccioni con una fava ................................................ pag. 107
TESTIMONIANZE DECISIVE .................................................... pag. 109
Carlo Silvestri e altri .......................................................... pag. 109
Ricordi di Edda Mussolini ................................................. pag. 119
Il parere del figlio di Matteotti ................................................... pag. 122
Mandanti sconosciuti e implicazioni politiche ............................ pag. 127
La polemica “revisionista” ....................................................... pag. 132
Il misterioso assassinio di Bonservizi ....................................... pag. 138
Il memoriale di Dumini .............................................................. pag. 144
AFFARI SPORCHI E PERSONAGGI AMBIGUI ........................ pag. 150
Giuseppe Toeplitz ............................................................. pag. 152
Filippo Naldi ...................................................................... pag. 153
Aldo Finzi ........................................................................... pag. 154
Emilio De Bono ............................................................. pag. 156
Cesare Rossi ..................................................................... pag. 157
Giovanni Marinelli .............................................................. pag. 159
Filippo Filippelli .................................................................. pag. 160
Amerigo Dumini ................................................................. pag. 162
Vittorio Emanuele III .......................................................... pag. 167
Ambienti non estranei all’Affaire ....................................... pag. 170
I possibili organizzatori del delitto ............................................ pag. 172
La “bella vita” dei carcerati ....................................................... pag. 179
Il processo di Chieti e le condanne .......................................... pag. 181
Il processo bis di Roma e le condanne .................................... pag. 185
Obiettivo: assassinare Mussolini ....................................... pag. 188
Un colloquio infuocato ...................................................... pag. 189
Perché Mussolini non andò fino in fondo ................................ pag. 190
Verso la dittatura ...................................................................... pag. 195
CONCLUSIONI ........................................................................ pag. 199
POST SCRIPTUM .................................................................... pag. 214
Il sospetto di un tacito accordo Matteotti / Mussolini. ............... pag. 214
L’articolo di Michelangelo Ingrassia ................................ pag. 216
Bibliografia ............................................................................... pag. 222
NOTE ..................................................................................... pag. 223


L' autore, Maurizio Barozzi, è nato a Roma nel 1947. Ricercatore,
appassionato di Storia, si è dedicato ad accurate inchieste, in particolare quelle relative alle vicende riguardanti gli ultimi giorni e la morte di Mussolini.
Ha collaborato con il quotidiano Rinascita, nel quale ha pubblicato articoli di carattere storico e attualità politica, inchieste sulla morte di Mussolini, la strategia della tensione e argomenti vari.
Altri suoi articoli inchiesta su la morte di Mussolini, sono apparsi anche nella rivista Storia del Novecento, Storia in Rete e in importanti siti on Line dove qui ha pubblicato anche saggi su l’intervento italiano nella seconda guerra mondiale, ecc. Coautore del libro Storia della Federazione Nazionale Combattenti della RSI (Ed. Fncrsi 2010).

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INTRODUZIONE

Per oltre mezzo secolo, comprendendo anche due processi svolti in contesti storici opposti: quello di Chiesti del 1926 sotto il regime fascista e quello di Roma del 1947, nel clima antifascista post resistenziale, si era suonato più che altro uno stesso 
spartito, dove il movente affaristico del delitto era in secondo piano: un dittatore megalomane, Mussolini, infastidito dalle denunce del segretario dei socialisti, il deputato Giacomo Matteotti, circa le violenze e i brogli elettorali dell’aprile 1924 e per il timore di altre denunce alla Camera nel suo imminente discorso per l’11 giugno, in merito a tangenti e malaffare del governo, al culmine dell’ira, incarica un gruppo di suoi giannizzeri, detto la “Ceka”, di rapire e far fuori il parlamentare.
I sicari eseguono, ma fanno notare la targa della loro auto, tanto che vengono tutti individuati nel giro di 48 ore e siccome risultano attigui al Viminale e alla Presidenza del Consiglio, il primo a trovarsi nell’occhio del ciclone è proprio il Duce. 
Questa tesi, sposata dagli stesi socialisti e in cui gli aspetti affaristici erano in secondo piano, era funzionale ad una certa propaganda antifascista (produrrà anche due film:
1956 e 1973), ma la sua indeterminatezza, le tante contraddizioni che poneva, non da ultimo quella che solo se Mussolini fosse stato un demente, poteva compiere quell’atto criminoso equivalente a un suo suicidio, non poteva reggere a lungo e venne ridimensionata dallo storico Renzo De Felice nella sua voluminosa biografia su Mussolini.
Cosicchè alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, prese quota la cosiddetta “pista affaristica”, una ipotesi almeno molto più concreta della precedente e che già all’epoca del delitto era stata sollevata dalla stampa, anche quella inglese vicina ai laburisti.
Accantonando, infatti, la follia vendicativa di Mussolini e dei fascisti, ci si indirizzò sul delitto premeditato al fine di impedire a Matteotti di produrre le prove, di cui si sosteneva era venuto in possesso, circa un grosso giro di tangenti che investiva il governo e Mussolini.
Si sosteneva che Matteotti aveva le prove di tangenti petrolifere che erano state pagata al partito fascista e membri del governo, a Mussolini o meglio al fratello Arnaldo e al giornale il Popolo d’Italia. Si parlava poi anche di altre tangenti, inerenti il gioco d’azzardo che si voleva sviluppare nel nostro paese, con bische e tutto un indotto di alberghi, stazioni termali e trasporti ferroviari di lusso. Da ultimo, dicesi, Matteotti voleva anche dimostrare che la previsione del bilancio dello Stato, presentato dal governo era stato truccata. Ce n’era d’avanzo per compromettere il regime, non ancora dittatoriale e quindi si giustificava un ordine omicida, sebbene le prove che dimostrassero direttamente il coinvolgimento di Mussolini non c’erano, ma soltanto congetture e illazioni.
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Movente a parte, però, tutto da dimostrare, chiunque indaghi su quegli avvenimenti si trova alle prese con una serie di difficoltà insormontabili. Per prima cosa si constata la scomparsa di importanti documenti, sottratti a Mussolini nel ’45 nelle sue ultime ore di vita e fatti letteralmente sparire (particolare questo che la dice lunga e non certo a sfavore del presunto “mandante”) e ci si deve arrangiare con qualche sparuto documento rimasto celato negli archivi americani, come ad esempio, una lettera-memoriale di Amerigo Dumini, il capo dei sicari sequestratori di Matteotti, che apparentemente potrebbe far presumere il coinvolgimento del Duce. Ma il guaio è che questi scarni documenti sono estrapolati da altre documentazioni che li accompagnavano, di contenuto prevedibilmente opposto, e che sono state fatte sparire. Oltretutto il Dumini, emerito bugiardo, si è prodotto, nel corso della sua tribolata esistenza, in tutta una serie di dichiarazioni, testimonianze e memoriali, una più falsa dell’altra, tra loro contraddittorie e tutte finalizzate a sbarcare il lunario, ad adeguarsi alla situazione del momento, a riservarsi possibilità ricattatorie e a pararsi dal pericolo di essere fatto fuori. Grado di credibilità quindi: molto scarso.
Secondo poi, nel corso di questi ’90 anni dall’evento, tutta la vicenda del delitto Matteotti, si è inflazionata di testimonianze, documenti, dichiarazioni, che anche a causa del tempo trascorso, non è più possibile, con un certo grado di certezza, distinguere il vero dal falso o dal solo parzialmente vero.
Scrive Giuliano Capecelatro, giornalista storico, di area di sinistra:
“…una materia complessa, imbrogliata, resa da ancor più difficile decifrazione da una fioritura sterminata di bugie, lacune, omissioni, sparizioni, ambiguità che ancora oggi mantengono un velo sulla verità”.1
In questa complessa situazione, comunque, si è finito per dare il massimo del credito alla “ipotesi affaristica” del delitto e noi stessi condividiamo che questa tesi sia la più convincente, ma aggiungiamo non è disgiunta da tutto un contesto politico che ha
creato le premesse per determinare l’atto delittuoso. Quindi movente affaristico, ma finalizzato anche a certi effetti che il delitto doveva causare, di ordine politico e a danno, non a vantaggio, del governo di Mussolini. 
Ma se sul movente si riesce a intavolare con gli storici discussioni e confronti, magari con molti distinguo, è sui “mandanti”, in particolare che questo sia Mussolini, e sulla vera finalità del rapimento: assassinio o bastonatura, che le divergenze sono insanabili.
E sono insanabili perché, a rigor di logica, non si può uscire da una contraddizione: se come si suppone, nel rapimento di Matteotti, era anche implicito un ordine omicida, come è possibile che i “mandanti” (Mussolini) inveiscono in pubblico contro la vittima e
i sicari lo vanno a rapire con un auto che gironzolava in zona dal giorno prima e a cui neppure celano il numero di targa?
Senza contare poi che non si portano dietro neppure una pala per seppellirlo, quindi: mancata segretezza, mancata rapidità di esecuzione, incertezza sull’arma adoperata per ucciderlo (assurdamente poi in una macchina noleggiata imbrattando l’abitacolo di sangue), operazione eseguita in pieno giorno davanti a svariati testimoni, ecc., tutti 
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elementi che negano a priori che fosse in atto un classico progetto omicida premeditato con tanto di ordine impartito da Mussolina o da altri .
Tutto quindi starebbe a indicare, compresa una perizia medico legale del dicembre 1924 (ipotizza una uccisione non premeditata, ma forse durante una lotta), che era invista solo una specie di spedizione punitiva, magari una bastonatura per fargli rivelare
cosa esattamente voleva dire alla Camera nel suo intervento del giorno dopo e minacciarlo in proposito, chiedendogli conto di eventuali documentazioni compromettenti. Una spedizione punitiva degenerata e finita male.
Ma tanti altri particolari, come il fatto che anche una spedizione punitiva poteva ancor più valorizzare le denunce che Matteotti voleva fare e si voleva impedire e comunque le stesse gravi conseguenze del solo rapimento, di un massimo esponente dell’opposizione antifascista, molto noto anche all’estero, che avrebbe potuto poi indicare i rapitori e reiterare le denunce stanno, forse con più logica, ad indicare che il finale doveva essere la soppressione del parlamentare socialista e solo per alcune contingenze (reazione della vittima) la soppressione avvenne in quel modo affrettato e assurdo.
Da queste contraddizioni non si esce, tanto che oltre alla nota divisione tra innocentisti e colpevolisti, rispetto ad un Mussolini mandante del rapimento, si sono praticamente venute a determinare negli storici altre due posizioni: quella della premeditazione ed
esecuzione di un ordine omicida e, all’opposto, quelli che invece sono convinti della preterintenzionalità del crimine, che doveva esplicarsi come una spedizione punitiva, poi degenerata.
A nostro avviso è inutile cercare di dirimere questi dubbi, perché ci sono ragioni da una parte e dall’altra e comunque: sia un rapimento con bastonatura, che un omicidio, avrebbero ugualmente scatenato tante e tali di quelle reazioni, anche a livello estero, che le cose non sarebbero cambiate di molto, se non per l’interessato.
Ergo i mandanti, avendo lo scopo di tacitare Matteotti e far saltare Mussolini potrebbero, indifferentemente, aver ordinato un omicidio o una spedizioni punitiva.
Il fatto è che questo delitto è anomalo, nasce in un particolare contesto storico e la sua commissione è trasversale e quindi non venne richiesto di agire con estrema segretezza e professionalità criminale. Di certo se veramente ne fosse stato Mussolini il mandante, non avrebbe agito in questo modo. 
Occorre quindi riconsiderare tutto il contesto storico, soppesare bene quel poco di prove reali e concrete che si hanno a disposizione, e analizzare la situazione evitando ogni dietrologia.
Risulterà allora evidente che Mussolini non può essere stato il mandante di un delitto del genere che per le prevedibili conseguenze lo avrebbe sicuramente danneggiato ancor più se, al limite, Matteotti lo avesse chiamato in causa come corresponsabile di una tangentopoli dell’epoca.
Cosa che invece non risulta evidente allo storico Mauro Canali, colui che ha indirizzato l’ipotesi affarista in un vero teorema atto a ricostruire la figura di un Mussolini corrotto e criminale, autore di un bieco e premeditato assassinio, praticamente più che un capo di governo, un vero e proprio Al Capone con annesso sistema gangsterico.
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Ma la storia non si fa con i teoremi e le prove dedotte da congetture.
Tuttavia il Canali, a nostro avviso, rappresenta il testo principale e decisivo per coloro che intendono dimostrare la responsabilità di Mussolini nel delitto Matteotti, e pertanto noi, che abbiamo tutt’altra convinzione, saremo spesso costretti a citarlo e a confrontarci criticamente con le sue tesi ed ipotesi.
Non abbiamo nuove o esplosive documentazioni da esibire per confutare il suo “Teorema”, ma riteniamo siano sufficienti gli stessi documenti da lui considerati e l’insieme di tutto quello che si conosce sul caso Matteotti e relativo periodo storico per negare validità alle sue tesi.
Fatto sta che al Canali si sono aggiunti quei giornalisti che raccattando servizi a dir poco ridicoli dalla stampa estera (che probabilmente aveva il fine di supportare un'altra e più importate campagna stampa, quella dei beni ebraici sottratti dai nazisti e
occultati in banche estere svizzere, di cui si voleva richiedere la restituzione), hanno inteso affermare addirittura un Mussolini che avrebbe esportato segretamente all’estero ingenti patrimoni frutto di ventennali tangenti e speculazioni.
Si veda ad esempio il servizio del giornalista Gennaro di Stefano su la rivista “Oggi” dove ha pubblicato: “Matteotti fu ucciso perché scoprì le mazzette di Mussolini”,2 elaborando anche tesi di Mauro Canali.
Su questo argomento, lo storico Alessandro De Felice, parente del più celebre Renzo, dopo aver evidenziando i tanti dati carenti, e riferimenti sballati, ha così commentato:
«Praticamente sul sentito dire di un rapporto dell’intelligence USA, Canali e De Stefano costruiscono un castello accusatorio di sabbia che assume poi la forma di un edificio farinoso e friabile esclusivamente basato sul “collante” del fumus persecutionis quando il De Stefano parla di fantomatici conti cifrati, di cui non si forniscono i numeri, di fantomatiche banche svizzere (quali?) che avrebbero consegnato agli archivi statunitensi fantomatici documenti inerenti i presunti conti cifrati. De Stefano dice poi
che le banche svizzere sarebbero “state messe colle spalle al muro”, e per questo – affermazione altrettanto grave ed arbitraria – gli stessi imprecisati istituti di credito elvetici, attraverso loro emissari-sabotatori occulti, avrebbero provocato negli Stati Uniti gli incendi e la distruzione di “ben ottomila casse di documenti” conservate negli archivi americani (quali?). E, ci chiediamo noi, il governo di Washington nulla avrebbe sospettato e nessuna inchiesta avrebbe aperto?».3
Una dietrologia quindi senza capo né coda, quando poi sono ben noti i reali patrimoni di Mussolini al momento della morte e quelli dei suoi eredi. La moglie e i figli, nel dopoguerra, non sembra proprio abbiano condotto una vita lussuosa, anzi tutt’altro, e
neppure che rivendicarono particolari beni nascosti all’estero, cosa che non sarebbe potuta rimanere nascosta. Basta per tutti l’ironia di Romano, il figlio di Mussolini:
“ditemi dove sono questi soldi che me li vado a prendere” 4.

* * *
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GIACOMO MATTEOTTI

Giacomo Matteotti nacque a Fratta
Polesine (provincia di Rovigo) il 22 maggio 1885
e morì assassinato a Roma il 10 giugno 1924.
Era figlio di benestanti proprietari terrieri di
origine trentina e cittadini dell'Impero asburgico,
ma di modesto lignaggio. Laureato nel 1907 in
giurisprudenza a Bologna, si era forse iscritto al
PSI nel 1900 e già nel 1910 fu eletto nel
consiglio provinciale di Rovigo. Si distingue nel
partito socialista grazie alle sue conoscenze giuridiche ed alle
competenze economiche.
Illuminista, interpreta l'anima riformista del partito, quella che rifugge
dalla prassi rivoluzionaria e che mira a cambiare la società attraverso
graduali riforme, anche se al Congresso socialista di Reggio Emilia del
1912 si schierò con i massimalisti chiedendo l'espulsione dell'ala
moderata di Bonomi e Bissolati.
Il suo è un riformismo anomalo, supportato “da una certa intransigenza
politica, che predilige il primato del momento economico, sulla
sovrastruttura politica, sostenendo la necessità di indirizza l’azione del
partito contro le strutture economiche del potere borghese”.
Non è chiaro da quando, né ovviamente provato, ma anche lui sembra
fosse iscritto alla massoneria, probabilmente quella vicino alle Logge
inglesi (a giugno 1914 comunque aveva scritto un articolo, in vista
della campagna elettorale, dal tono antimassonico su “La Lotta”).
Nel 1914, però, quando Mussolini al congresso socialista di Ancona
chiese l'espulsione categorica dei massoni dal partito, Matteotti prese
una posizione molto meno drastica accettando l’incompatibilità per i
futuri iscritti, ma l’indulgenza per i vecchi socialisti massoni.
Fu sindaco di Villamarzana e di Boara Polesine e consigliere in vari
comuni, grazie ad una legge del tempo che consentiva di candidarsi in
paesi dove si possedevano terre.
Intensa la sua attività nel campo sociale e amministrativo delle
province. Incorse in una forte critica quando si pronunciò, nel 1915 per
l’incompatibilità elettiva delle cariche amministrative per i consiglieri
che avevano attività di esazione dei tributi comunali nella provincia di
Rovigo , ma proprio lui (e la madre) risultava, per il decennio 1913 –
1922, fidejussore della Banca Provinciale del Polesine, nella esazione
dei tributi del Comune di Badia Polesine.
Non disdegnava comunque di mettere in piedi, se necessario, anche
alleanze di tipo clientelare con uomini della ricca borghesia rodigina,
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del resto nella vita privata si trova a suo agio nel proprio censo di
proprietario terriero. Per questo opportunismo venne redarguito dal
riformista Treves direttore dell’Avanti.
A quei tempi gli avversari gli avevano affibbiato il nome di
“socialmilionario”. Non a caso Gramsci e Gobetti lo considereranno
<<un ricco agrario del polesine, persecutore di socialisti» sui suoi
terreni>>. Con grande acume sottolinierà Maurizio Blondet, scrittore e
grande giornalista d’inchiesta, che a fare di Matteotti un icona del
Socialismo fu in massima parte il Corriere della Sera il giornale legato
all’industria dei Pirelli, Ponti, Falck (per non parlare della Commerciale,
n.d.r.). Questo, quando si accorsero che il nuovo ministro delle
Finanze, del governo Mussolini, Alberto De Stefani, non aveva messo
lo Stato al servizio esclusivo dei loro interessi. E come vedremo il
delitto Matteotti aveva ruotato proprio attorno a queste situazioni.
Nel 1916 Matteotti sposa Velia, sorella del celebre baritono Titta Ruffo,
da cui avrà tre figli (Giancarlo nel 1918, poi Gian Matteo e Isabella).
Credendo nell'internazionalismo avversò la Grande Guerra, durante la
quale, dapprima non fu arruolato in quanto unico figlio superstite di
madre vedova, ma poi venne richiamato, arruolato e spedito a Verona.
Durante il conflitto seguì la tendenza neutralista del partito socialista
cosicché, oltretutto, quando nel 1916, dopo che l'attacco austriaco di
Conrad procurò profughi che dal Veneto si riversarono sulla provincia
di Rovigo, lui si oppone a che gli venissero erogati sussidi.
Venne anche, praticamente, "internato" o parcheggiato in Sicilia e
infine congedato a marzo 1919.
Uomo dall'ideologia riformista si pose anche contro le posizioni
massimaliste nel partito e contro gli spifferi che venivano da Mosca e
portavano il comunismo. La sua avversione al comunismo era di
ordine ideologico, ma anche tattico:
«Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle
minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere
maggioranze. Non c’è dunque nulla di comune tra noi e voi».
«Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario
del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata
dall'uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della
dittatura in atto dell'altro».
Nei confronti del fascismo ebbe sempre un atteggiamento di forte
contrasto e irriducibile avversione, ed una visione molto schematica
incapace almeno di cogliere i motivi e gli ideali che stavano a monte
del fenomeno fascista. Per lui il fascismo era soltanto lo strumento di
cui si serviva un capitalismo di speculazione per la sua ascesa al
potere. Posizioni intransigenti che non erano comuni tra i socialisti
moderati e che, almeno politicamente, stridevano con la sua
concezione socialista riformista, per la quale avrebbe potuto
“incontrarsi” con Mussolini e le sue offerte ai socialisti moderati, ai
11
Confederali e ai cattolici popolari, di un ampliamento della compagine
governativa Non sapremo mai se questo suo atteggiamento fosse
stato magari inspirato da qualche influenza massonica.
Venne eletto deputato nel 1919 nella circoscrizione Ferrara - Rovigo e
poi in tutte le legislature successive (1921 e 1924).
Espulso, assieme a Turati e la corrente riformista o socialdemocratica,
dal Partito Socialista Italiano al congresso di Roma dell’ottobre 1922,
da questa rottura nacque quindi il Partito Socialista Unitario, anche con
Treves, di cui Matteotti ne fu segretario.
Vicino all’Indipendent Labour Party, nel 1924 venne pubblicata a
Londra, la traduzione del suo libro “Un anno di dominazione fascista”:
“The Fascists exposed; a year of Fascist Domination”.
La sua intransigenza verso il fascismo, che tra l’altro era anche nato in
reazione alle violenze del “biennio rosso” (1919 / 1920) gli fece
conseguire un certa notorietà, ma subì anche aggressioni.
Nel 1921,di fatto, il fascismo lo mise al bando e fu costretto a sloggiare
da Fratta Polesine. Abbandonato il polesano si trasferì a Padova.
Frequenti i suoi viaggi all’estero, indice di ampie relazioni
internazionali. Da giovane, nel 1910 aveva iniziato con un viaggio di
studi in Inghilterra. Nel 1912 va a Vienna e Budapest.
Nel 1923 lo troviamo a Lille al congresso dei socialisti francesi e poi a
Parigi. Dalla Francia viene incaricato di andare a Berlino dalla
commissione delle riparazioni (leggesi estorsioni) di guerra, in seguito
alla crisi che portò alla infame occupazione francese della Ruhr. A
Berlino incontra esponenti della socialdemocrazia francese.
Dopo questo viaggio il governo fascista gli ritira il passaporto, ma lui
clandestinamente ad aprile del 1924 va a Bruxelles, per il congresso
del partito operaio del Belgio e il 22 sbarca in segreto nell’Inghilterra
governata dal laburista Ramsay MacDonalds.
E’ questo un viaggio chiave che poi avrà un suo ruolo nelle successive
vicende. Il 26 aprile, lascerà l’Inghilterra per recarsi a Le Havre il 27, si
ferma quindi a Parigi e poi torna in Italia il 30.
Resterà famoso il suo forte discorso alla Camera del 30 magio 1924
dove denuncerà violenze e brogli elettorali, con una certa
esagerazione, visto che il “listone” dei fascisti e loro alleati, aveva
comunque ottenuto uno straripante successo che non poteva essere
stato determinato da brogli e violenze:
« [...] Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni
della maggioranza. [...] L'elezione secondo noi è essenzialmente non
valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. [...] Per
vostra stessa conferma (dei parlamentari fascisti) dunque nessun
elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... [...]».
Venne rapito e assassinato il pomeriggio del 10 giungo 1924.
12

PROLOGO

I “documenti del camioncino” e/o di Dongo
Una inchiesta che cerchi di individuare, a circa 90 anni di distanza, i
mandanti dell’assassinio di Giacomo Matteotti e stabilire eventuali
implicazioni di Mussolini per l’ordine omicida, potrebbe ragionevolmente
chiudersi prima ancora di iniziare, stabilendo una impossibilità di fatto di
arrivare ai nomi dei mandanti e liquidando le responsabilità di Mussolini
con una piena assoluzione.
Il perché di questa asserzione è racchiuso in un certo avvenimento occorso
la sera del 25 aprile 1945 quando Mussolini, lasciata Milano, giunse a Como
con i resti del suo governo e poi arrivò a Dongo dove venne catturato il 27
aprile. In quel trasferimento Mussolini si portò dietro importanti
documentazioni, personali, militari e di Stato, tutte poi sparite.
Oggi, definitivamente caduta la illazione che Mussolini si apprestava a
fuggire in Svizzera o in Spagna,5 quando invece stava semplicemente
allontanandosi dalle località dove stavano arrivando gli Alleati per non
cadere prigioniero e quindi restare in condizione di trattare una resa, forte
di documentazioni importantissime, come per esempio, un certo Carteggio
con Churchill (come sappiamo poi il britannico fece fuoco e fiamme per
recuperarlo), possiamo realisticamente ritenere che Mussolini aveva
raccolto documenti segreti e importanti, sia nell’interesse della Nazione
che per propria difesa personale e di governo.
Alcune documentazioni, le più importanti, Mussolini le aveva appresso in
un paio di valige che arrivarono con lui fino a Dongo; altre, definite poi i
“documenti del camioncino ”, una selezione di carte eterogenee e molto
importanti, viaggiavano, dentro un baule zincato (alto circa 70 cm. e lungo
90) su di un camioncino in coda alla colonna dei ministri, militi e personale
vario, venivano dalla precedente residenza del duce a Gargnano e
seguivano la colonna di ministri e altri verso Como..
La piovosa sera del 25 aprile, forse a causa di un guasto al mezzo che
rimase in panne, il camioncino non arrivò alla Prefettura di Como, ma fu
abbandonato in zona Garbagnate. Testimonianze ci dicono che non
appena Mussolini seppe di questo incidente, andò su tutte le furie, tanto
che il prefetto Luigi Gatti, suo segretario, mitra alla mano e con una guardia
del corpo, partì immediatamente, ma invano, alla ricerca del mezzo.
Orbene, quei documenti furono presi da certi “partigiani bianchi”
(democristiani) della zona di Garbagnate agli ordini dei fratelli Arturo e
13
Carlo Allievi i quali, il 2 maggio del '45, li consegnarono, assieme al neo
sindaco di Garbagnate Vittorio Lamberti-Bocconi, al Presidente del CLN
milanese avvocato Luigi Meda democristiano.
Con il consenso di Meda venne quindi scritta una edificante pagina della
nostra storia patria: un gruppo di questi documenti infatti (per lo più
riguardanti gli aspetti militari) furono consegnati dall'Allievi e dal Lamberti-
Bocconi al brigadiere inglese Jeffries della PWB (Psychological Warfare
Branch), che promise una ricompensa, sulla entità della quale gli interessati
“trattarono” poi penosamente con Londra per mesi. 6
Tra i documenti del camioncino, tutti in un primo momento inventariati al
Cln da una certa signorina Broggi, c'era anche un fascicolo, chiuso da un
nastrino tricolore, contenente un dossier nomato “Processo Matteotti ”
consistente in alcune cartelline, sembra sette, con argomenti correlati, e
un fascicolo a parte intestato a Cesare Rossi”, ecc.
Ai documenti del camioncino (quelli in riferimento al caso Matteotti),
bisognerebbe poi forse, aggiungere, anche quelli nelle valige arrivate a
Dongo dove poteva esserci qualche documento decisivo forse estrapolato
da Mussolini stesso dal resto del dossier lasciato nel camioncino.
Per i documenti del camioncino abbiamo dei riscontri e dei reperti ritrovati
all’Archivio Centrale di Stato, dove poi arrivarono anni dopo, ma in
tranche successive, mentre per un eventuale cartellina, intestata a
Matteotti e presente nelle valige sequestrate a Dongo il 27 aprile, abbiamo
solo testimonianze vaghe e poco d’altro.
Quello che qui importa conoscere comunque, Garbagnate e/o Dongo, è
che fine fece il risultato di una lunga inchiesta, iniziata per volontà di Nicola
Bombacci e successivamente avallata, durante la RSI, da Mussolini che gli
affiancò il suo segretario, l’ex giovane prefetto Luigi Gatti ed i cui risultati
dimostravano le responsabilità di quello che venne definito da Mussolini un
putrido ambiente di finanza e capitalismo corrotto, ispiratore di
quell'infame delitto.
Da quel poco che si è potuto sapere, infatti, grazie alle testimonianze di
Carlo Silvestri (un socialista, ex eccellente firma del Corriere della Sera,
già acerrimo nemico di Mussolini ai tempi del delitto Matteotti e proprio a
causa di questo delitto, ma nel 1944 totalmente convinto dal Duce,
documenti alla mano, della sua estraneità), sembra che vi era riportata
una inchiesta e documentazione convincente che faceva risalire le
responsabilità del delitto, in particolare, ad ambienti di capitalismo e
finanza corrotta, implicati nell’affaire, oltre a un biglietto scritto a mano da
Giovanni Marinelli, condannato a morte dal tribunale di Verona per il
tradimento del 25 luglio 1943 con il quale, dal carcere, l'ex segretario
amministrativo del PNF, già all’epoca implicato in quel caso, chiedeva
perdono a Mussolini e Cesare Rossi (altro elemento a suo tempo implicato)
14
per averli coinvolti nella vicenda Matteotti. Secondo Silvestri, questo
“biglietto” doveva trovarsi nella cartelletta “Cesare Rossi”.
Forse da qualche parte doveva anche esserci qualcosa su Emilio De Bono
(al tempo del delitto Capo della polizia), che il segretario del PFR
Alessandro Pavolini aveva sequestrato al vecchio generale e consegnato a
Mussolini.
Specificò nel dopoguerra il Silvestri, che aveva visionato quei documenti:
«Neppure per un istante ho supposto che la documentazione da me
esaminata fosse di pubblicazione postuma... Il mio esame non è stato nè
sommario, nè affrettato... mi rimase affidata per un paio di giorni... ebbi
anche agio di copiare qualcuno dei più rimarchevoli tra gli originali di Mussolini».
Non è dato sapere se Bombacci e Gatti, erano poi riusciti a chiudere quella
inchiesta, indicando i nomi precisi dei mandanti del delitto. Al tempo dei
colloqui di Mussolini con Silvestri, l’inchiesta non era ancora chiusa, ma a
buon punto. Del resto ebbe a dire Bombacci al Silvestri, certi personaggi
sono oramai al sicuro, passati, magari dopo aver fatto i manutengoli dei
tedeschi, nel campo degli Alleati.
Di queste testimonianze di Silvestri ne riparleremo ampiamente più avanti,
nel capitolo dedicato alle “Testimonianze importanti”.
Fatto sta che Silvestri, con coraggio e grande rischio personale, riportò
molti di questi particolari al processo Matteotti bis di Roma nel 1947 e in
alcuni suoi libri scritti nel dopoguerra. 7
Ma ritorniamo ai documenti in viaggio da Milano a Como e a Dongo,
perché una parte di questi documenti, quelli nel camioncino nel faldone
legato con nastrino tricolore e la cartelletta su Cesare Rossi, non arrivarono
al Ministero degli Interni e si dovrebbe ritenere responsabile il presidente
del CLN milanese Luigi Meda che poi disse di averli consegnati, a Pier Maria
Annoni Commissario per l’interno del comitato regionale CLN Lombardo
preposto a questi incarichi e presieduto dal comunista Emilio Sereni.
Come accennato è anche probabile che Mussolini aveva con sé, in una delle
valige, poi sequestrate a Dongo quando venne fermato, una cartellina
dedicata all’Affaire Matteotti e in questo caso si dovrebbe, per logica.
dedurre che vi erano i documenti “scottanti”. Si dice che la famosa letteramemoriale
di Dumini, poi consegnata agli Alleati e rintracciata nei National
Archieves di Washington negli anni ’80, venne requisita a Dongo, ma
questa indicazione è superficiale e non si sa con precisione dove venne
rinvenuta e con quali altri documenti.
Di tutti questi documenti oggi se ne trova una parte che venne poi
consegnata agli Archivi di Stato, ma non tutti: si può a ragione presumere
che a suo tempo furono evidentemente vagliati e quel che c’era di
“scottante” fatto sparire! 8
15

Lo scetticismo su Silvestri di Mauro Canali

Per uno storico come Mauro Canali (già allievo di Renzo De Felice,
professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Camerino)
avvinghiato alla sua tesi di un Mussolini mandante della soppressione di
Matteotti, le testimonianze di Silvestri e soprattutto la scomparsa di questo
dossier su Matteotti, sono uno scoglio molto duro da superare, ed infatti
questo storico, ha cercato d inficiare le testimonianze di Silvestri,
aggrappandosi ad ogni sua inesattezza o contraddizione, ma a nostro
avviso, non riuscendoci pienamente (del resto le testimonianze della
esistenza di un dossier su Matteotti, a cui aveva lavorato Bombacci, non
sono del solo Silvestri).
[Da qui in avanti, tutti i riferimenti ai testi di Mauro Canali, se non
diversamente riportato, sono alla sua opera: Canali M.: Il delitto
Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il
Mulino, 1997 – e/o – alla Edizione riveduta 2004].
Canali, ovviamente, ha cercato anche di minimizzare l’importanza del
dossier “Processo Matteotti” asportato dai partigiani dal camioncino di
Garbagnate, affermando che i fascicoli in esso contenuti furono poi
ritrovati depositati nell’ Archivio Centrale di Stato, anche se al tempo delle
ricerche di Renzo De Felice ancora non c‘erano tutti e per questo non
vennero rinvenuti. Ma resta il fatto che il famoso dossier Bombacci - Gatti,
non c’è, anzi per il Canali forse neppure esisterebbe.
Mauro Canali, che dedica un intero capitolo a Carlo Silvestri e le “carte del
camioncino”, scriverà, riportando una osservazione di Renzo De Felice:
“Tra i documenti della segreteria di Mussolini – oggi presso l’Archivio
centrale dello Stato – mancano i fascicoli riguardanti il delitto Matteotti e
Cesare Rossi. Tali fascicoli erano tra quelli che Mussolini nell’aprile 1945
portò con sé… La prefettura di Milano consegnò tutti questi documenti –
compresi i due fascicoli in questione – al governo italiano. I due fascicoli
non sono però stati versati, come gli altri che Mussolini aveva con sé,
all’Archivio centrale dello Stato”.9
Effettivamente il Canali ha rintracciato e citato i fascicoli legati al caso
Matteotti, ma deve però ammettere: “È evidente che mancano almeno
due fascicoli”, confermando, in parte la tesi di Renzo De Felice sulla
sparizione dei fascicoli su Matteotti (compreso il ruolo di Cesare Rossi).
Quindi nella sua edizione del 2004, dopo aver riassunto tutto quello che è
stato inventariato, il Canali confermerà che: “è evidente che mancano
almeno due fascicoli”, ma la sua meticolosa ricostruzione delle mancanze
gli fa escludere che si tratti del fascicolo con il dossier Bombacci – Gatti.
Su questo non ci pronunciamo, anche perché, d’accordo per la sua
ricostruzione, ma nessuno può giurare, anche se il Canali lo esclude
16
(“niente misteri… niente asportazione dolosa”) che oltretutto in quei
fascicoli rintracciati e inventariati, non sia stato asportato qualcosa.
E sappiamo i giri che fecero prima di arrivare all’Archivio Centrale di Stato,
dai capi del CLN, probabilmente vennero visionati, tanto per citarne alcuni,
i più importanti, oltre che dal Luigi Meda, anche da Emilio Sereni, preposto
nell’immediato dopoguerra a queste operazioni (e quindi, in caso di
materiale “scottante”, ne informò sicuramente Togliatti), poi quel Pier
Maria Annoni (come ha raccontato il suo sodale Luigi Carissimi-Priori, ebbe
una certa parte, assieme a De Gasperi, su documenti riguardanti il
Carteggio Mussolini Churchill, anche questi poi spariti), quindi Luigi Re a cui
venne affidato il coordinamento per il ritorno a Roma di tutti gli archivi dei
Ministeri trasferitisi al Nord con la RSI, e quindi dalla Presidenza del
Consiglio al Ministero degli Interni che finalmente li consegnò, nel luglio
1969, all’Archivio Centrale di Stato.
Tanti occhi li visionarono e soppesando certi personaggi, possiamo
supporre che ci furono maneggi massonici. Certamente queste sono nostre
congetture e d’altronde non possiamo conoscere il contenuto di questi due
sicuri fascicoli spariti, ma il buon senso suggerisce che non fu una
sparizione fortuita e forse il loro contenuto, non era secondario come per
esempio i finanziamenti del regime alla vedova Matteotti.
Vi era in questi due fascicoli il famoso dossier visionato da Carlo Silvestri?
Non possiamo dirlo con certezza, ma noi, a differenza del Canali, non
escludiamo che vi fosse, anche se forse propendiamo più che il dossier
decisivo fosse nelle valige di Dongo, del resto, altrimenti, dove sarebbe?
E dove sarebbe un fascicolo su Emilio De Bono e forse su Giovani
Marinelli? Alessandro Minardi, unico giornalista ammesso alle udienze del
processo di Verona, confidò nel 1975 a Marcello Staglieno che i due
fascicoli sul delitto Matteotti, rinvenuti in una borsa di Mussolini al
momento dell’arresto a Dongo (27 aprile ‘45), erano verosimilmente quelli
con i documenti di Matteotti sottratti da De Bono nel ’24 (anche se c’è chi
nega questo possesso da parte di De Bono). Vi è una fotografia del verbale
di consegna dei dossier (pubblicata sul “Tempo illustrato” il 16 giugno
1962) che funzionari della prefettura di Milano il 2 maggio 1945 pretesero
dagli emissari governativi che presero i dossier. Essi però non sono stati
versati, all’Archivio centrale dello Stato.
O dobbiamo supporre come fa il Canali che il dossier Bombacci – Gatti,
forse non è mai esistito, se non nei racconti del Silvestri e sempre secondo
lui, i fascicoli ritrovati dimostrano che non ci sono misteri o sparizioni?
Come detto vi è anche l’ipotesi che il fascicolo in questione, quello
determinante o “Bombacci – Gatti”, Mussolini per non separarsene lo
avesse portato seco in una valigia e gli fu poi preso e Dongo.
Occorre infatti domandarsi: da dove venne la lettera - memoriale di
Dumini, finita agli Alleati e dove sono gli altri fogli che sicuramente
17
l’accompagnavano, perché Mussolini non poteva essere così scemo da
portarsi appresso una “prova a carico” senza altri documenti che la
confutavano. Il Canali oltretutto non potrà mai spiegare e soprattutto
convincere, perché Silvestri andò anche al processo di Roma su Matteotti
a riportare e dettagliarle, fatti, testimonianze e particolari, a discolpa di
Mussolini, tirandosi addosso le ire e le vendette degli antifascisti.
Si potrebbe obiettare che il Silvestri, magari voleva giustificare il suo
precedente riavvicinamento a Mussolini, ma è assurdo che per trovare
qualche giustificazione e attenuare le critiche (ne avrebbe potute trovare
molte, compresa la sua attività nella Rsi con la Croce Rossa Socialista,
autorizzata appunto dal Duce che aveva permesso di salvare dalla
prigione, dalla morte o dalla deportazione in Germania, tanti antifascisti),
si andò invece ad avventurare, in pieno clima antifascista, con la “volante
rossa” che ogni tanto faceva ancora fuori qualcuno, proprio su questo
pericoloso argomento quale la innocenza di Mussolini nel delitto
Matteotti, inventandosi addirittura un dossier, a discolpa del Duce.
Ma oltretutto è noto che Silvestri aveva avuto un ripensamento circa la
colpevolezza di Mussolini già durante il ventennio, ma venne invitato dagli
antifascisti a non esternarlo; ebbene il Silvestri invece di pronunciarsi
durante il ventennio quando avrebbe ottenuto onori e vantaggi lo va a fare
durante la RSI, con una guerra chiaramente perduta e sapendo a cosa si
andrà incontro nel dopoguerra. E nel clima infuocato del dopoguerra, in
vece di defilarsi, si espone con coraggio e conferma tutto.
No, la cosa non regge proprio.
Anche se il dossier Matteotti di Bombacci e Gatti, non si trova, e non si
trova proprio perché è stato fatto sparire, non è un buon motivo per
sostenere che non esiste, quando la logica degli eventi, le coincidenze e le
testimonianze ce lo confermano. Come accennato, neppure il Canali potrà
mai facilmente spiegare e convincere perché Mussolini che si portava
quelle carte su Matteotti, appresso nelle sue ultime ore di vita, fece fuoco
e fiamme, quando seppe che il camioncino si era smarrito. Va bene che
su quel camioncino c’erano anche altri documenti importanti, anche di
ordine militare, ma se quel dossier non esisteva o non aveva poi questa
grande importanza, perché Mussolini se ne preoccupava eccessivamente e
come scrive il Canali stesso “lo precipitò in uno stato di grande agitazione”?
Oltre a considerare che molto probabilmente Mussolini aveva seco e si
portò fino a Dongo, anche un'altra borsa con importanti documenti sul
caso Matteotti. Era evidente la sua intenzione, a guerra finita e una volta
prigioniero, di dimostrare le sacrosante ragioni per le quali l’Italia era
entrata in guerra (e qui riguarda il famoso Carteggio con Churchill, fatto dal
britannico sparire) e se il caso di dimostrare la sua innocenza nella
uccisione del parlamentare socialista, non di certo la sua colpevolezza!
18
La lettera – memoriale di Dumini
Avendo accennato alla famosa lettera – memoriale di Dumini,
addirittura determinante per il Canali per accusare Mussolini, diciamo
subito che, a nostro avviso, questa lettera resta di effimera importanza.
Del suo contenuto in cui Dumini scrive che Marinelli gli avrebbe ordinato
l’azione contro Matteotti dicendogli che era voluta da Mussolini e inoltre
che tutto avvenne per ragioni affaristiche dello scandalo del petrolio dove,
si diceva al tempo, fosse implicato Arnaldo, il fratello del Duce, ne
parleremo più avanti nel capitolo dedicato appunto al Memoriale di Dumini.
Qui interessa un altro aspetto nella storia di questo “memoriale”.
Si dice che questa lettera venne sequestrata, con un fascicolo che
Mussolini aveva con sè a Dongo, consegnata agli Alleati e ritrovata molti
anni dopo (nel 1986 quando quei documenti, negli Usa, erano stati
desecretati) negli’Archivi di Washington.
Evidenti le contraddizioni: Mussolini, giunto all’epilogo, che si porterebbe
dietro un documento per lui compromettente e gli Alleati, una volta
avutolo, non lo utilizzano per denigrarlo, ma lo lasciano giacere in un
Archivio. Qualcosa stride, e occorre anche ridimensionare quella che è una
delle tante versioni di Dumini, confezionate per vari scopi tutti a suo uso e
consumo, e semmai considerarla facente parte di qualche fascicolo messo
insieme da Mussolini (ovviamente smembrato e sottratto!) e che letto nel
complesso attestava ben altro che la sua responsabilità.
Come già accennato, infatti, sarebbe assurdo presupporre che Mussolini si
porti dietro una prova contro sé stesso, senza allegarvi tutte le
documentazioni che la inficiano.
Potremmo anche chiudere qui la nostra controinformazione, visto che per
mancanza di documentazioni concrete, sarebbe oltremodo difficile
attestare qualcosa di dimostrabile, ma oltretutto perché non possono
esserci dubbi sulla estraneità di Mussolini al delitto e sulla esistenza del
famoso “dossier Matteotti” preso in visione da Carlo Silvestri:
se infatti in quel dossier scomparso, riguardante il delitto Matteotti, ci
fosse stata una sia pur minima prova riguardo alle responsabilità di
Mussolini nel delitto del parlamentare socialista, ne avremmo avuto la
denuncia pubblica, con stampa e ristampa delle prove a carico, in tutte le
possibili vesti editoriali.
Viceversa quei documenti sono letteralmente spariti ed è questa la prova
migliore, sia pure indiretta, ma inequivocabile, della estraneità di Mussolini
a quel delitto.
19
Il “teorema” di Mauro Canali
Riflettendo sui lavori e le analisi di Mauro Canali, considerando quanto
abbiamo già avuto modo di esprimere per le sue osservazioni su Carlo
Silvestri (più avanti vedremo quelle sulla faccenda del Petrolio), possiamo,
rilevare che questo storico, che per il delitto Matteotti si sostiene sia
andato oltre Renzo De Felice, basa il tutto su una sua convinzione:
Mussolini trafficava in tangenti. Una convinzione che, lo diciamo subito,
non condividiamo, ma ne parleremo anche perché il “potere”, da sempre,
ha comportato sistemi di finanziamento ai quali si affianca il malaffare.10
Di certo anche Renzo De Felce conosceva i sistemi di finanziamento che si
praticano dalla notte dei tempi e sono ancora il mezzo consueto di
finanziamento dei partiti anche della Repubblica democratica del
dopoguerra e nonostante che ora i partiti abbiano finanziamenti di Stato.
De Felice conosceva queste cose, magari non fino a dove ha proseguito il
Canali, ma non è solo in questo modo che si possono sciogliere certi dubbi
storici ed interpretare le vicende del delitto Matteotti.
Per altri versi sarebbe come stabilire che siccome Lenin prese ingenti
finanziamenti da Wall Stret e dal servizio segreto tedesco, se ne deducesse
che Lenin era un uomo dell’Alta finanza e uno strumento del Kaiser.
Oppure che Hitler avendo avuto finanziamenti anche da banche ebraiche
era uno strumento dell’ebraismo; o ancora Mussolini, visto che prese
finanziamenti per creare il Popolo d’Italia da tutti quegli ambienti, in
genere massonici, interessati a portare l’Italia in guerra a fianco dei franco
britannici, e durante la guerra venne anche finanziato dagli inglesi per
tenere in piedi il pericolante “fronte interno” del paese, questi era uno
strumento al servizio della massoneria e un agente inglese.
Chi ragiona in questo modo dimentica le leggi storiche, leggi che
attestano che sempre e comunque ci sono poteri e interessi che hanno
convenienza, per paura o per interesse, a finanziare “qualcosa” o
“qualcuno” e uomini e movimenti che hanno necessità di farsi finanziare.
Per la verità le presunte tangenti che Mauro Canali pretende di aver
scoperto a vantaggio di Mussolini, il fratello, il Popolo d’Italia e il partito
fascista, di fatto vengono fatte passare anche quale un interesse personale,
un arricchirsi, sfruttando la raggiunta posizione di potere e questo assume
un diverso aspetto, finendo per configurare Mussolini e il suo governo
come una specie di Al Capone con tutto il suo sistema gangsterico.
Resta il fatto, però, che tutti questi illeciti arricchimenti, per la famiglia
Mussolini, non si sono poi manifestati né per lui, né per gli eredi, ed allora,
ci chiediamo: come può lo storico Canali, preso da fazioso furore nel
dimostrare la corruzione del Duce, dedurre che alcuni documenti, una
certa ricevuta, un certo finanziamento, da far risalire a Mussolini o al suo
20
governo , sarebbero la prova della sua personale corruzione? Non è però
la corruzione la prassi e l’essenza politica di un uomo che poi realizzerà lo
Stato del Lavoro e lo Stato sociale; la creazione, al tempo rivoluzionaria,
dell’IRI; la società socialista con la RSI, e la formulazione dottrinaria del
“tutto nello Stato, niente fuori dello Stato e soprattutto niente contro lo
stato”, e che invece, qui si sottende, che avrebbe preso il potere per il
potere, addirittura per arricchirsi.
E la stessa sicumera “tangentista”, il Canali la ripete quando afferma, in
una intervista, di aver trovato almeno tre prove di tangenti a Mussolini e
una lettera delle ferrovie circa la vendita di residuati bellici e il versamento
che Mussolini riceve e sigla “riservatissimo”.11
E non si presume, invece, che quel versamento, può avere destinazioni che
non si conoscono, tanto che sigla “riservatissimo”, ma a quanto pare non
lo fa poi sparire? Sono vicende consuete in un sistema di governo, ma
sono relative alle contingenze del tempo, con la pluriennale politica di
Mussolini, anche perché qui non stiamo facendo valutazioni di correttezza
e moralità, nel qual caso, non potremmo dimenticare il particolare periodo
dell’epoca, in un certo senso “rivoluzionario”, laddove la stessa
rivoluzione, è un atto illegale, ma non come tale può essere valutato.
Tutte le vicende e le confidenze dell’epoca attestano che Mussolini
disdegnava del tutto il denaro, aborriva la corruzione e ne aveva come fine
ultimo la sua estinzione; che poi per opportunità tattiche o costrizioni di
potere lasciava che ci fosse chi la esercitava, è un altro discorso.
E attestano anche che non poteva essere stato il mandante del delitto
Matteotti, che anzi quel delitto lo danneggiava enormemente, molto più di
una ipotetica denuncia per presunte tangenti; che l’attitudine di potere del
Duce, il suo dirigismo nella prassi governativa dà enormemente fastidio a
certi “poteri forti” , questi si che invece hanno interesse a tacitare
Matteotti; che il Duce, non a caso, si è rimangiato certe promesse che
aveva fatto all’Alta Banca che lo aveva finanziato, come quelle di creare
uno Stato non ferroviere, non postelegrafonico, ecc., quindi una stato
totalmente liberista, ingolosendo gli interessati alle “privatizzazioni” e
invece ora mira a rafforzare lo Stato, a riportare gli interessi privati sotto
l’interesse pubblico, e così via.
Si ripete spesso che Mussolini sarebbe il responsabile delle aggressioni ad
Amendola, Forni, Misuri, Gobetti, l’assalto alla casa di Nitti, ecc. Non è
sempre così, ma ammettiamolo pure e magari per tutti costoro, ma
consideriamo che in quel periodo la politica si faceva anche con la violenza.
Del resto, per i socialisti, che nel famoso biennio rosso attuarono in Italia
un violento tentativo sovversivo, chi ne era responsabile, chi ordinava le
azioni aggressive e le violenze? E ritorniamo al contesto dell’epoca.
21
Uno “storico” veramente singolare questo Mauro Canali, nonostante gli
indubbi meriti nelle sue ricerche, visto che costruisce un vero teorema, al
pari di un giudice inquirente, laddove prima interpreta la eventuale
tangente, l’eventuale finanziamento, da lui scoperto, come un interesse
privato dei Mussolini (in primis il fratello Arnaldo) e quindi trasforma,
questa che è più che altro una sua congettura, in un movente, laddove
asserisce che Matteotti, sarebbe a conoscenza di questi scandali e li sta per
denunciare. Ma che Matteotti intendeva denunciare il malaffare sul
petrolio e per il gioco d’azzardo (e non si sa fino a che punto e in che
termini lo avrebbe denunciato), sembra indiscutibile, ma che Matteotti
voleva chiamare in causa personalmente Mussolini non risulta proprio.
E quindi il Canali, presumendo di avere il movente, indica anche il
mandante dell’omicidio di Matteotti, incurante del fatto che poi questo
“mandante”, cioè Mussolini, prima, durante e dopo il delitto da lui ordito si
comporta come un imbecille sbraitando in pubblico contro Matteotti.
Strabiliante poi che il Canali in questo suo “teorema”, tutto preso a
scoprire tangenti e il movente di Mussolini nel delitto, non trovi spazio per
analizzare il ruolo malefico della Massoneria, Lobby a cui sono
praticamente iscritti tutti gli implicati in questo delitto; né quello della
onnipotente Banca Commerciale di Toeplitz che, di fatto, sottintende, per
suo esclusivo interesse, a buona parte della finanza nazionale e che ad un
certo momento va in collisione con la politica del capo del governo con
tutte le conseguenze immaginabili. Ma ci sono anche personaggi, come
Aldo Finzi, Filippo Filippelli, soprattutto Filippo Naldi (un burattinaio che
traffica svolazzando dalla prima alla seconda guerra mondiale e anche
oltre, svolgendo importantissimi compiti e maneggi politico finanziari)
tutti personaggi legati alla Commerciale e all’affaire Matteotti.12
E in ogni caso, come presupporre, ammesso e non concesso, che Mussolini
avesse avuto paura di eventuali denunce di Matteotti alla Camera e quindi
decida di risolvere il problema con il mezzo, l’assassinio, più pericoloso e
deleterio per lui, e non invece di confutarlo, di negarlo, di batterlo sul
terreno a lui più consueto quello della abilità dialettica, del carisma, della
forza che gli conferiva una inattaccabile maggioranza al parlamento?
Oltretutto era improbabile che Matteotti pubblicasse documenti
“esplosivi”, tali da non poter essere confutati da un Capo di governo, tanto
è vero che poi questi “documenti esplosivi” nessuno li ha mai tirati fuori!
Nel suo teorema, infine, il Canali deve supporre che Rossi, Marinelli e ci
mette anche il Fasciolo (segretario stenografo del capo del governo), sono
direttamente implicati nella organizzazione delittuosa.13
In sostanza: abbiamo l’asserzione di tangenti a Mussolini basata su
congetture interpretative di certe documentazioni; un movente basato
sulla congettura che le denunce di Matteotti potessero gravemente
22
danneggiare Mussolini tanto da doverlo far eliminare; un ordine omicida
che non si può dimostrare ma si dedurrebbe dalla supposizione che gli
organizzatori del delitto siano Rossi e Marinelli e il Fasciolo, tutti stretti
collaboratori del Duce che non potevano aver agito di loro iniziativa
all’insaputa di Mussolini e quindi il vero mandante è Mussolini.
Aggiungendoci anche che il Canali si contraddice tra la data in cui il
progetto delittuoso prese il via (per sua stesa ricostruzione dal 20 maggio
quando Dumini chiama a Roma gli altri sequestrator) mentre l’ordine
definitivo impartito da Mussolini (presume il 2 giugno, quando invece era
già in esecuzione) cosi, tutto diventa fumoso e irreale.14
Da storico attento, quale del resto è, il Canali avrebbe dovuto rendersi
conto che il delitto Matteotti e le circostanze che lo precedettero, erano
una questione di “affari”, ma anche “politica“ in un certo contesto storico.
Per prima cosa avrebbe dovuto valutare la figura di Mussolini, che non
risulta un santo, ma neppure un freddo assassino,15 ma un rivoluzionario,
di stampo “politico”, uso a prediligere i mezzi della politica per prendere e
difendere il potere e in questi mezzi c’è anche l’uso di una certa violenza.
La storia insegna che il potere rivoluzionario si prende con la forza e si
difende con la forza e questo spesso comporta lo spargimento del sangue e
i plotoni di esecuzione, ma forse dimentico di questo il Canali scrive:
«Che senso ha allora pretendere la presenza di una razionalità e
ragionevolezza tattiche nell’azione politica di Mussolini, se essa era già
dominata e guidata da un progetto politico che se ancora non ben definito ,
prevedeva in definitiva la liquidazione delle opposizioni e del garantismo
legislativo liberale?».
Ma lo storico sa come regolarono il potere e liquidarono le opposizioni,
interne ed esterne, Stalin o Hitler, tanto per stare a quei tempi o come lo
regolano nei paesi democratici, dove è di prassi l’omicidio mirato, la
strategia della tensione e lo stragismo? Non insegna forse la storia che la
“forza” e “guerra”, sotto varie forme, sono “la prosecuzione della politica
con altri mezzi” e fanno parte dell’archetipo umano?
In definitiva, se non fosse per l’importanza che ha assunto il testo del
Canali, uno storico di spessore, non ci sarebbe neppure bisogno di
confutarlo visto che gli elementi a carico di Mussolini, sono congetture su
alcune documentazioni e ipotesi, sia pure intelligenti e ben sviluppate, ma
spesso basate su testimonianze e particolari, di dubbia interpretazione o
contraddetti da altre testimonianze, ma tutte, nel complesso, lasciano a
desiderare.
Si dovrebbero opporre testimonianze e particolari dubbi, ad altri forse
ancora più dubbi, ma non è il caso. Ci limiteremo quindi ad un confronto
sul concreto, lasciando ai lettori il giudizio finale.
23
Il personaggio Mussolini
Per la verità Mussolini, “rivoluzionario politico”, rispetto ad altri
rivoluzionari, ha utilizzato, tra l’altro al minimo possibile, l’uso della
violenza (spedizioni punitive, manganellate e olio di ricino), consistendo i
suoi mezzi principali in quelli “eterni” della politica nei quali era maestro
insuperabile, ovvero dividere e scompaginare i nemici con accordi e
mediazioni,16 convincere ed entusiasmare, adulare e minacciare, ricattare,
promuovere e blandire, cinismo e magnanimità, ed inoltre il controllo delle
delazioni e la corruzione, con l’uso dell’Ovra che aveva a libro paga quasi
tutto l’antifascismo (soprattutto quello fuoriuscito, ma anche quello
rimasto in Italia) e via dicendo. Niente di diverso da tutti i grandi politici.
Ed anche, quando necessario, violente aggressioni, seppur non numerose,
a nemici particolarmente pericolosi. Una violenza che del resto, come
accennato, avevano anche usato i suoi avversari.
Anzi era proprio il mancato uso di una violenza più risolutiva, specialmente
contro i traditori, che gli veniva rimproverato dai camerati più decisi e che
poi portò il fascismo a finire come era finito il 25 luglio del 1943.
Durante la guerra civile innumerevoli furono gli antifascisti, compresi quasi
tutti i capi della Resistenza, salvati da Mussolini, il quale firmava ogni
specie di grazia gli venisse sottoposta.17
Questo in linea di massima era l’uomo, che per l’analisi e l’inchiesta sul
delitto Matteotti, che qui ci interessa, non deve né piacere, né non
piacere, ma che considerandolo nel suo più che ventennale periodo di
governo, non dimostra di essere un sanguinario e praticare il potere per il
potere o peggio l’interesse privato.
Si può avversare irriducibilmente e non condividere in toto il Fascismo, la
sua politica, ma dietro Mussolini, nel bene o nel male, volenti o nolenti, si
deve riconoscere che c’era una sua visione della vita e del mondo, un
progetto rivoluzionario, anche se poi era incline a mediare ed essere
pragmatico, e traspariva evidente che in questo progetto c’era il desiderio
di realizzare una società socialista (non marxista e realizzata nella nazione),
innalzare gli italiani e di fare dell’Italia almeno una media potenza in
Europa e soprattutto indipendente.
Viceversa non si sarebbe giocato tutto, vita compresa, con la guerra.
Se il Canali avesse valutato l’uomo e il contesto storico in cui era costretto
ad agire ovvero una nazione dove il potere era più che altro nelle mani
della Monarchia e dell’Esercito, della Chiesa (aveva una parrocchia in ogni
paese), della Confindustria, della Finanza massonica legata ad interessi
extranazionali, ecc., avrebbe compreso che il delitto Matteotti, pur
restando un delitto, che la pratica delle tangenti e la stessa Ceka, pur
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restando un qualcosa di oltremodo illegale, sono tutti avvenimenti di un
particolare periodo storico e legati allo scontro di potere in atto.
Il teorema di Canali può apparire convincente solo superficialmente:
“Mussolini compie azioni violente e illegali, il rapimento di Matteotti è
violento e illegale, ergo Mussolini ha fatto anche uccidere Matteotti”.
Tutto questo non viene avvertito dal “teorema” del Canali, anche perché la
parte “politica” è stata talmente sminuita da non esistere. Quando invece
gli aspetti politici, ovvero il modus operandi di Mussolini nel regolare amici
fascisti e opposizioni, poteri forti, ecc., realizzare un progetto politico,
l’unico che gli può dare soddisfazione ideologica e garantirgli la saldezza del
governo, ovvero aprire ai socialisti, sono importantissimi aspetti che
contribuirono a scatenare il delitto Matteotti.
Ma si sà, per il Canali, Mussolini, praticamente è un gangster e quindi la sua
“politica”, è solo finzione, tattica funzionale ai suoi disegni criminosi.
Un vero “teorema”, tutto incentrato sul postulato che Mussolini è un
assassino e un tangentista, mandate dell’omicidio Matteotti e di
conseguenza ogni aneddoto, ogni testimonianza, ogni illazione viene
piegata o interpretata a conferma perché, a nostro avviso, non scaturisce
dall’inchiesta e dalla analisi dei fatti, ma proprio come un postulato, senza
essere dimostrato, li precede e li elabora di conseguenza.
Lo storico Mauro Canali, che mostra di conoscere bene certi meccanismi speculativi,
perché non ci dettaglia quella che è la famigerata “truffa del debito pubblico”, ovvero quel
meccanismo perverso, di apparenti “aiuti” in realtà una imposizione agli Stati a cedere, non
solo l’emissione della moneta alle Banche Centrali, di fatto a banche private, mascherate a
volte come Enti di diritto pubblico, ma anche ad obbligarli a prendere certi “aiuti”, vendita e
acquisti di titoli di Stato, per i quali si innestano spaventosi interessi – inestinguibili -?
Nessuno se ne interessa: non si sa quale sia esattamente questa “bolla del debito pubblico”,
con chi sia stato contratto, in che modo, quando e perché. Di fatto l’imposizione di un “pizzo”
al cui confronto quello mafioso è una sciocchezza e che porta le nazioni alla totale rovina.
Un sistema perverso, che ha le sue origini nel Federal Bank System varato negli USA nel 1913 e
perfezionato poi a Bretton Woods nel 1944 (in Europa gestito dall privatissima Banca Centrale
Europea). Un sistema al quale le nazioni del campo occidentale non possono sottrarsi pena
l’essere mandate in rovina: come a dire la più grande rapina del secolo,
Se in Italia ci fu un governo che cercò di limitare questa “usura” fu il governo Mussolini, vedi
la sua legge sulla Banca d’Italia del 1936 e altri provvedimenti per una economia regolata
come uno Stato sociale e non un vampiresco mercato liberista. E soprattutto con il
commissariamento della Banca d’Italia, durante la RSI, che consenti, nonostante la guerra e i
debiti inerenti, al ministro delle finanze di Mussolini, Pellegrini Giampiero, di realizzare un
attivo di bilancio, rimasto nelle casse pubbliche, di 20,9 miliardi di lire!
Visto che nessun magistrato indagherà mai su questa “truffa legalizzata” , pena la carriera e
probabilmente la vita, lo faccia almeno un storico, che al massimo si gioca, di sicuro, la
carriera. Così facendo, crediamo, il Canali, comprenderà molte cose e ci penserà cento volte
prima di avanzare sospetti di malversazioni e accaparramenti per Mussolini!
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IL DELITTO MATTEOTTI

Martedì 10 giugno 1924, poco dopo
le 16, il segretario del partito socialista
unificato (PSU) Giacomo Matteotti,
trentanove anni, uscì di casa dalla
propria abitazione di via Pisanelli per
recarsi, come sempre ben vestito,
verso la biblioteca della Camera.
All'angolo di Lungotevere Arnaldo da
Brescia e via Antonio Scialoja, era
ferma una Lancia K in versione
Lambda scura (foto a lato) e
sguinzagliati attorno alcuni uomini di
una specie di organizzazione detta
Ceka,18 che intercettarono Matteotti,
lo picchiarono e fuggirono con la vittima 
caricata a viva forza in auto verso la via Flaminia.
Le reazioni all’evento furono notevoli e puntarono i fari sul governo di
Mussolini, visto che era nota non soltanto l’intransigenza di Matteotti verso il
fascismo, ma anche il suo ultimo discorso alla Camera, con il quale aveva
denunciato violenze e asseriti brogli elettorali alle ultime elezioni.
Il 16 agosto del 1924, dopo oltre due mesi di ricerche e di angoscia, il corpo di
Matteotti venne ritrovato, già in fase di decomposizione, nascosto in una
grossolana buca scavata in un bosco in località la “ Quartarella ”, vicino Roma.
Arrestati per questo delitto, in pochi giorni, furono alcuni elementi facenti parte
di questa Ceka (nomignolo mutuato da un corpo segreto di polizia politica
sovietica), ovvero una Organizzazione speciale fascista , in pratica un manipolo
di esecutori di ordini senza scrupoli, con a capo lo scaltro traffichino ex
squadrista Amerigo Dumini, massone dichiarato di piazza del Gesù e di cui si
sospetta fosse anche al servizio degli inglesi fin dal 1919/’20.
Si trattava di una cellula estemporanea che non ebbe mai un organico e un
profilo ben definito ed i cui membri si riunivano quando chiamati in momenti di
bisogno. Resta il fatto che questa “Ceka” veniva pagata e aveva riferimenti nel
Viminale e nella Presidenza del Consiglio e lo stesso Mussolini non era estraneo
alla sua costituzione, avvalendosene a volte come “arma di pressione e di
minaccia” nei confronti degli avversari.
Cesare Rossi scrisse in un suo memoriale che Mussolini aveva ritenuto
necessaria la Ceka perché date le Leggi in vigore, di spirito liberale, contro cui il
fascismo era insorto, il governo non disponeva ancora di mezzi legali per colpire
i suoi nemici, quando tutti i governi allo stato di transizione hanno bisogno di
mezzi illegali per regolare gli avversari.
Tutti elementi questi che posero Mussolini e il governo nell’occhio del ciclone.
26
Negli anni ‘20 eravamo in un epoca, post marcia su Roma, seguente alcuni anni
di cruenta guerra civile, dove si erano avuti, da una parte e dall'altra, un alto
numero di morti. Mussolini era andato al potere attraverso un processo
rivoluzionario, ovviamente violento, ma tutto sommato contenuto rispetto ad
analoghi eventi come la rivoluzione bolscevica in Russia. Anzi, quella fascista
poteva definirsi una rivoluzione (tra l'altro incompiuta visto che le Istituzioni
non erano state sovvertite) abbastanza mite e priva di plotoni di esecuzione,
rispetto ad altre precedenti e successive, e neppure vennero raggiunte quelle
barbarie ed esecuzioni sommarie, una vera mattanza che gli stessi antifascisti
misero poi in atto contro i loro avversari nelle “radiose giornate” del 1945.
Ricostruire oggi, con esattezza, le fasi e le vicende preliminari e successive del
delitto Matteotti è possibile solo con un certo margine dubitativo.
Nonostante i processi svolti, infatti, del resto influenzati da notevoli
spinte politiche, le tante testimonianze rese, poi modificate o
ritrattate, i memoriali, ecc., non è possibile avvalorare una
ricostruzione, invece di un'altra, basandosi su questo materiale, a
causa di troppi inquinamenti, interessi, speculazioni alle quali
nessuna autorità pose limiti, anzi sia il regime fascista che il contesto
antifascista del dopoguerra, ne furono il brodo di coltura.
Non si può fare neppure pieno affidamento ai verbali di interrogatorio e alle
deposizioni in tribunale perché spesso i testi mentirono spudoratamente, poi in
seguito ritrattarono o modificarono le versioni, insomma un vortice di versioni a
cui i “ricercatori” hanno attinto solo quello che gli tornava comodo per le loro
tesi. Anche l’incrocio delle testimonianze serve a poco, perché tanti protagonisti
dell’epoca rilasciarono o corressero testimonianze (e spesso gli fu possibile
anche concordarle tra le loro in carcere) in funzione degli interessi degli
incriminati o della linea del regime fascista o all’opposto altri le pronunciarono
negli interessi dell’antifascismo teso ad inguaiare il Duce ed abbattere il regime.
E’ pur vero che per i ricercatori storici è possibile verificare documentazioni per
accertarsi che almeno certi particolari siano coincidenti, ma la inaffidabilità
così alta e contraddittoria dei testi è uno scoglio a volte insuperabile
Con il materiale oggi disponibile, pur scremato di quanto risulta palesemente
falso, incrociando deposizioni e testimonianze, rivelazioni e sentito dire, si
potrebbe allegramente confezionare più versioni, opposte tra loro.
E questo vale anche per le ipotesi avanzate dal Mauro Canali il quale,
nonostante porti a supporto varie documentazioni, deve spesso confermare le
sue ipotesi rifacendosi alla tal testimonianza o al tal memoriale.
Anche la nostra ricostruzione dei fatti, pur tratta dagli atti processuali,
testimonianze ecc., non sfugge a questa realtà, ed infatti useremo spesso il
“sembra” o il “si dice”, nell’introdurre fatti e testimonianze e comunque non
per confezionare una “nostra” versione dei fatti, ma soltanto per
fornire al lettore un sufficiente quadro di quegli avvenimenti e
metterlo in guardia da altri testi poco seri.
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LE CRONACHE DEL MISFATTO
Ritenendo importante, per la nostra controinformazione, che il lettore
abbia anche la conoscenza dei fatti e delle cronache del tempo nella maniera più
precisa e attendibile possibile, vediamo di ricostruirne gli avvenimenti.
La letteratura in argomento è molto contraddittoria, e gli stessi episodi sono a
volte riportati in modo diverso, e questo, come accennato, dipende anche dal
fatto che le documentazioni agli atti, a seguito di modifiche, ritrattazioni e nuove
aggiunte da parte dei testi dell’epoca, sono confusionarie.
Aprile – maggio 1924
Forse ai primi di aprile del ’24, nella testa di qualcuno di quelli che
furono definiti la” banda del Viminale” (Marinelli soprattutto e poi Rossi, Finzi,
De Bono), venne richiesta l’eliminazione di Matteotti (fase ideativa).
Fatto sta che il 20 maggio, l‘”esecutore” Dumini, chiama a Roma, da Milano,
alcuni elementi che gli necessitano (fase organizzativa).
In quei momenti però ci sono anche altri avvenimenti che lasciano perplessi.
Il 18 - 20 maggio, per esempio, Cesare Rossi capo dell’Ufficio stampa della
Presidenza del consiglio, se ne va in Francia ad un convegno con vari
personaggi: Carlo Bazzi, grosso affarista e faccendiere, direttore del Nuovo
Paese, Alceste De Ambris, potente sindacalista, Cesare Campolonghi, Pippo
Naldi, altro grosso faccendiere ed altri, tutti massoni.
Alcuni, come Franco Scalzo ritengono che stanno mettendo a punto il piano
contro Matteotti, ma noi sospettiamo che più che altro si discusse di un capo del
governo che a certi ambienti speculativi era oramai divenuto ostico.
Sempre in quei frangenti, Mussolini dovette ridimensionare la corrente,
ambigua, detta “revisionista” emarginando Massimo Rocca cioè il suo esponente
principale. Guarda caso Dumini, scrisse dall’Italia a Rossi dettagliandolo di
quest0 avvenimento che evidentemente era di comune interesse (vedere più
avanti il capitol0 sulla “corrente revisionista”).
Ma c’è dell’altro, perché precedentemente a febbraio era stato ucciso a Parigi
Nicola Bonservizi segretario del Fascio in Francia e giornalista del Popolo
d’Italia un delitto di antifascisti, ma alquanto misterioso che si potrebbe leggere
anche nel contesto di trame contro Mussolini (vedere più avanti il capitolo: “Il
misterioso delitto Bonservizi”).
A tutto questo si aggiunga che certi ambienti che lo paventavano fortemente,
erano ben informati dei sondaggi di Mussolini per aprire ai socialisti.
Comunque secondo Amerigo Dumini, questo scaltro traffichino,
spregiudicato, violento e bugiardo, a capo della cosiddetta Ceka (si vantava di
aver eseguito vari omicidi), che lo rivela in un suo memoriale nascosto in
America (sempre presumendo che sia veritiero e ci sono evidenti
dubbi e sorvolando su opposte sue testimonianze) egli ebbe ordine da
Giovanni Marinelli (in quel momento, è uno dei tre segretari del PNF con
Cesare Rossi e Francesco Giunta, e anche membro del Gran Consiglio del
fascismo, massone e segretario amministrativo del partito) di organizzare il
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rapimento di Matteotti (gli direbbe che è nell’interesse di Mussolini) e
possibilmente la sua soppressione facendone sparire il cadavere.
20 - 22 maggio
Il Dumini quindi si mette a organizzare la losca impresa e sembra che il 20
maggio 1924 manda a chiamare da Milano l’amico sodale Aldo Putato e lo
incarica di far venire a Roma anche Albino Volpi e qualcun altro della Ceka.
Costoro arrivano a Roma il 22 maggio, all’Hotel Dragoni (circa 40 metri dietro
la facciata laterale del Viminale), dove il Dumini ha instaurato, con il nome di
copertura di Gino Bianchi e usando anche lo pseudonimo Gino D’Ambrosio, il
quartier generale. Lui per la verità risiede anche in via Cavour con la sua donna.
[Queste datazioni sono importanti, perché stanno a significare che un
incarico preciso, di agire contro Matteotti, era stato dato precedentemente,
prima del famoso discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924]
Sono questi, arrivati da Milano, gli elementi che lo dovranno supportare
nell’impresa criminosa. Sembra che aveva anche chiesto di portare con loro un
chauffeur, un autista. Chiama anche un certo Otto Thierschald, un austriaco,
losco personaggio, una spia facilmente assoldabile da Intelligence straniere.
Sembra che il Thierschald fosse venuto in contatto con Giovanni Marinelli
(segretario amministrativo del PNF e assieme a Cesare Rossi tra quelli che
manovravano il Dumini) ad aprile e poi questi, dopo averlo assunto come
informatore, a fine mese lo mise a disposizione di Dumini.
Nel frattempo però il Thierschald il 6 maggio era stato arrestato a Napoli
mentre al porto fotografava non si sa bene cosa ed era finito in carcere a
Poggioreale per cui era stato necessario trovare il modo per farlo uscire.
30 maggio venerdì
Forte discorso antifascista di Matteotti alla Camera che denuncia brogli e
violenze alle elezioni di aprile e ne chiede l’invalidazione. Forti reazioni e
minacce verbali da parte fascista e governativa. Il deputato socialista, già da
tempo inviso agli avversari, entra in un clima di pericolose reazioni.
4 giugno mercoledì
Il Thierschald, venne fatto uscire di galera, grazie ad un interessamento di
Marinelli e De Bono capo della polizia e arriva a Roma forse il 4 giugno, e ha
l’incarico di pedinare Matteotti. Si era spesso infilato anche in ambienti di
sinistra, è conosciuto e non dovrebbe destare sospetti.
Il desso, però, cerca anche di intercettare Matteotti e di parlarci (verrà
intercettato dal deputato socialista Paolo De Michelis, stretto collaboratore di
Matteotti che però non gli da retta e lo liquida), e quindi non si sa bene che cosa
voglia (doppio gioco o crearsi un alibi, per lui o per chi lo controlla?).
Anche Aldo Putato, altro della Ceka, avrà incarichi di pedinamento.
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Per il commando, il Dumini aveva chiamato anche una sua conoscenza
Averardo Mazzoli che lavora come autista a Firenze, ma questi giunto a Roma,
confidandosi con un amico massone fiorentino, il prof. Giuseppe Meoni, che lo
sconsiglia, ha un ripensamento e quindi mette una scusa e torna a Firenze.
All’ultimo momento quindi si farà venire da Milano Augusto Malacria (che sa
guidare l’auto) che arriverà a Roma proprio martedì 10 a mattina,
Si da il caso che, nel frattempo, il 4 giugno, la questura aveva concesso a
Matteotti, il passaporto che da tempo reclamava perché gli era stato ritirato, ma
ora è concesso solo limitatamente ad un viaggio in Austria dove era in
programma un congresso socialista.
Si dice che il Dumini informato di questo fatto, la sera di sabato 7 giugno
verificò, alla stazione Termini di Roma se Matteotti era salito sul treno per
l’Austria e nel caso lo avrebbe preso anche lui, forse con il Putato, e forse
dovevano poi ammazzare il deputato, in treno o magari all’estero.
[C’è chi ha insinuato che il passaporto glielo aveva sdoganato
Mussolini, proprio per poterlo poi far ammazzare all’estero. Illazioni
senza freni: per chi ha deciso che Mussolini è il mandante
dell’omicidio, tutto è in funzione di questa premessa]
Comunque sia il Matteotti non partirà più.
7 giugno Sabato
Discorso alla Camera di Mussolini in risposta del governo. E’ un discorso
forte, dove il Duce risponde ridimensionando le accuse di violenze e i brogli,
mostra fermezza, ma allo stesso tempo si mostra conciliante con le opposizioni a
patto che vogliano collaborare con il governo. Di fatto rilancia la palla alle
opposizioni, spiazzandole. Un evidente successo del suo discorso.
8 giugno domenica
L’8 giugno Dumini fa spedire a Milano, da Putato, un telegramma a Volpi
che nel frattempo era tornato appunto a Milano:
«Pregoti partire immediatamente. Necessita tua presenza per definire
contratto pubblicità. Porta teco Panzeri e abilissimo chauffeur». Firmato Gino
D’Ambrosio (altro pseudonimo di Dumini).
Quindi parteciperà all’impresa anche Augusto Malacria, altro della Ceka e
costui, se fosse falsa la confessione di Dumini che fu lui stesso a fare da autista,
protrebbe essere proprio il Malacria l’autista della macchina che rapì Matteotti.
[Attestarsi quale autista significava, al processo, minor responsabilità
nel delitto e godere dello sconto di pena di un terzo. Molti, dubitando,
hanno fatto notare il problema di Dumini, con una mano invalida, di
dover guidare la macchina per molte ore e lanciarla anche a forte
velocità. Ma perchè Malacria avrebbe accettato questo scambio di
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ruoli, penalmente rilevante? A nostro avviso, nonostante i dubbi sulla
mano, tutto è possibile. Anche un Dumini occasionalmente chauffeur]
Un fonogramma del questore di Como, descriverà poi la partenza da Milano per
Roma di Amleto Poveromo, di Albino Volpi, di Giuseppe Viola, e Filippo
Panzeri, dicesi chiamati da un personaggio fascista (ovviamente il Dumini) per
una certa missione politica riservata. Come detto però Volpi, Panzeri e altri,
erano già venuti a Roma il 22 precedente all’Hotel Dragoni, ma infatti poi erano
ripartiti per Milano i primi di giugno.
Si tratta di personaggi particolari, sicuramente violenti, alcuni dediti a
malaffare, tipica espressione di quegli anni di fuoco, ma tra loro alcuni Arditi
che in guerra si erano distinti con valore così come anche alla nascita dei fasci di
combattimento (cenni sui loro profili nella precedente nota 18).
9 giugno lunedì
Il giorno precedente il delitto, lunedì 9 giugno, Dumini va da Filippo
Filippelli, direttore del “Corriere italiano” (un giornale politico finanziario para
fascista, ma ambiguo, dove sia lui che il Putato ricoprono un ruolo fittizio come
ispettori “viaggianti” con un certo stipendio), per farsi prestare un automobile,
ma essendo tutte le auto del giornale impegnate, questi lo spedisce al “garage
Trevi” per prendere, a suo nome, una Lancia già noleggiata dal Filippelli.
Il Filippelli aveva chiesto quell’auto il precedente venerdì 6 giugno e aveva
appositamente chiesto e insistito per avere una buona auto Lancia, coperta e
senza autista. Riferì al Giovanni Tomassini proprietario del garage, che l’auto
doveva servire per il giornale e per il Ministero degli Interni. Quindi quell’auto
era già destinata alla bisogna? Un autista poi consegnerà la macchina al Dumini.
[Come sia stato possibile che il Filippelli fornisca a Domini l’auto del
rapimento, a lui riconducibile, è stupefacente. Se non fosse per tanti
particolari che lo vedono implicato nel misfatto ci sarebbe da pensare
o che egli era all’oscuro del rapimento, o che sia stato preso da un
demenziale eccesso di sicurezza nel farla franca]
La sera l’auto viene utilizzata per perlustrare la zona di abitazione di Matteotti:
un imprudenza veramente strabiliante da pare dei sicari visto che nel via vai
serale venne rilevata, da un portiere, il numero della targa.
Più tardi l’auto sarà parcheggiata da Dumini nel cortile di Palazzo Chigi.
Nel frattempo anche il Thierschald era stato sguinzagliato a pedinare Matteotti e
verrà anche fermato e identificato vicino casa del deputato.
Sembra che quella sera venne a mancare la vigilanza dell’abitazione di Matteotti
che si era istituita nei giorni precedenti dopo il focoso discorso del deputato del
30 maggio. Si potrebbe ritenere che il Dumini, oltre ad essere informato di
questo particolare, ottenne anche un “aiuto” e nel caso si dovrebbe pensare: o
che il Dumini godeva di amicizie e informatori in polizia, e questo, con De Bono
ai vertici della polizia è possibilissimo, o peggio che vennero dati ordini proprio
per agevolare il rapimento ed allora bisognerebbe risalire agli alti vertici, ovvero
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ripetiamo, che questa circostanza dolosa fosse veritiera?).
[I fautori della colpevolezza del Duce, risponderebbero che De Bono
agì per ordine di Mussolini, ma è solo una supposizione perché, nel
caso, il De Bono avrebbe potuto benissimo aver esaudito il volere di
altri, compresa Casa Savoia, a cui era intimo, ecc.]
Alcuni giorni prima del rapimento Francesco Giunta uno dei segretari del PNF,
incontrando Matteotti, lo aveva messo in guardia dicendogli che era entrato nel
mirino di gente poco raccomandabile. Evidentemente qualcosa era pur trapelata
e comunque Matteotti si era molto esposto.
1o giugno martedì
La mattina del fatidico martedì 10 giugno Dumini torna al garage Trevi per
farsi fare il pieno di benzina, circa 100 litri che garantiscono circa 400 Km.
Sembra che poi vadano tutti a pranzo al ristorante “Il Buco” in via S. Ignazio.
Poco dopo le 16 di martedì 10 giugno 1924, dunque, questi sicari, ivi appostati,
agganciano Matteotti appena uscito da casa, e lo caricano a forza in auto dove
salgono Dumini, Poveromo, Volpi, Malacria, e Viola.
Solo di questi 5 si è potuto appurare con certezza la presenza in loco.
Non si è mai appurato, invece, con certezza se erano presenti il Putato e il
Panzeri, pur complici, e probabilmente c’erano, di sicuro almeno uno, ma poi
restarono appiedati visto che in auto con Matteotti erano già in sei, mentre il
Thierschald forse era nel gruppo con funzioni da “palo”.
Ma su questo strano austriaco (di cui parleremo più avanti) c’è anche da
considerare una probabile e mai ben accertata seconda auto sportiva a due
posti, che non si sa quando e dove apparirebbe , ma che fu poi vista andare
dietro i fuggitivi, forse con anche la sua presenza a bordo.
Nel caso il Thierschald entrerebbe anche negli attimi cruciali della vicenda
delittuosa, forse assieme a un altro personaggio non identificato, compreso il
momento della frettolosa inumazione del cadavere nella boscaglia fuori Roma.
Usiamo il condizionale perché tutto questo è alquanto incerto.

Si sostenne che solo il Dumini conoscesse
Matteotti, ma questo sembra inverosimile
(oltretutto il Thierschald lo conosceva di
certo), e si disse anche, altra favoletta, che
per ottenere il massimo dall'azione, agli
altri sicari, cinque o sei che siano, venne
fatto credere di dare una lezione a colui
che era responsabile di attentati e omicidi
contro fascisti avvenuti a Parigi.
Matteotti, sbucato sul lungotevere si era
portato, un po’ inaspettatamente sul lato
del fiume, costringendo i rapitori ad
accelerare l’azione.

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I testimoni, presenti al fatto, consentirono di accertare che il deputato era stato
aggredito da un gruppo di cinque o sei persone e caricato a forza su un'auto
scura. In mancanza di dati certi, diciamo, con alla guida Dumini. Alcuni testp
segnalarono che forse un paio di persone erano poi fuggite a piedi.
Fatto sta che qualcuno aveva anche preso parte del numero di targa della
vettura, una limousine Lancia berlina dell’epoca che fuggì verso Tor di Quinto
suonando il clacson (si pensò forse per coprire le urla) e prese la via Flaminia,
ma nel frattempo nell'auto la vittima, un uomo robusto che si dimenò come un
forsennato, venne anche colpita (si dice dal Volpi, altri dal Viola, altri ancora dal
Poveromo,+ qualcuno dice dal Malacria, ma questi, se non era il Dumini il
guidatore, probabilmente lo era lui) con un corpo contundente, forse un
pugnale, o forse una lima, tanto da causarne una forte emorragia e la morte.
C’è una testimonianza al processo di Roma del 1947, rilasciata da Giuseppe
Paparazzo che nel 1926 (era l’avvocato di un Dumini da poco uscito di galera e
che voleva far causa ad Albino Volpi ritenendo che lo aveva fatto radiare
dall’Albo degli Arditi di Milano). Il Paparazzo, per quel che vale, raccontò che
al tempo il Dumini gli avrebbe confidato che gli esecutori di Matteotti erano
stati il Volpi e il Malacria, organizzatore Marinelli per ordine di Mussolini.
La moglie di Volpi, invece, raccontò che il marito (era morto nel 1938), colpito
in auto da un calcio ai testicoli di Matteotti, reagì vibrandogli una pugnalata.
Ma non è finita perché Amleto Poveromo, poco prima di morire, confidò
piangendo e pentito al figlio di Matteotti, Matteo, che lo era andato a trovare nel
carcere di Parma nel gennaio 1951, che il padre lo aveva ucciso lui con tre
fendenti di lima. Il bello è che disse di averlo fatto in modo premeditato!
[Lascia perplessi che uomini avvezzi a risse, in cinque contro uno in
auto, uno di loro perda la testa e pugnali la vittima anche se questa
ribellandosi lo avesse colpito. E non è mai emerso, riconosciuto da
tutti, il vero pugnalatore, ma ne sono stati indicati almeno tre]
Con il morto in un auto imbrattata di sangue i cinque girovagarono per la
campagna romana fino a che, verso sera, arrivarono alla Macchia della
Quartarella, una tenuta del principe Ludovisi Boncompagni nel comune di
Riano a circa 23 km o poco più dalla capitale. Qui, in qualche modo, alla meglio
con attrezzi occasionali presenti in auto, utilizzando anche una lima,
seppellirono il cadavere dopo averlo denudato.
[Perché i sicari non si sono portati dietro almeno una pala? Alcuni
sono convinti che questa mancanza è in relazione al fatto che non era
prevista l’uccisione, ma lo storico Mauro Canali, forse con qualche
ragione in più, ha fatto notare che è dipeso dal fatto che
probabilmente il Matteotti doveva essere portato e ucciso da altra
parte dove non occorrevano attrezzi. Ma allora perché in quel posto
non ci sono ugualmente andati con il cadavere?]
33
Primi timori sulla scomparsa di Matteotti


11 giugno mercoledì
Verso le 20,30 del giorno successivo, mercoledì 11 giugno, dopo che il
pomeriggio Matteotti non si è presentato alla Camera, il deputato socialista
Giuseppe Emanuele Modigliani si rivolse alla Questura di Roma, denunciando
la scomparsa dell'on. Giacomo Matteotti. Modigliani però complicò e
involontariamente depistò le indagini perché aggiunse che il suo segretario era
certo di aver visto il Matteotti per strada la sera del 10 giugno.
La moglie di Matteotti, Velia Titta Ruffo, pur preoccupandosi, non aveva subito
sporto denuncia in quanto era accaduto altre volte che Matteotti non fosse
tornato per cena senza averlo preannunciato. Al mattino però non avendolo
visto rincasare si era molto preoccupata.
Sembra che il Modigliani trovò il questore Cesare Bertini già al corrente della
notizia e si dice che la questura lo sapeva dalla ore 18 di quel mercoledì 11
giugno forse informata da De Bono. Mussolini, tempo dopo, raccontò:
«L'11 giugno del 1924, non pensavo minimamente a quanto nell'ombra la sorte
stava tramando a danno del fascismo. Ricordo ancora che al banco del
governo, alla Camera eravamo in stato di euforia per il successo ottenuto dal
mio discorso del 7 giugno».
In ogni caso, I'11 giugno e neppure la mattina del 12 sui giornali stampati in
nottata o all’alba, ancora non si parla di sequestro di persona.
12 giugno giovedì
Verso il mezzogiorno del 12 uscirono edizioni straordinarie dei giornali con
l'annuncio della scomparsa del deputato socialista. Immediatamente si fecero le
più brutte previsioni e l’opinione pubblica ne rimase fortemente scossa.
Contemporaneamente all'ufficializzazione della scomparsa del deputato
socialista, sfilarono i primi testimoni e iniziarono subito le prime indagini
condotte dal questore Bertini e dietro la supervisione del capo della Polizia
Emilio De Bono. Con le prime testimonianze ed il numero della targa, si entrerà
subito in possesso di preziose informazioni.
Nella metà di giugno, alcuni uomini delle opposizioni, come vedremo,
cercheranno di organizzare l’assassinio di Mussolini, già ritenuto responsabile
della scomparsa di Matteotti.
34
La “seconda auto” e Otto Thierschald
Per la vicenda che stiamo introducendo, premettiamo che non può più
essere chiarita, ma è importante per evidenziare la complessità di questo caso.
1o giugno martedì
Si da il caso che seppur mai adeguatamente appurato, si riscontrò da
alcune testimonianze in seguito raccolte, anche la presenza di una seconda auto,
una Stayer decappottata, biposto, forse colore grigio, che aveva agganciato la
Lancia degli assassini in fuga e gli era andata dietro, o l'aveva poi preceduta, e
sulla quale vi erano due individui.
Sembra che nei pressi di Vico, visto che le due macchine si erano distaccate, il
conducente della Stayer aveva chiesto ad una persona del posto se avesse visto
passare una Lancia nera. L'Ufficio di Gabinetto della Questura di Roma spedì un
rapporto (n. 64899) al Procuratore del Re in data 15 giugno 1924, nel quale il
Commissario Epifanio Pennetta riferiva di un anonimo dattiloscritto, inviatogli
dal Giornale d'Italia, il giorno 13 precedente, e che era stato recapitato a mano al
direttore sig. Vittori. Nel dattiloscritto si asseriva che il giorno 10 verso le ore 19
l'automobile N. 55-12169 passò per Ronciglione proveniente dalla via Cassia.
Quindi fu vista presso il Lago di Vico dove cinque o sei persone, dal fare sospetto
si erano inoltrate nella macchia.
In seguito a questo venne inviato sul posto il commissario Cav. Uff. Cadolino
che riferì che un certo Micheli Mario dì Francesco, di anni 19 da Roncilione,
ecc., barbiere, dichiarò che il 10 corrente verso le 16,45 vide attraversare il paese
a grande velocità da un auto nera coperta con più persone a bordo.
Dopo qualche minuto passò un'altra auto di colore chiaro scoperta a due posti
con 2 persone a bordo, rallentarono e chiesero al Micheli, presente anche un
certo Capata Armando, fu Venanzio di anni 37 da Ronciglione, ecc., falegname,
se era passata una macchina nera con alcune persone a bordo ed avuta risposta
affermativa seguì la strada della prima macchina.
Anche fra le carte di Filippo Filippelli, sequestrate dalla polizia politica, venne
rinvenuto un documento nel quale il direttore del Corriere Italiano, detenuto a
Regina Coeli, ricorda che i giornali II Piccolo, seguito dal Giornale d'Italia e
ricalcato da Il Messaggero, pubblica che le operazioni di trafugamento e
seppellimento del cadavere di Matteotti furono eseguite da alcuni uomini che
erano a bordo di una vettura chiusa, la quale era preceduta da un altra vettura.
Filippelli dirà di aver conservato quegli articoli perché aveva timore che
potessero insinuare che uno degli occupanti in vestito chiaro fosse lui.
Abbiamo voluto accennare a questa seconda auto, mai appurata, solo per
evidenziare che tutta questa vicenda è forse rimasta in parte misconosciuta.
Otto Thierschald
Considerando gli occupanti della Stayer, Franco Scalzo nel suo “Il caso
Matteotti radiografia di un falso storico” Ed. Settimo Sigillo 1996, ha ipotizzato
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che uno di questi due passeggeri dell'auto probabilmente era un austriaco, un
certo Otto Thierschald, di Giacomo (alias Otto Chirzio o Chirzel, Ivan
Kravjnapolsky, Paolo Lazslo, Achmed Eestel) un losco figuro, di fatto un
nomade, una mezza spia internazionale, deambulante in diversi ambienti, ma
certamente manovrato anche dalla O.G.P.U., il servizio sovietico.
Nel caso questo Thierschald assumerebbe un ben diverso ruolo da quello
secondario di comprimario che invece gli è stato ritagliato., ma non è però detto
che l’occupante di questa auto era effettivamente questo losco personaggio, che
aveva partecipato al rapimento, e comunque sia nel caso che fosse lui o non
fosse lui, ovvero un altro personaggio misterioso, si aprirebbero comunque altri
inquietanti interrogativi.
Mauro Canali afferma e non ha tutti i torti che la stampa fascista forzò la tesi
che questa spia austriaca agisse per conto dei sovietici, onde chiamarli in causa
e alleggerire la pressione contro il fascismo. A tal proposito si cercò anche di
farlo passare come Timothy Trebitsch-Lincoln, forse nato nel 1896
presumibilmente in una località dell'impero austro ungarico, da padre israelita e
nota spia internazionale, ma l’identità Thierschald / Trebitsch-Lincoln, non ha
mai avuto conferme certe. In ogni caso dei sospetti che questo strano
Thierschald poteva essere colluso anche con i sovietici c’erano veramente.
C’è chi lo ha fatto passare per una grossa spia e chi per un semplice
scagnozzo. A nostro avviso era effettivamente uno scagnozzo, ma per
il fatto che poteva essere usato dai più disparati ambienti e interessi,
poteva anche recitare un ruolo tutto suo di una certa importanza.
Nel caso Matteotti lo tirò dentro il Marinelli che lo aveva assunto come
informatore passandolo poi al Dumini, ma non si può escludere che il soggetto
si era anche impegnato con “altri” in tal caso svolgendo un doppio gioco.
Il Thierschald, al tempo della Grande Guerra nelle fila dell'esercito austriaco,
era stato catturato e si era offerto come spia al comando della V° armata
sull'Isonzo, ma non gli venne data fiducia. Sparisce per poi riapparire in Francia
e in Svizzera, da cui viene espulso per incitamento alla sovversione per - conto
di Mosca. Lo ritroviamo poi in Italia dove fa la spia ed altri mestieri di dubbia
reputazione, ed infatti, dopo altre sparizioni, si viene a sapere che il 6 maggio
era stato arrestato a Napoli.
Si dice che veniva contattato dal Dumini per utilizzarlo occasionalmente nella
Ceka e come uno dei componenti di questa congrega verrà spesso indicato nella
letteratura in argomento. In ogni caso verso la fine del mese, per lui si muove
l'amministratore del PNF Giovanni Marinelli il quale coinvolge il direttore
generale della pubblica sicurezza il generale Emilio De Bono.
Questi dispongono, pochi giorni prima del rapimento dell'onorevole Matteotti,
le direttive per farlo uscire dal penitenziario di Poggio Reale dove si trovava in
detenzione dal 16 maggio. L'operazione avviene attraverso una lettera del 31
maggio, concepita e firmata da Marinelli e sembra fatta mettere nero su bianco,
su carta intestata della segreteria politica del PNF, proprio ad Amerigo Dumini.
La lettera, con accluse lire 100 da consegnare al Thierschald, parte da Roma ed è
destinata al direttore del carcere di Poggioreale. Vi è anche l'indicazione per il
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Thierschald, definito "uno dei nostri fiduciari segreti", di recarsi a Roma
all'Hotel Dragoni (albergo che a quanto pare funge da base operativa per il
delitto Matteotti) chiedendo del signor Gino Bianchi nome dietro il quale si
nasconde il Dumini stesso.
Affermerà giustamente lo storico Mauro Canali:
“Ci sembra una coincidenza significativa che l’austriaco, che, nell’ambitodell’organizzazione del delitto Matteotti, avrà il compito di pedinare ildeputato socialista, venga liberato il 31, all’indomani della clamorosadenuncia parlamentare del deputato riformista [Matteotti, n.d.r.]”
Se ne poteva dedurre che questo avventuriero, era stato ritenuto utile per
coadiuvare Amerigo Dumini in tutta l'operazione Matteotti, ma forse non solo
per il pedinamento del parlamentare socialista, ma probabilmente perché
interno ad un gioco più ampio che non si riuscirà mai a chiarire.
Comunque sia sembra che nei giorni precedenti il rapimento il Thierschald,
arrivato a Roma il 4 giugno, venne preposto a piantonare casa del parlamentare
del PSU, dove fu anche fermato e identificato. Ma, come già accennato, a questo
punto viene il bello, perché questo strano personaggio, mentre sembra lavorare
per Dumini, cerca anche di mettersi in contatto con Matteotti per avvisarlo del
pericolo che incombe su di lui e cercherà anche di fargli avere un biglietto.
Rimarremo così con il dubbio a chi, effettivamente, faceva capo il Thierschald,
perché è difficile credere che intraprese queste delicate e ambigue iniziative
doppiogiochiste solo di testa sua e per proprio interesse.
Si disse che l'austriaco era stato anche informatore di De Bono, ma resta
comunque difficile stabilire fino a che punto il De Bono possa essere al centro
della vicenda e a conoscenza del crimine, perché i suoi appoggi, i suoi servigi,
prima e dopo il delitto, in mancanza di riscontri, possono essere visti come
operazioni collaterali, favori, preoccupazioni di evitare danni al governo, a sé
stesso e simili, ma non necessariamente legati alla meccanica delittuosa, cioè
come un vero e proprio interesse personale al progetto criminoso.
Se per le ore precedenti il delitto la presenza di Thierschald è inequivocabile, per
le ore che vanno dalle 16 fino alla sera del 10 giugno, cioè i momenti in cui venne
consumato il delitto, la questione è più sfumata.
Fatto sta che vennero rinvenuti sulla strada della Quartarella alcuni
oggetti compromettenti, chiaramente gettati dai sequestratori nella via del
ritorno. Tra questi un panno con il timbro a secco del carcere napoletano di
Poggioreale, ove era stato pochi giorni prima detenuto il Thierschald ed alcune
pagine di un giornale slavo Pravu Lidu che si presume, solo questa spia
cosmopolita poteva leggere.
Quando poi, qualche giorno dopo, sarà arrestato il Thierschald aveva in una
valigia un paio di pantaloni corti ripuliti alla meglio, ma macchiati di sangue.
Un dispaccio della Questura di Milano a quella di Roma del 20 giugno 1924,
specifica che i pantaloni corti sequestrati al Thierschald, arrestato il giorno
precedente, risultano lavati di fresco, strofinati e stropicciati, ma erano rimaste
macchie presumibilmente di sangue. A questo proposito questo straniero si era
fatto prestare un altro paio di pantaloni da un certo Galli Alessandro della CGL
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(esattamente CGdL) di Milano, palesando la sua abitudine a saltellare da un
ambiente, quello fascista, ad un altro, quello sindacale di sinistra.
E' pertanto presumibile che il Thierschald fu almeno presente e
partecipò al sotterramento del cadavere di Matteotti e quindi torna
logico che egli raggiunse i sequestratori sulla Lancia con altra auto.
Nella ricostruzione del delitto, comunque, la presenza di un altra auto passò in
secondo piano tra gli inquirenti e non è quindi possibile dettagliare oggi gli
esatti contorni di questa possibile presenza, ma il suo fantasma, come quello di
Thierschald, pone un grosso punto interrogativo nell'accertamento di una
completa verità, una verità che dovrebbe far emergere non solo gli aspetti
politici della vicenda ed ovviamente quelli affaristici, ma anche le cointeressenze
internazionali (sovietici e rivali nel petrolio).
Nella presentazione del citato libro di Franco Scalzo [anche per questo autore, i
nostri riferimenti sono sempre relativi a detto libro], si legge:
« Questo non sarà l'ultimo dei miei libri intestati al caso Matteotti. E le ragioni
di tale scelta, che potrebbe apparire dettata da una fissazione patologica, sono
molto semplici: ci sono troppi personaggi, avvolti nella penombra, rispetto ai
quali ogni certezza è arbitraria. E poi: due macchine, nei pressi del luogo
dell'agguato, invece di una, come si sapeva finora. Un agente della grande
industria americana che imbastisce trame eversive d'intesa con le Sinistre.
Giochi e doppi giochi, al riparo delle logge massoniche e delle centrali
spionistiche di mezzo mondo.
D'Annunzio e Dumini. Pontieri del PNF e guastatori del PCI.
Bandiere rosse e inappuntabili finanzieri, in un immenso tripudio di
combinazioni 'strane', che però sono tributarie di una logica assai più chiara e
lineare di quella individuata attraverso il filtro deformante dell'antifascismo
codino.
Si può essere sicuri solo di due cose: che Mussolini non c'entrava affatto, e che i
mandanti del delitto sono ancora sopra di noi, refrattari alle vicende
giudiziarie, potenti al punto da essere esonerati dal figurare tra i protagonisti
della Storia. Perché loro muovono i fili. E gli altri vi sono appesi».
In ogni caso, ci sono tante, troppe storie che meriterebbero di essere
attentamente indagate e valutate, ma in mancanza di precise documentazioni è
inutile stare a fare troppe congetture su queste situazioni, e in particolare sui
veri compiti che aveva il Thierschald. Singolare anche il fatto che due elementi
che partecipano al sequestro di Matteotti, il Thierschald appunto e Giuseppe
Viola, erano da poco reduci da un breve soggiorno nelle patrie galere e questo
aggiungendosi a quanto il giornale Epoca il 22 giugno del 1924 ebbe a scrivere:
«Pare accertato in modo sicuro che Giuseppe Viola, oltre ad essere stipendiato
dalla Ceka del Viminale con un mensile modesto, era un agente della Ceka
russa dalla quale avrebbe riscosso cento lire al giorno.
Egli sarebbe dunque un agente dei bolscevichi di Mosca. Questo particolare
messo in relazione con la correità del russo austriaco (il Thierschald, n.d.r.)
arrestato a Milano (...) dà adito a infinite supposizioni...».
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Ed i sovietici ne avevano di motivi per giocare un loro ruolo sporco dietro le
quinte, nonostante che a febbraio del 1924 era andato in porto l'accordo per il
commercio e navigazione fra Italia e URSS con il loro riconoscimento de jure.
Prima di tutto erano impegnatissimi a cercare (finanziando) di ricompattare una
certa unità delle sinistre attorno al PCdl.
Progetto che era fortemente minacciato dagli intenti di Mussolini di aprire ai
socialisti unitari ed ai confederati le porte del governo.
Secondo poi, l'accordo con la Sinclair per il petrolio, di cui parleremo più avanti,
in prospettiva, danneggiava anche i sovietici, che stimavano di perdere la
possibilità di esportare verso l'Italia circa 140.000 tonnellate di petrolio l'anno.
Per certe oscure implicazioni di più cointeressenze alla eliminazione di
Matteotti, mai adeguatamente indagate, è interessante leggere un Telespresso
riservatissimo del 9 luglio 1924 spedito dall'Ufficio di Gabinetto del Ministero
Affari Esteri al Ministero degli Interni dove si parla della nostra Legazione di
Montevideo in Uruguay che segnala un comunista ivi arrivato e implicato
nell'assassinio di Matteotti e di cui un confidente della Legazione avrebbe
riferito che questo comunista asserì che il cadavere di Matteotti si troverebbe
sotterrato nei pressi del Villaggio "La Storta" vicino la strada ferrata Roma -
Viterbo. La fossa sarebbe stata scavata con strumenti cantoniere ferroviario ivi
trovati. Un quadro un pò impreciso, ma sostanzialmente esatto.
A nessuno ha fatto mai comodo togliere il coperchio a questa pentola: nè il
regime fascista, di cui alcuni suoi esponenti, in qualche modo, hanno usufruito
benefici da questi traffici e strani servigi, né le opposizioni social comuniste che
probabilmente non sono del tutto estranee a innominati intrecci tra loro, i
fascisti "revisionisti" che si scontrano con i Ras, e ambienti sovietici, e neppure
alle intelligence straniere, in particolare inglesi e francesi, le quali ora hanno
tutto l'interesse a tenere celate certe operazioni svolte sul nostro territorio.
E così al processo per il delitto Matteotti di Chieti del 1926, mentre il
Thierschald ne verrà tirato subito fuori, per il Viola questo aspetto di collusione
con i sovietici sarà appena sfiorato. Nessuno spiegherà mai un grossa
contraddizione nell’Istruttoria tra un ruolo di rilievo nella meccanica del delitto
Matteotti, assegnato al Thierschald dal Procuratore Generale e il suo
proscioglimento da ogni addebito al termie dell’istruttoria.
Se, e rimarchiamo se, il ruolo di Thierschald è connesso alla “misteriosa”
presenza, il 10 giugno 1924 sul luogo del rapimento di Matteotti di una seconda
automobile si potrebbe delineare anche un mezzo intrigo internazionale.
Da dove veniva e chi era esattamente il Thierschald? A chi faceva capo? Perché
nel processo istruttorio esce fuori dalle responsabilità nel delitto e dal processo?
A nostro avviso tutta l’implicazione sovietico – spionistica di questo
Thierschald nel delitto Matteotti, non può essere ridotta, come fa lo storico
Canali, ad un diversivo della stampa fascista per stornare i sospetti dalle
responsabilità dei fascisti. Probabilmente il ruolo dei sovietici venne esagerato,
ma in quello che si configura anche come un “intrigo internazionale” non può
essere neppure misconosciuto. Scrive Franco Scalzo, nel suo libro citato:
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“Ora, se si pensa che la ‘conversione’ di Bombacci avviene più o meno nel
medesimo frangente in cui Farinacci dichiara in un’intervista al ‘Giornale
d’Italia’ di essere certo del coinvolgimento della cricca di Rossi e dei comunisti
nel delitto Matteotti e che tutta l’operazione è stata pianificata per provocare
la deriva traumatica del fascismo, sarebbe interessante stabilire se fossero
state le parole del ras di Cremona (Farinacci, N.d.R.) a folgorare Bombacci, o
– che è cosa più facile – se fosse stato quest’ultimo a dargli la conferma del
fatto che Thierschald e Viola erano stati manovrati dai ‘servizi’ dell’Unione
Sovietica, prima di concordare con lui i tempi e le procedure per un eventuale
trasloco nel PNF. (…) I sensori piazzati nei punti giusti della nostra
‘intelligence’ danno, dunque, per imminente l’inizio di una simbiosi di carattere
politico e operativo fra Rikoff e Dzerzjnski, che è il capo dei servizi segreti
sovietici, ma, forse, alla data in cui vengono redatti tali appunti, il fenomeno si
è già adempiuto. Fa un certo effetto, comunque, rilevare che l’arresto di Ivan
Kravinapolskj cade in un lasso di tempo di poco posteriore al ritorno in patria
di Rikoff, e non ho difficoltà a dichiarare che i due eventi possono essersi legati
l’uno all’altro così strettamente da sottrarsi alle interferenze del caso” (…).
“Una delle sue geniali mistificazioni a doppia e a tripla mandata. (…..) Il
dettaglio della seconda macchina è uno dei tanti che passa inosservato nella
ricostruzione del 10 giugno: le autorità inquirenti lo rimuovono, gli studiosi
disattenti (…) lo ignorano. Eppure, prendere atto della presenza di altre due
persone accanto a quelle che vengono citate per aver materialmente eseguito
la soppressione di Matteotti, significa, in una vicenda giudiziaria che abbia
riguardi per l’ortodossia procedurale e, più ancora, per l’accertamento
metodico dei fatti, che si pone ai magistrati l’obbligo di buttare giù e
ricominciare letteralmente daccapo. Ma questo non è successo.
Perché? La risposta è che l’ammissione della sussistenza di tale particolare
avrebbe scatenato una bufera di interrogativi e reso impossibile f(….) lo
scagionamento di Otto Thierschald dall’accusa di avere assolto un ruolo
importante, decisivo, nell’economia del complotto; avrebbe reso estremamente
problematico il compito che il regime si era assegnato, di chiudere l’affare
Matteotti nell’ambito del ‘made in Italy’, cancellando le tracce che potessero, in
qualche modo, suffragare il sospetto di un’implicazione straniera; e avrebbe
creato, intorno alla fragile compagine governativa retta da Mussolini molte
più turbolenze di quante essa ne avrebbe subite, come poi avvenne, attirando
su di sé il biasimo dell’opinione pubblica mondiale”.
Un fatto è certo: la figura sbiadita di Thierschald sfuma, come se dietro ci
fossero segreti e interessi di Stato e rapporti internazionali da proteggere, ma
comunque la si voglia mettere resta il fatto che una spia, un
avventuriero legato anche al servizio segreto sovietico subentra nelle
fasi di fuga del rapimento di Giacomo Matteotti.
Cosa significa questo, che i sovietici sono implicati nell’Affaire? Non
necessariamente, ma il caso Matteotti è molto più complesso di quanto sembra.
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Le indagini e gli sviluppi del caso
Le indagini spettano al questore Cesare Bertini (questore dal 1920 e
prefetto dal 1923) ed egli, seppur un pò fanfarone, le attiverà a tutto campo per
arrivare agli autori del misfatto, potendo ben presto contare sul numero di targa
dell'auto usata dai rapitori.
Per le cronache e da quel che si conosce, la sera del delitto Cesare Rossi era a
cena a Frascati con Carlo Bazzi, il maneggione direttore del “Nuovo Paese” e il
giorno dopo, mercoledì 11 giugno al mattino, come di prassi, aveva incontrato
Mussolini, da cui si recò poi anche la sera.
Finzi, invece era lontano da Roma dal 7 giugno, ed era rientrato mercoledì 11 dal
suo viaggio nel Polesine di cui alcuni hanno visto uno specie di alibi, in quanto
sospettano che egli era al corrente del misfatto imminente.
12 giugno giovedì
Alcuni testimoni, rintracciati già il 12 giugno e che si erano trovati sul
Lungotevere Arnaldo da Brescia, chi alcuni metri più avanti e chi altrettanti più
dietro della macchina dei sequestratori e chi dalle finestre delle palazzine
adiacenti, consentirono di ricostruire la meccanica del rapimento.
I primi testimoni del rapimento, due impiegati, Adelchi Frattaroli e Eliseo De
Leo, dichiararono che dopo aver fatto il bagno nel Tevere stavano risalendo la
scalinata; giunti sulla strada assistettero alle fasi dell'evento delittuoso che si
svolgeva poco più avanti di loro: quattro giovani vestiti di chiaro avevano preso
per la testa e per i piedi un altro individuo vestito di chiaro che gridava aiuto.
Questi venne buttato nell'automobile li vicino, dopo che uno seduto sul
predellino gli ebbe dato un paio di pugni nello stomaco.
Quindi l'auto partì a tutta velocità verso Ponte Mollo (Ponte Milvio).
Il De Leo disse anche di aver visto una parte della targa che ricordava con i
numeri 55.107 seguiti da altri due numeri.
Dalla parte più avanti della strada di Lungotevere, cioè all'opposto di dove si
trovavano i due impiegati, due bambini, Amilcare Mascagna di 11 anni e Renato
Barzotti di 10, racconteranno alla polizia, il giorno successivo, il 13 giugno, di
aver assistito all'evento che descrissero più o meno con le stesse modalità.
Da una finestra, invece, anche un altro impiegato, sembra un avvocato, tale
Giovanni Cavanna, attirato dal suono del clacson dell'auto che suonò in quei
momenti, potè vedere molte fasi del rapimento:
«Martedì 10 giugno, nel pomeriggio, e precisamente attorno alle 16,30, io ero
nel mio studio la cui finestra dà sulla via Antonio Scialoja.
All'improvviso la mia attenzione fu attirata dall'insistente suono di sirena di
automobile.
Mi affacciai alla finestra e vidi un automobile nera, elegante, chiusa con al
volante uno chauffeur in borghese col cappello floscio nero... vidi cinque
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uomini che sorreggevano orizzontalmente un individuo mezzo scamiciato che
mi parve fosse vestito di grigio e che tentava di svincolarsi gridando aiuto.
L'automobile si avvicinò a loro e l'individuo fu caricato su la macchina, dopo
che uno dei cinque individui, alto e vestito di scuro, gli aveva dato uno spintone
sul petto. La scena si svolse rapida e fulminea tanto che io, affrettatomi a
scendere, arrivai sulla strada che l'automobile era già scomparsa».
Il Cavanna indicò anche la presenza in strada dei due ragazzini, uno da lui
conosciuto, che come abbiamo visto furono poi rintracciati ed anche quella di un
netturbino tale Giovarmi Pucci, che confermò lo steso scenario.
Un pò da tutti questi testi venne anche l'indicazione che la macchina era scura e
chiusa, e sembra che i due ragazzini indicarono anche che fosse una Lancia.
E' probabile che Matteotti riuscì a gettare fuori dal finestrino la tessera da
parlamentare. Due contadini che passavano con il loro carrettino sul
Lungotevere Flaminio, pochi minuti dopo il rapimento, trovarono e raccolsero il
suo tesserino rosso da deputato.
La testimonianza che però risultò decisiva venne per ultima e fu quella di una
coppia di portieri di un palazzo di via Mancini, via che fa angolo con
Lungotevere Arnaldo da Brescia ed incrocia anche via Pisanelli dove abitava
Matteotti. La portinaia, tale Ester Erasmi, la sera prima del sequestro,
insospettita dalle manovre di una macchina scura e di tre individui che facevano
avanti e indietro, avvertì il marito Domenico Villarini il quale riscontrando il
fatto si annotò il numero di targa: Roma 55-12169 su di un calendario a muro.
[Anche questo è un particolare che lascia perplessi: gli uomini che
stanno accingendosi a compiere il rapimento, gironzolano, la sera
precedente, con tanto di macchina che poi impiegheranno nel crimine
sotto casa della vittima. Non si puo’ dire che si sentivano pienamente
sicuri e protetti perché poi quando sapranno che la targa era nota alla
polizia, scapperanno tutti in fretta e furia. Alcuni lo hanno messo in
relazione alla fretta di rapire Matteotti, prima del suo discorso alla
Camera, ma resta ugualmente incomprensibile]
Questa importante testimonianza non solo farà in poco tempo rintracciare
l’auto, ma in seguito sarà anche una pietra tombale per le dichiarazioni di
Dumini che affermerà che quel giorno fu quasi per caso o per far vedere agli altri
dove abitava Matteotti, che si erano imbattuti nel parlamentare, quando invece
in realtà, erano sulle sue tracce da giorni.
Il pomeriggio del 12, alle cinque la Questura, che da poco già aveva l’indicazione
del numero di targa, trasmette una nota al Procuratore del Re dove riporta che il
pomeriggio del 10 giugno alle 16,10, in lungotevere Arnaldo da Brescia, cinque
persone avevano sollevato e caricato a forza in auto un individuo che si
divincolava e chiedeva aiuto.
Si presumeva che potesse trattarsi del deputato Matteotti.
In men che non si dica comunque la polizia aveva già i primi elementi, tanto che
Mussolini nel tardo pomeriggio del 12 si presentò a Montecitorio e dopo aver
affermato che l'onorevole Matteotti: «scomparso improvvisamente nel
pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora
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ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che se
compiuto non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del Governo e
del Parlamento», comunicò alla camera che, a seguito delle indagini subito
attivate, si era già sulle tracce dei responsabili del delitto.
Si arrivò quindi al garage Trevi, in via dei Crociferi, dove la mattina di lunedì 9
la Lancia era stata data a Dumini (l'aveva richiesta per una scampagnata con
amici) con il consenso di Filippo Filippelli che precedentemente l'aveva
noleggiata. Non era però stata riportata. Anche il Tomassini, proprietario del
garage, venne momentaneamente arrestato.
Alle 22, di giovedì 12, l'auto sarà sequestrata dalla PS nella carrozzeria "Tattini &
Maraga" in via Flaminia dove era stata portata, da un autista, adducendo di fare
delle riparazioni. Era infangata nella parte bassa, con il vetro anteriore sinistro
spaccato e quello posteriore infranto, mentre la tappezzeria interna risultava
alquanto lacera, strappata e nei sedili di dietro vi erano macchie che
sembravano proprio di sangue. Di sicuro aveva camminato molto e dentro
probabilmente c’era stata una specie di colluttazione.
Il serbatoio portava ancora la metà dei cento litri, che costituiscono il pieno
della macchina con il quale era stata prelevata.
1o giugno notte - 11 giugno mercoledì
Si ricostruì in seguito che i sequestratori erano tornati la sera tardi a Roma
e Dumini aveva parcheggiato la macchina nel cortile del Viminale, dove venne
notata, impolverata, dopo le 22,30 circa. Poi si era diretto verso l'hotel Dragoni.
Non è molto rilevante, ma il fatto che il Dumini, sentendosi più che sicuro, abbia
lasciato l’auto Lancia fattagli prendere dal Filippelli, la sera prima del delitto
nel cortile di palazzo Chigi e dopo il delitto, per giunta sporca e con un vetro
rotto, nel cortile del Viminale, fa sospettare che Mussolini non doveva saperne
niente, altrimenti difficilmente avrebbe approvato questi gesti compromettenti.
Il Dumini si era poi recato dalle parti di Fontana di Trevi, in piazza Poli, alla
sede del Corriere Italiano, dove fu notato da diversi testimoni, intorno alle
23,30. Qui aveva parlato con Filippelli, arrivato sembra intorno a mezzanotte,
dettagliandolo, quindi un redattore del giornale, Nello Quilici, testimonierà che
lui, dietro insistenze, aveva concesso di far depositare la Lancia in un suo garage
nella lontana ''Città Giardino " a Montesacro (Roma), dove resterà fino al 12.
Nel frattempo, infatti, Dumini aveva mandato al Viminale Panzeri e Putato a
recuperare l’auto Lancia. Si noti che invece, secondo il suo mendace “testamento
americano”, a quest’ora il Dumini scrisse che si era recato a casa di Marinelli e
poi a palazzo Chigi. Un balletto di bugie per ogni uso.
Quella notte, alle 2 circa, oramai di mercoledì 11 giugno, quando il Quilici aveva
terminato il lavoro, nel portare la macchina a Montesacro con il Dumini,
sembra che c'erano il Putato, Panzeri e lo stesso Quilici.
In seguito il Putato rivelò che il Panzeri gli disse che “di preciso non sapeva cosa
era accaduto”, ma che Poveromo gli aveva detto che avevano rapito Matteotti, lo
avevano ammazzato e poi sotterrato dopo aver a lungo girato per la campagna.
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quale poi dovette ammettere che già sapeva tutto. Anni dopo, infatti, fuoriuscito
in Francia, il Rossi disse che il suo informatore era stato Benedetto Fasciolo il
segretario stenografo di Mussolini che gli aveva raccontato del misfatto dopo
che lui tornava dall’incontro con il Capo del governo. Rossi in un suo memoriale
per lo storico Gaetano Salvemini, che gli chiedeva spiegazioni, scrisse poi che
non informò Mussolini, in quanto la notizia gli aveva procurato una totale
abulia paralizzante fino al giorno dopo e si sentiva anche spregiudicato agli
occhi di Mussolini temendo che questi se la prendesse con lui.
[A parte la credibilità di tutti questi racconti, riportati anche dallo
storico Canali, ma a supporto della sua tesi di un Mussolini mandante,
complici i Rossi e i Marinelli, il contenuto di questa rivelazione,
invece, pone forti dubbi a una tesi accusatoria verso Mussolini visto
che la prima cosa che avrebbe dovuto fare il Rossi, il mattino dell’11,
quale complice, era proprio quella di parlarne con Mussolini]
De Bono raccontò di aver avuto la prima notizia della perdurante assenza di
Matteotti, alle ore 19 di mercoledì 11, e gliela diede Giacomo Acerbo; ci sono
però dei dubbi visto che Filippelli prima disse e poi ritrattò, che lo aveva
informato fin dalla mattina. Ritenere che qualcuno mente, è poco, ma sicuro.
Insomma, il Canali dopo aver indicato che De Bono, Finzi, Filippelli e Rossi, pur
essendo al corrente dell’identità degli assassini, fino al primo pomeriggio del
giorno dopo, giovedì, non sembrano preoccupati, aggiungendoci poi, come lui
stesso asserisce, che il Marinelli, Rossi e il Fasciolo, erano direttamente
implicati in tutta la faccenda delittuosa (vedi nota 13), finisce per disegnare un
quadro dove tutti questi manigoldi o perché l’hanno organizzata o perché ne
sono coinvolti o ne sono comunque informati, sebbene molti di loro, hanno
tutto da perdere, farebbero parte, sia pure a titoli diversi, del quadro delittuoso.
Ora che alcuni di loro ne siano direttamente coinvolti, come Marinelli, e in vari
ambiti forse qualcun altro, è possibile, ma tutti insieme lo riteniamo assurdo e
poco credibile, perchè il quadro d’insieme di questo delitto è molto più
complesso e si gioca quasi a compartimenti stagno in diversi ambiti.
Alle ore 13 di quel mercoledì 11 il Filippelli andò a pranzo con un paio di
finanziatori del giornale e Filippo Naldi (già direttore di testate, un pezzo da 90,
finanziatore di varie iniziative, tramite di grossi ambienti finanziari e non
estraneo alla massoneria. Oltretutto è intimo sia di Filippelli che del Nello
Quilici) e altrettanto il Filippelli con il Naldi ci riandrà la sera e quindi, dopo le
22, venne visto andare con la sua auto Ansaldo, con il Dumini da qualche parte.
Come giustamente nota Mauro Canali, questi particolari smentiscono il
sentimento di orrore che il Filippelli disse di aver provato verso il Dumini (del
resto smentito dalla testimonianza del Quilici) dopo aver ascoltato della morte
di Matteotti, la notte del 10 giugno.
Il pomeriggio dell’11, Putato, Thierschald, Poveromo e Panzeri, partirono per
Milano, cambiando i treni per non lasciare tracce. Un artificio per confondere i
loro spostamenti che non imitarono Viola, Volpi e Malacria, partiti direttamente
per Milano il giovedì 12 alle 14. Comunque servirà a poco, perchè in pochi giorni
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verranno tutti arrestati tranne Panzeri e Malacria che riusciranno a fuggire in
Francia (Malacria verrà poi estradato).
Il Dumini invece tra le 18 e le 19 di quel mercoledì 11, è nella Tribuna della
Camera, dove spesso si recava, a seguire calmo e tranquillo un intervento
dell’on. Baldesi. Qualcuno notò che ogni tanto si puliva le scarpe impolverate.
12 giugno giovedì
Il 12 mattina, giovedì, il Dumini si recò, accompagnato in auto da Giovanni
Marinelli e da Cesare Rossi, al Palazzo di Giustizia per firmare un atto di
remissione di una vecchia querela, evidentemente doveva sentirsi tranquillo e
sicuro.
Prime ore pomeridiane: scatta l’allarme
Il Dumini,, intorno alle 15, accompagnato da Filippelli torna al garage del Quilici
a Città Giardino, dove sembra si diede da fare nell’interno dell’automobile
(l’auto, come detto, venne poi fatta portare in una autorimessa di via Flaminia,
per riparazioni, e lì venne recuperata alle 22 dalla polizia).
Nel frattempo la notizia che era nota la targa dell’auto usata per il rapimento,
filtrata dalla polizia, divenne anche nota a vari personaggi, per esempio Cesare
Rossi, nelle prime ore (forse tra le 12,30 e le 14,00) del pomeriggio di
giovedì 12, e a quel punto autori e comprimari del misfatto potevano essere
certi che si sarebbe scoperto tutto e rintracciato i responsabili.
E’ probabile che il viaggio delle 15 di Filippelli e Dumini, al garage di Quilici a
città Giardino, sia in relazione alla necessità, divenuta ora urgente, di
recuperare l’auto, di cui la polizia conosce il numero di targa.
Quel pomeriggio di giovedì Rossi andò da Mussolini, e sembra che poi il
Filippelli sia andato da Rossi al Viminale ove ebbe un colloquio drammatico, gli
gridò: “mi avete rovinato”.
[Purtroppo sulla base di queste notizie non è possibile ricavarne un
quadro attendibile per individuare colpevoli o comprimari e innocenti.
Intanto, sono tutte notizie ricavate da testimonianze, interrogatori e
memoriali, spesso bugiardi o alterati o smentiti da altri, e poi traspare
evidente che qui molti personaggi si ritrovarono incastrati gli uni dagli
altri, in un vortice incredibile. Ognuno infatti aveva agito in un suo
ambito, magari “credendo che…”, o con scopi tra loro diversi; altri
erano in buona parte all’oscuro del delitto, tranne i veri ideatori]
12 giugno giovedì notte
La notte di giovedì 12, con la nave che minaccia di affondare, ci fu un
importante incontro al Viminale, tra tutti questi “uomini” di Mussolini. Non è
chiaro se l’incontro venne sollecitato da Rossi o da De Bono. Evidente lo scopo
di tutti nello stabilire il “che fare”. Lo storico Canali presuppone che questo
incontro lo aveva sollecitato Rossi evidentemente dietro richiesta di Mussolini.
Ma comunque questo particolare non cambia le cose.
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Si dice anche che fu il Rossi, dopo una riunione notturna, informale, dei membri
del Gran Consiglio del Fascismo, a volere l'incontro, in quanto Aldo Finzi lo
avrebbe messo in guardia circa le iniziative del De Bono che potrebbe "partire in
quarta" e passare su tutti loro.
L'incontro, avviene al Viminale e sono anche presenti Giovanni Marinelli e Aldo
Finzi. Sembra che emergono differenze di vedute e soprattutto Rossi e Marinelli
spingerebbero per liberare in qualche modo gli arrestati (“potrebbero dire di
essere stati incaricati da Mussolini”, sembra che dica il Rossi), ma De Bono fa
presente che oramai non è più possibile.
Tutti costoro, probabilmente, fanno notare al De Bono che lui è impelagato
quanto loro, visto che conosceva benissimo le attività del Dumini, avendogli
oltretutto fornito i passaporti falsi, ma fanno anche capire al generale che se
scoppia lo scandalo anche Mussolini ne verrebbe incriminato.
Rossi aggiungerebbe che potrebbe venir fuori che è stato Mussolini ad
ordinarlo. Non si capisce se il Rossi ci fa o c'è, ovvero se è complice, e magari
non era d'accordo e quindi è rimasto spiazzato o che altro e neppure si può del
tutto escludere che qualcuno di loro è “complice” di chi aveva ordito il misfatto
anche nell’ottica di defenestrare Mussolini, sebbene ne andrebbe di mezzo
anche la sua testa, ma qui entriamo nella dietrologia e quindi sorvoliamo.
E’ chiaro che tutti vorrebbero salvare il salvabile, depistare, sembra che già si
prospetti di mettere la faccenda come una specie di faida tra fascisti e
antifascisti, facendo risaltare che il Matteotti veniva ritenuto responsabile
dell’omicidio a Parigi di Bonservizi, è anche chiaro però che tutti vorrebbero
salvarsi costringendo il Duce a insabbiare e coprirli e invece il Duce reagirà
prendendo le distanze da tutti costoro.19
In ogni caso sembra che De Bono si precipiti a riferire per telefono a Mussolini
quello che i suoi uomini Rossi, Finzi, Marinelli, avrebbero detto, ovvero che
minacciavano di volergli gettare addosso le responsabilità.
Mussolini indignato sembra che dica: «Vigliacchi, cosa credono, di poter
intentare un ricatto?!». In ogni caso incarica De Bono di procedere senza
indugio nelle indagini.
Disposizioni in questo senso, infatti, verranno date alla polizia che in poche ore
porteranno all'arresto di tutti i componenti della Ceka.
Successivamente Mussolini passerà all’offensiva imponendo le dimissioni dei
vari Rossi, Finzi, ecc., soprattutto quelli con incarichi di governo.
[Da questo incontro notturno si possono dedurre alcune cose. Intanto
il fatto che tutti costoro preso atto che Dumini è stato arrestato,
innocenti o colpevoli che sono, saranno chiamati a renderne conto
visto che erano attigui a Dumini. Ecco che allora vorrebbero essere
“coperti“ da Mussolini, che si addossasse lui le responsabilità
mettendola sul piano di una “guerra” tra fascismo e antifascismo. Un
vero e proprio ricatto. Consideriamo che l’entourage di quella che è
stata definita la “banda del Viminale”, i manovratori di Dumini & Co.,
cioè i Rossi, Marinelli, Finzi, De Bono, erano i più stretti collaboratori
di Mussolini e se questi avesse ordinato il rapimento di Matteotti,
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alcuni di costoro avrebbero dovuto esserne bene al corrente, se non
averlo concertato insieme al Duce, e quindi non avevano necessità di
esercitare questo genere di pressioni per salvarsi. Ed invece
Mussolini non ebbe remore a scaricarli. Rossi e Finzi, vennero fatti
dimettere, De Bono dovette lasciare le sue alte cariche e Marinelli finì
in galera. Con chi aveva organizzato questo delitto, Mussolini?]
Ci si è domandati perché Mussolini mette al rogo anche il Finzi. Il Rossi, tutto
sommato, era attiguo a Dumini, ma Finzi molto meno. In questo si è voluto
vedere un diversivo di Mussolini per deviare sul Finzi, che era dello stesso
collegio elettorale nel Polesine, di Matteotti, certi sospetti e la pressione
dell’opinione pubblica. .
Ma a parte le necessità tattiche di quei momenti e il fatto che Finzi era
“chiacchierato”, per i suoi traffici, Mussolini si era perfettamente reso conto che
dietro il delitto Matteotti c’era anche un progetto per defenestrarlo, e questo
progetto doveva risalire a quei “poteri forti”, come l’Alta banca, con i quali era
venuto in collisione. E il Finzi, impelagato con traffici finanziari, petroliferi, e
sul gioco d’azzardo, volente o nolente, era intimo con quei poteri.
E’ oramai evidente che, Dumini a parte, sarà proprio il Filippelli a trovarsi in
guai seri. L’auto del rapimento risulterà da lui noleggiata e da questo non potrà
scappare, verrà ritrovata la sera alle 22 in una carrozzeria di via Flaminia che lui
usa per riparazioni. Ma quello che di lì a meno di un paio di giorno, lo
inchioderà definitivamente sarà la circostanziata deposizione del suo redattore
capo, Nello Quilici, il quale per non essere incriminato, rivelerà tutti i particolari
della notte del 10 quando Dumini venne al giornale a raccontare i fatti.
Inizierà così il valzer delle chiamate di correità, perchè il Filipelli chiamerà in
causa Dumini e Cesare Rossi e quella dei “memoriali”, perché ognuno vorrà
premunirsi con il suo bel memorialetto.
Il vero ruolo del Filippelli, resterà indefinito, ma non poteva essere di certo
quello di un semplice “intermediario” nella vicenda. Il Filippelli portava sia a
Aldo Finzi che al Pippo Naldi, ma non solo perché il Naldi gli fornirà il
passaporto per fuggire, e questo suggerisce che il Naldi aveva avuto un suo
ruolo nella vicenda, un ruolo di più ampia e defilata portata, e Naldi significava
poteri forti, significava Banca Commerciale, alta massoneria.
Ma siamo andati troppo avanti, vediamo la tragicomica fine del capo della
masnada, il Dumini, che uscito da casa sua in via Cavour, bagagli alla mano,
prende una botticella e va verso il centro della città per recarsi poi a sera alla
stazione termini dove sarà arrestato.
L’arresto di Dumini, metterà sulla graticola Emilio De Bono, il capo della
polizia, che gli era stato sodale e lo costringerà a tutta una serie di
contorsionismi per dover portare avanti le indagini, senza tentennamenti, ma
allo stesso tempo cercare di proteggere se stesso e il regime. Compito di certo
non facile. Ma anche per il De Bono il vero ruolo in tutta questa criminosa
vicenda resterà in parte imperscrutabile, perché c’è il sospetto che fu proprio
lui, il De Bono, a informare personaggi interessati che il Matteotti aveva certe
prove di certi scandali, e costoro procedettero nell’impresa. E questi personaggi,
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si sospetta che siano stati degli emissari di Casa Savoia. E’ questa l’ipotesi di
Matteo, il figlio di Matteotti, ma più di sospetti però non se ne hanno.
Quella convulsa notte del 12 giugno si concluse con una telefonata, registrata e
trascritta dal servizio Informazioni del Ministero degli Interni, tra di due fratelli
Mussolini, quelli che per lo storico Mauro Canali, sarebbero i responsabili primi
e i mandanti dell’omicidio Matteotti. Sentiamo cosa si dicono.
«Benito: Hai visto la stampa?
Arnaldo: Qualche cosa.
B.: Tutti si scagliano contro di me. E mi rendono responsabile di ciò che è
avvenuto. Sperando che vada via. Ma io resto al mio posto dovesse cascare il
mondo.
A.: L’importante è conservare la calma. Se tu riesci a mantenere la serenità
vedrai che tutto sarà ricondotto nei giusti limiti e la verità finirà per trionfare.
B.: E’ vero che Matteotti mi aveva piantato non poche grane, ma non è meno
vero che essendo il migliore uomo di quella masnada e soprattutto il più
coerente e sincero, per quanto impulsivo, ho sempre avuto per lui quasi una
ammirazione Sono rimasto veramente addolorato per ciò che è accaduto.
A.: Ti ho sempre detto di guardarti dalle persone che ti circondano!
B.: Purtroppo credo che tu abbia, in un certo senso, ragione. la cosa più grave
è la defezione nelle nostre file.
A: Anche qui le tessere restituite sono moltissime, ma ciò non vuol dire.
Quest’episodio, rappresenta per te la prova suprema. Chi ha creduto nell’ideale
e in te, e non sono pochi, invoca ed ha il diritto di aspettare la tua fermezza.
B.: E’ difficile prevedere gli sviluppi futuri, e i possibili svolgimenti.
A.: Quali che siano, tu l’affronterai e li supererai se la tua coscienza è pura!
B.: Le opposizioni traggono profitto dalla sobillazione delle masse da parte
della stampa asservita: si vuol fare di me una cosa diversa dal regime. Per il
momento hanno un successo scandalistico, ma finirà! »
[“Potevano almeno pisciare sulla targa”.
Nella denigrazione di Mussolini con l’intento, mal riuscito di attestarlo
quale mandate dell’omicidio, è stata fatta girare anche la storia di un
Mussolini che venuto a sapere che i rapitori erano stati identificati
grazie al numero della targa., ebbe a sbottare: “Bastava che ci
pisciassero sopra per nasconderla”.
A nostro avviso si tratta di una delle tante invenzioni uscite fuori dai
soliti “memoriali” o testimonianze d’accatto. Ma anche qui è bene
precisare che seppure fosse veritiera, a parte il cinismo che la
caratterizza, questa esternazione non dimostra affatto la
responsabilità di Mussolini, ma tutto al più l’affermazione di un uomo
infuriato, a cui personaggi che sono al suo entourage riconducibili
(Dumini & Co), nella realizzazione del loro crimine, da chi sia
commissionato, che ha inguaiato seriamente il regime, sono stati,
oltretutto talmente deficienti, a non aver provveduto ad occultare il
numero della targa. Tutto qui
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I primi arresti e le prime dimissioni

12 giugno giovedì notte
Quel giovedì 12 giugno, verso le 23, viene
arrestato alla stazione Termini di Roma proprio
Amerigo Dumini (foto a lato) che stava per
imbarcarsi sul treno, sembra quello diretto a
Milano delle 23,45. Ha con se una pistola carica,
una macchina da scrivere portatile (particolare
che lascia a pensare), una valigia ed una borsa.
Entro un ora circa arrivano due membri della
Milizia fascista, Vincenzo Sacco capo di stato
maggiore della MVSN e Augusto Agostini che
porta le stellette da generale.
Parlano con il Dumini per un quarto d'ora e
sembra che questi chieda espressamente di
vedere il generale Emilio De Bono.
All'una di notte, infatti, il De Bono arriverà all'ufficio di polizia di Roma Termini.
Voci dicono che il giorno precedente il Dumini lo aveva incontrato al Viminale e
gli aveva consegnato alcuni oggetti, dicesi la giacca di Matteotti, altri dicono
anche la borsa di Matteotti, ma sono tutte voci. Più che una voce, invece, è una
registrazione telefonica di una conversazione tra il De Bono con il questore di
Roma, Bertini, dalla quale si evince che il De Bono prese “qualcosa” (forse dei
documenti che poi Pavolini gli requisì nel 1943 e consegnò a Mussolini, che
molti hanno però messo in dubbio?).
Quella notte Dumini e il De Bono parlano per circa cinque minuti e in seguito il
Dumini, a questo proposito, sarà reticente e contraddittorio.
Il 23 luglio 1924 metterà a verbale al giudice istruttore Del Giudice, che il De
Bono quella notte gli disse: «Se ella sa qualche cosa, neghi, neghi, neghi. Io
voglio salvare il Fascismo». Poi invece, in seguito, cambiò versione, tacque sul
resto e consentì a De Bono di essere assolto dall'Alta Corte del Senato.
E' comunque molto probabile che il Dumini intese fare pressioni sul De Bono,
affinché in qualche modo lo traessero da quella situazione.
Nel frattempo arrivano all'ufficio di polizia anche i bagagli del Dumini, sembra
su iniziativa di Vincenzo Sacco, ma in seguito alle proteste del commissario di
Termini Michele lanfanti, vengono fatti riportare dal De Bono stesso al
commissariato. Quando vengono aperti si trovano effetti personali, pallottole
per rivoltella e alcuni biglietti di cui uno firmato da Kurt Suckert (Curzio
Malaparte) il quale chiedeva a Dumini dove fosse finito. In un altra borsa di
cuoio si trovano altri effetti, una copia dell’Avanti!, un paio di pezze di stoffa
grigia per automobile, un pezzo di tappetino da auto tagliato e macchiato di
sangue, un paio di pantaloni grigi tutti tagliati, sporchi di erba e forse di sangue.
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[Altra perplessità: Dumini era un uomo accorto e intelligente, sembra
che tempo prima aveva girato al padre degli effetti post datati da
incassare forse, chissà, perché poteva prevedere di fuggire all’estero
o finire in galera. Ebbene adesso, quasi preso dal panico, fugge
goffamente e si fa prendere come un principiante, eppure avrebbe
dovuto godere di alte protezioni o no?]
Allo stesso tempo per gli altri "amici" della Ceka, fuggiti verso Milano, erano
stati spiccati dei mandati di cattura.
C'è da dire che nonostante l'operato di De Bono,20 direttore generale di PS, nei
giorni precedenti il rapimento non fosse stato proprio limpido e altrettanto poco
limpido lo sarà nelle ore successive, questi in ogni caso si diede subito da fare
nell'attivare le indagini nelle direzioni giuste, come indicatogli da Mussolini, o
comunque non le intralciò, pur cercando, in qualche modo, di incanalarle verso
una conclusione non pericolosa per il fascismo ed il governo ed ovviamente lui
stesso.
Un atteggiamento questo di chi vuol impedire che il coperchio della pentola in
ebollizione salti per aria, ma non di chi ha direttamente organizzato il delitto.
E’ pur vero che se vennero date delle direttive per arrestare i responsabili, allo
stesso tempo, essendo ben consci che ''quei responsabili" erano personaggi
frequentatori del Viminale e non estranei al PNF, si cercò in "qualche modo" di
proteggere il partito, il governo e Mussolini (del resto estraneo al delitto).
Così come, al processo che si terrà a Chieti nel 1926, tutta la vicenda verrà
addomesticata verso un dibattimento ed un esito che non potesse dare fastidi al
Regime fascista. Per l’occasione Roberto Farinacci assumerà la difesa degli
imputati e trasformò l’udienza in un processo politico all’antifascismo.
Ne fece così le spese la verità e se ne avvantaggiarono gli imputati, tra l'altro
identificati nei soli manovali del crimine, che ebbero pene moderate.
Sono fatti questi, certamente non edificanti, che non dovrebbero accadere, ma
che fanno parte delle vicende storiche e dei rapporti di forza che, in certe
epoche, si instaurano tra il potere, le forze politiche, e tutto il resto della società.
Considerando quindi il comportamento del De Bono, è chiaro che le sue furono
delle manipolazioni senz'altro gravi, ma che non attestano necessariamente una
sua partecipazione al delitto perché crediamo che, in questo caso, ancor più
fraudolentemente avrebbe agito il generale per insabbiare le indagini.
13 giugno venerdì
Nel frattempo però Mussolini è nella bufera. Il 13 giugno pomeriggio,
parlando alla Camera, annuncia che il governo è deciso a ''puntare i piedi”.
Ma tra il dire e il fare c'è un abisso. Il prestigio del Duce era rimasto seriamente
incrinato da questo sequestro che aveva scosso l'opinione pubblica e nella stessa
maggioranza di governo si era prodotto un forte sbandamento (lo ammetterà lo
stesso Mussolini il 7 agosto al Consiglio nazionale del PNF).
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"I morti si scontano", disse in quei momenti Antonio Salandra, ma anche nel
partito e nella MVSN si registrarono sbandamenti, tanto che in molte città le
mobilitazioni della Legione fecero registrare un altissimo numero di "assenti".
Facciamo un passo indietro e torniamo alle prime indagini le quali, comunque,
procedettero a gran ritmo e si appurò che il Dumini aveva preso l'auto al garage
Trevi, dietro richiesta dell'avvocato Filippo Filippelli ed inoltre che lo stesso
Dumini risultava come "Ispettore viaggiante" alle dipendenze del Corriere
Italiano, con lo stipendio di 1.500 lire mensili, tessera per viaggiare e vari
rimborsi (sembra che anche Aldo Putato aveva questo tipo di inquadramento).
Si era arrivati al direttore del giornale, l'avvocato Filippo Filippelli.
La sera del venerdì 13 giugno Filippelli viene interrogato da De Bono e per il
giorno dopo è in agenda un secondo interrogatorio, ma come abbiamo visto il
Filippelli è oramai incastrato.
14 giugno sabato
All'alba di sabato 14 giugno, la polizia milanese arrestava il ragionier Aldo
Putato altro elemento della Ceka.
A Firenze, invece, viene arrestato l'Averardo Mazzoli che pur se ne era tornato in
città senza partecipare al rapimento.
La mattina del 14 giugno Filippelli è a casa di Cesare Rossi che gli dice che deve
incontrare Mussolini. Più tardi però il Rossi informò il Filippelli che le notizie
erano cattive e che anzi aveva ricevuto dal Duce l’invito a dimettersi.
Mussolini gli aveva poi confermato che le sue dimissioni da Capo dell’ufficio
Stampa erano inderogabili “perché troppe voci oramai correvano sui rapporti
tra lui e Dumini”. Deciso in un primo momento, a rifiutare le dimissioni e fuori
di sè, si convinse poi a farlo e si recò al Viminale.
Alle 17 il Rossi, assieme al Carlo Bazzi si recò a casa di Aldo Finzi, anche lui fatto
dimissionare da Mussolini, più tardi se ne andò al ristorante con il Bazzi e poi si
dileguò. Si costituì otto giorni dopo il 22 giugno a Regina Coeli, facendo ben
presente che ha lasciato in custodia di amici un memoriale (e ti pareva!).
Come noto aveva scritto un memoriale riportando le illegalità del fascismo di cui
era a conoscenza, con bella faccia tosta visto che non solo spesso ne era
complice, ma ce ne aveva anche aggiunte del suo. Di fatto cercò di addossare, in
mancanza di altro, su di Mussolini una certa responsabilità morale per quanto
era successo. Lui pur sempre massone, affidò questo memoriale ad un certo
Attilio Susi, un deputato massone suo amico, da cui si era rifugiato, ma il genero
di questi, Alberto Virgili, altro massone, glielo sottrasse (se non fu tutta una
pantomima), ed una copia finì al capo dei massoni di Palazzo Giustiniani,
Domizio Torrigiani ed ovviamente poi sulla stampa. Il progetto di defenestrare
Mussolini procedeva a tutto spiano.
Precedentemente alle 14 del 14 giugno, era stato comunicato che Aldo Finzi si
dimetteva (su pressioni di Mussolini), con effetto immediato, da sottosegretario
agli Interni (lo sostituirà Dino Grandi) e da vice Commissario dell'Aeronautica.
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Dicesi che Mussolini avrebbe chiesto questo sacrificio al Finzi, in via transitoria,
in quanto riteneva che entro 48 ore avrebbe potuto riprendere in mano la
situazione, però il Finzi reagì scrivendo un suo memoriale, dove a quanto si sa
metteva in piazza i panni sporchi della Cecka e ed aveva fatto sapere a Luigi
Albertini, il direttore del Corriere della Sera, che sarebbe stato disposto a
pubblicarlo, ma poi ci ripenserà.
[Singolari questi Rossi e Finzi: fino al giorno prima avevano disposto della Ceka,
Rossi, direttamente, aveva spesso tenuto il Dumini al suo servizio (molti a
palazzo Chigi lo consideravano un suo segretario) e anche per qualche
intrallazzo in via privata (il Putato rivelò che alcuni giorni prima del delitto, il
Dumini, con il quale il Rossi andava spesso a cena insieme, lo aveva spedito dal
Capo dell’ufficio Stampa della presidenziale, per prendere del denaro); Finzi
invece, sia pure indirettamente, per la Ceka, ne aveva spesso disposto i
pagamenti da parte del ministero degli Interni, ed ora, finiti nell’occhio del
ciclone, non potendo accusare direttamente Mussolini di essere lui l’autore del
delitto, intendevano metterlo con le spalle al muro, per salvare le loro posizioni.
Queste dimissioni, come quelle di Rossi, erano state immediatamente pretese
da Mussolini, nel tentativo di salvare la situazione in cui si era venuto a trovare,
perché proprio a quei personaggi, da tempo chiacchierati si erano subito
appuntati, in un modo o nell'altro, diversi sospetti.
Cesare Rossi volle poi attestare che Mussolini, in pratica, aveva cercato di
salvarsi trovando in lui un capro espiatorio, ma in effetti bisogna notare che:
Finzi e Rossi erano chiacchierati per il loro giro di affari: Aldo Finzi era
l'ispiratore del Corriere Italiano di Filippelli e lo stesso Cesare Rossi, ne era
parimenti amico (sembra che condividevano un pied-a-terre in via Muzio
Clementi che serviva per diversivo con ragazze e per incontri riservati di
carattere politico affaristico) e fungeva anche da tramite per l'ispirazione
politica a quel giornale, senza contare i suoi rapporti con il Dumini ed il fatto
che teneva una contabilità per i "rimborsi" che questi percepiva.
Nel pomeriggio del 14 giugno Mussolini torna quindi al Parlamento e fornisce i
risultati di queste sbrigative indagini, affermando poi significativamente:
«Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto più di tutti di essere
addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio
nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di
diabolico poteva effettuare il delitto che oggi ci percuote e ci
strappa grida di indignazione».
Gli farà eco M. Vaussard pochi giorni dopo, in un articolo su “Le Figarò” del 28
giugno 1924:
«I peggiori nemici del fascismo avrebbero difficilmente potuto escogitare, per
screditarlo, un mezzo più efficace di quello usato dai sostenitori dichiarati del
regime, nel sopprimere, nel modo che si sa, un avversario molto meno
pericoloso per Mussolini che per certi parassiti che, da qualche tempo,
venivano sfruttando, il suo successo…».
Nel frattempo sia il Filippelli che il Pippo Naldi, da lui inscindibile e che gli
stava alle spalle, capirono che si sarebbe sicuramente risaliti a loro, come
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implicati nel caso, e pensarono bene di filarsela. Con una valigetta piena di
biglietti da mille e un falso passaporto datogli dal Naldi, il Filippelli cercò di
squagliarsi in treno verso il Nord e così fece il Naldi stesso, inseguiti da un
ordine di arresto sollecitato espressamente da Mussolini.
Quel sabato 14 giugno Mussolini riceve Velia Titta, la moglie di Matteotti.
E’ un colloquio in una atmosfera drammatica. La signora chiede notizie e nel
caso la salma del marito. Mussolini non può che tergiversare, le dice che ancora
non si hanno notizie certe, di essere fiduciosa che stanno facendo tutto il
possibile per arrestare i colpevoli. Sia come sia non sarà questo il solo colloquio
tra la vedova Matteotti e Mussolini e alla signora gli rimarrà la convinzione che
Mussolini è innocente della morte del marito.
A Leandro Arpinati, venuto a trovarlo ai primi di luglio, che gli chiede a
bruciapelo: “Lo hai fatto ammazzare tu?” “No”. Allora cosa c’entri tu?!
Punisci i colpevoli e non ci pensare”.
E Mussolini racconta al ras bolognese, che Velia, la moglie di Matteotti, quasi
ogni sera passa a palazzo Chigi per chiedergli notizie del marito. “Le prime volte
l’ho ricevuta, adesso non ne ho più il coraggio”
13 - 19 giugno
In questo lasso di tempo si hanno diversi arresti. Filippelli venne arrestato
il 16 giugno a Genova, mentre con un motoscafo cercava di raggiungere la
Francia. Il suo giornale, il Corriere Italiano, cesserà le pubblicazioni il 19
giugno. Anche Filippo Naldi sarà arrestato (perché accusato di favoreggiamento
verso il Filippelli a cui ha anche procurato un passaporto falso), ma ad ottobre
verrà rimesso in libertà.
[Il Filippelli una volta trovatosi nei guai sarà il primo che inaugurerà la
stagione dei “memoriali”. Ognuno di questi soggetti infatti si
premunirà di far sapere la sua “verità”: che era ignaro di tutto, ecc., e
cercherà di addossare le responsabilità su gli altri e su Mussolini. Ma
sempre per sentito dire, perchè nessuno potrà dire di sapere, in via
diretta, che è stato Mussolini a organizzare il rapimento. Alcuni
diranno, che il tale gli ha detto che Mussolini era informato, e via di
questo passo. Nello specifico il Filippelli scriverà che Cesare Rossi,
che lui vide la mattina dopo il rapimento, mercoledì 11, gli disse che
Mussolini sapeva tutto, e che lui e Marinelli avevano dato ordini in
seguito ad accordi con Mussolini. Insomma un minestrone di
sciocchezze che poco si accordano con quanto disse e fece il Rossi
la mattina dell’11 giugno, laddove incontrò Mussolini e sebbene
precedentemente informato dal Fasciolo del delitto, non gli disse
nulla giustificandosi poi che era stato preso da una certa abulia]
Albino Volpi fermato a Milano il pomeriggio di venerdì 13, spalleggiato da
sodali presenti, chiese di essere portato a colloquio con il segretario del fascio
Mario Giampaoli nella sede del fascio milanese. Qui giunti, aiutato da vari
presenti, riuscì a fuggire in qualche modo.
53
La mattina del 14 De Bono, che rischiava di essere accusato di inefficienza per il
mancato arresto degli altri sicari fuggiti da Roma, telegrafò al questore di
Milano, ricordandogli che l'arresto di Albino Volpi (che era riuscito a fuggire):
«era un impegno di onore per quella questura e doveva eseguirsi ad ogni
costo, mentre gli agenti che se lo erano fatti sfuggire dovevano essere
allontanati da Milano».
Il Volpi verrà comunque arrestato a Bellabio il 18 giugno e lo stesso giorno De
Bono ordinava lo scioglimento dell’Associazione Arditi di Milano (fondata, tra
gli altri, da Albino Volpi).
[E’ interessante una considerazione di Carlo Silvestri, secondo il
quale, forse più che Dumini, fu proprio il Volpi, intimo con Marinelli, a
ricevere da quest’ultimo, un ordine omicida]
Non potendo fuggire all’estero con le frontiere sotto controllo, il Thierschald
dopo essersi arrangiato in qualche modo in quel di Milano, tagliatosi capelli,
barba e baffi, il martedì 17 si recò a Busto Arsizio da un amico. Raccontò di
essere implicato nel rapimento di Matteotti e chiese di parlare con qualcuno del
partito comunista. Dalla CGdL di Milano vennero un paio di dirigenti, che dopo
aver parlato con il Thierschald avvisarono la polizia che lo arresterà il giorno 18.
Il giorno dopo la questura di Milano informerà che il Thierschald ha inviato due
plichi in Austria a Graz.
Anche Amleto Poveromo, dopo che il 13 era riuscito ad allontanarsi da casa
dell’amante in Milano, sarà arrestato il 19 giugno.
Viola venne arrestato il 24 giugno.
Come accennato Malacria riuscì a fuggire in Francia a Marsiglia, ma è subito
rispedito indietro con l'estradizione e così solo il Panzeri riesce a sfuggire
all’arresto e rendersi latitante in Francia.
Tutti però negheranno ogni circostanza, rilasciando dichiarazioni ridicole, il
solo Aldo Putato, che non aveva viaggiato sulla Lancia con gli altri, a luglio farà
qualche ammissione che incastra Poveromo e Dumini.
Più avanti, cambieranno registro e faranno ammissioni di colpevolezza, ma
trincerandosi dietro la involontarietà, preterintenzionalità e occasionalità
dell'atto omicida.
Il 16 giugno ‘24 Emilio De Bono lascerà la carica di capo della polizia a
Francesco Crispo-Moncada e perderà anche i gradi nella Milizia.
[Gli autori del delitto sono presi mentre stanno scappando da tutte le
parti. Anche altri più o meno implicati sono presi dal panico. Ergo tutti
sanno che non possono essere coperti e finiranno in galera, che la
loro azione ha conseguenze gravissime sul governo. Quindi chi ha
architettato il crimine ben sapeva tutto questo e avrà detto agli
esecutori che se le cose andavano male, non potevano essere protetti
e si arrangiassero. Ma allora come si spiega la loro faciloneria
nell’eseguire un rapimento in pieno giorno? Ed infine Mussolini come
potrebbe ordinare un azione del genere conscio delle conseguenze e
poi non saper più cosa fare, se non misconoscere tutti?]
54
Mussolini nella bufera

Nonostante le accorate parole del Duce, al
Parlamento prese immediatamente corpo una
veemente reazione antifascista, con giustificati
motivi di carattere emotivo da parte degli amici
e compagni di Matteotti, ma che si configurò
subito con forti risvolti di speculazione politica
contro Mussolini.
[Si faccia attenzione: anche una spedizione
punitiva che restituisse un Matteotti
bastonato e derubato, avrebbe avuto
conseguenze devastanti per il governo e
Mussolini. Il 1924 non era il 1921 /’22 e la gente si aspettava una normalizzazione dell’ordine pubblico. Questo per dire che Mussolini non poteva essere tanto stupido da progettare questo delitto]
Non tanto i mandanti che avevano altri fini, ma chi aveva organizzato il
rapimento, comprese che tutte le cose non erano andate come previsto e la poca
accortezza e destrezza dei sicari ne aveva compromesso la sua segretezza e
quindi si prospettava la minaccia che con gli arresti venissero a galla, quanto
meno, certi ambienti intermedi che vi avevano avuto un qualche ruolo.
Chi di dovere, comunque, attivò tutti i mezzi necessari, attraverso la stampa, per
far cadere Mussolini, intento che tra l’altro già rientrava nei fini del delitto.
All'epoca in Italia si contavano più di un centinaio di testate giornalistiche, di
cui 33 erano nate dopo il 1919 e queste ultime erano, oltre ovviamente al Popolo
d'Italia, in prevalenza vicine al fascismo.
Ma, eccezion fatta per gli organi di partito delle opposizioni, che era dato per
scontato sparassero a zero sul fascismo e su Mussolini, è sintomatico che, come
se rispondesse ad un segnale prestabilito, la media e grande stampa, quella
"storica" dal Corriere della Sera, al Resto del Carlino, alla Stampa, al
Messaggero, alla Giustizia, al Mattino, il Lavoro, Il Mondo, Il Giornale d'Italia,
ecc., si unì al coro unanime contro Mussolini.
[A nostro avviso, una convergenza di intenti, sia pure di diversa
gradualità, ma di certo non casuale e che solo i circoli massonici, da
sempre attivi nella stampa, potevano determinare]
Sempre il 14 giugno infine Aldo Oviglio, Luigi Federzoni, Alberto De Stefani e
Giovanni Gentile, elementi fascisti moderati, misero a disposizione i loro
portafogli con tanto di lettera a Mussolini. La lettera fu presentata a Mussolini
da Oviglio stesso, con una implicito invito alle dimissioni generali del governo.
Mussolini rilevò che un rimpasto sarebbe stato inconcludente, mentre un
allargamento della maggioranza sarebbe stato inutile e impossibile.
55
Poi dopo aver informato Oviglio che egli aveva provocato le dimissioni di Finzi e
Rossi, improvvisamente affermò:
«Andare fino infondo? Sta bene. Ma fino a chi? Fino a Mussolini? Questo no!
La mia testa pesa. Ho trecentomila baionette dietro di me. Una tegola ci è
caduta sul capo e del resto tutti i governi rivoluzionari hanno subito episodi
come questo. Ciò che conta è restar calmi al nostro posto, senza cedere al
gioco degli oppositori, che consiste nel tentare dì logorare le posizioni
periferiche per isolare e poi colpire meglio il bersaglio maggiore».
Chi vide Mussolini tra il 14 e il 15 giugno lo trovò profondamente abbattuto e al
tempo stesso irato, impressionato dal vuoto che gli si era creato attorno (forse,
scrisse Renzo De Felice, dovette addirittura balenargli il fantasma dell'Alta
Corte davanti alla quale i suoi avversari volevano trascinarlo).
“Abbiamo barcollato", dirà più tardi a Giovanni Giuriati.
Con altri imprecò: «Assassini, hanno rovinato me, e il governo fascista!».
Un anno dopo Mussolini, pur passata la bufera, nel suo quarantaduesimo
compleanno disse alla moglie "Mi sembra di essere giovanissimo e vecchissimo
al tempo stesso ".
Quinto Navarra, l'usciere di palazzo Chigi, racconta come Mussolini in quei
giorni se ne stava chiuso nel Salone delle Vittorie, pallido e schiumante di
rabbia, in attesa della catastrofe. Scrisse eloquentemente:
«Le sale luminose, che fino a pochi giorni prima avevano brulicato
dì gente indaffarata e ossequiosa, si andavano vuotando sempre
più. Finche una mattina l'anticamera rimase letteralmente
vuota»
.21
Clara Petacci ebbe a dire ad Edda Mussolini, nel corso di un drammatico sfogo:
“Sono stata colei che nei momenti più tristi gli sono vicino mentre tutti lo
abbandonavano. Ricordo che, parlandomi dell’episodio Matteotti, egli mi
diceva che era rimasto solo in quell’occasione; perfino la moglie lo aveva
abbandonato, scappando da Roma!”.22
Tutto si può pensare, ma non era di certo, questo di Mussolini, il
tipico cinico, lucido e determinato atteggiamento di un assassino!
Sia il Duce che le opposizioni si chiesero con ansia cosa avrebbe fatto il Re al suo
ritorno dalla Spagna e dall'Inghilterra (previsto per il 16 giugno pomeriggio)
dove si era recato in visita. Ma Vittorio Emanuele III non fece niente.
In effetti, come osservò lo storico Renzo De Felice:
«Nei giorni successivi la posizione di Mussolini e del fascismo si fece
difficilissima: pezzo a pezzo, tutta la costruzione edificata in oltre un anno e
mezzo cominciò a sgretolarsi e minacciare di crollare
(proprio quello che
avevano previsto e intendevano conseguire i mandanti del delitto, N.d.A.).
La notizia della scomparsa di Matteotti (passati i primissimi giorni fu chiaro
che era stato ucciso), suscitò nel paese una enorme impressione e una
reazione vastissima pressoché unanime. Fosse o no, Mussolini il responsabile
diretto, per tutti era evidente che il crimine era nato dal fascismo e che i suoi
mandanti si trovavano nell'entourage di Mussolini (...).
56
Ogni nuova rivelazione, ogni nuova dichiarazione, ogni nuova notizia di ciò
che avveniva nel fascismo e nel governo, di come procedeva l'inchiesta faceva
salire di un grado la tensione. Ora erano le dimissioni dì Finzi e di Rossi, ora
la fuga e l'arresto di Filippelli, ora la notizia che D'Annunzio aveva parlato di
'fetida ruina ".
Da un lato si attendeva, da un momento all'altro la caduta del governo, si
parlava di un ritorno al potere di Giolitti o di un governo militare, da un altro
si diffondevano però anche l'incertezza e il timore di ciò che avrebbero potuto
fare i fascisti (...)
...Indice eloquente di questa situazione era la Borsa, il 16 giugno fu un
"mercato di vero panico"...
Solo dopo i due discorsi di Mussolini del 24 e 25 giugno e soprattutto dopo le
dichiarazioni sulla situazione finanziaria sopraggiunse un pò di calma (...).
La maggioranza del paese era soprattutto desiderosa di calma, di tranquillità,
di sicurezza, dì onestà e di lavoro. Il fascismo l'aveva tradita, aveva tradito
queste sue aspirazioni. (...)
La maggioranza eletta nel "listone" (il blocco elettorale di alcuni partiti, che con
il Pnf avevano vinto le elezioni di aprile, n.d.r.) era eterogenea e sbandata.
Un terzo buono di essa non era fascista; degli altri due terzi molti erano
moderati, dei fascisti d'accatto, degli ex liberali e nazionalisti facilmente
influenzabili, specialmente se la Corona si fosse sentita libera di intervenire
senza mettere a repentaglio l'ordine costituzionale e la propria posizione»
.23
[Qualcuno sostiene che Mussolini pur conscio della gravità e
conseguenze della sparizione di Matteotti, forse riteneva che se non si
fossero scoperti gli esecutori, che al fascismo e a lui risalivano, tutta
la faccenda sarebbe stata controllabile per il governo, magari
mettendola nel clima di violenze tra opposte fazioni. Ma se così fosse,
perché non far utilizzare sicari non attigui al governo?
Ma in ogni caso le conseguenze del rapimento del segretario
socialista, sarebbero state ugualmente gravi e tutti gli occhi, in Italia e
all’estero, si sarebbero puntati verso Mussolini. Ogni politica di
approccio verso i socialisti sarebbe definitivamente tramontata. E
questo il Duce non poteva non prevederlo]
A proposito di “fetida ruina”, sorprende che durante il suo periodo di carcere a
Regina Coeli, il Dumini sia fatto oggetto dell’interessamento, affinchè non gli
manchi nulla da parte di Gabriele D’Annunzio. C’è chi ha sospettato un certo
ruolo che era stato “preparato” dai vari Bazzi, Rocca, Vagliasindi e compagnia
bella per D’Annunzio, al fine di sostituire lo scomodo Mussolini.
Nel frattempo, il 14 giugno del ‘24 era iniziata l'Istruttoria formale del
Consigliere Istruttore dottor A. Grossi. Il 17 giugno viene avocata dalla Sezione
di Accusa, che conferì le funzioni di istruttore al presidente della sezione dottor
Mauro Del Giudice.
II 18 giugno viene arrestato il segretario amministrativo del PNF Giovanni
Marinelli e il Popolo d'Italia ne diede la notizia il giorno dopo in prima pagina.
57
Come abbiamo visto, con lui, quel giorno, erano stati arrestati anche Poveromo
e Volpi.
E' anche interessante leggere stralci di una minacciosa lettera che ricevette Aldo
Finzi (il quale, dopo aver fatto fuoco e fiamme, scritto una lettera memoriale,
con i soliti panni sporchi sulla Ceka e contro il Duce e fattala leggere a varie
persone compreso Carlo Silvestri, fermò poi tutto) dal suo amico banchiere e
correligionario Giorgio Schiff Giorgini.
Lo Schiff Giorgini con questa lettera datata 21 giugno 1924 ebbe a scrivere all'ex
sottosegretario finito in disgrazia:
«Caro Aldo, con profondo dolore ho assistito al tuo lento irreparabile suicidio
(...). Sembrò che tu volessi darmi ascolto e col tuo consenso assunsi io stesso
responsabilità non lievi. Non so in virtù di quale tenebroso mercato (non
voglio supporre che sia stato per paura) tu abbandonasti la strada che ti eri
prefisso.
L'ultima frase della tua lettera al presidente della Camera mi dimostra che tu,
pur tutte le verità conoscendo, hai piegato la testa ai voleri del tuo Duce e della
masnada di nuovo fai parte».
Sembra chiaro che lo Schiff Giorgini (questi risulterà possessore di ottomila
azioni della Società per i bagni dì mare e di una buona quota della proprietà
del casinò di Montecarlo) si lamenti con il Finzi perché questi, forse per salvare
la sua persona, non ha mantenuto certi impegni ed è ragionevole supporre che
la reprimenda fosse per i mancati attacchi a Mussolini con i quali il Finzi
doveva forse insinuare che l'ordine di uccidere Matteotti veniva dal Duce.
Si teme anche che ora il Finzi possa fare delle rivelazioni e quindi:
«Ti avverto, perché tu sappia e perché i tuoi sappiano, che seguendo l'esempio
che tu stesso mi hai dato, ho scritto in tre lettere uguali tutta la storia vera di
quanto in questi giorni è accaduto. Queste lettere sono nelle mani di tre fedeli
amici e verranno aperte qualora a me dovesse qualche cosa accadere»
.
Essendo il Giorgini un banchiere e il Finzi, interno a molti traffici di Finanza,
sarebbe stato veramente interessante conoscere il perché tra questi due amici
israeliti, il primo si lamenta del comportamento del Finzi e poi lo minaccia
palesemente.
[Questa lettera dello Shiff Giorgini ha una certa importanza per
considerare il contesto politico che ha determinato il delitto Matteotti.
Essa dimostra, infatti, che ambienti della finanza, agganciati alla
Commerciale, si lamentano che personaggi come il Finzi, su cui
hanno evidentemente contato, non vogliono rischiare e si tirano
indietro dalla volontà di affossare Mussolini]
A luglio espatrierà in Francia Carlo Bazzi, il maneggione direttore del Nuovo
Paese, altro giornale che dietro tematiche politiche nascondeva interessi
finanziari di vario genere e gravitanti nell’ottica massonica e con facciata para
fascista, di fatto è il gemello del Corriere Italiano. Fa parte di tutti quegli
ambienti massonici e finanziari che hanno deciso di defenestrare Mussolini.
58
Il ritrovamento del cadavere


Finalmente, dopo che il 12 agosto 1924 un cantoniere al lavoro presso il
18° chilometro della Via Flaminia aveva trovato in un tombino, la giacca sporca
di sangue di Giacomo Matteotti (il cui stato di conservazione fece però sorgere
dei dubbi sul fatto che possa essere stata per ben due mesi in quel posto),
quattro giorni dopo venne rinvenuto anche il corpo del deputato socialista.
Il corpo di Matteotti viene scoperto il 16 agosto del 1924 nel bosco vicino, in
località la "Quartarella", grazie al cane di un carabiniere che era andato a caccia,
tale Ovidio Caratelli, brigadiere a cavallo in servizio ad Orte, ma da un paio di
settimane in licenza a Riano nella tenuta Boncompagni dove il padre lavora
come fattore.
Il ritrovamento da parte del Caratelli è apparso strano, si disse in seguito, che lo
stesso, interessato alle ricompense (promesse per chi avesse dato informazioni
atte a ritrovare il cadavere), dopo aver saputo del rinvenimento della giacca
aveva pensato di fare personalmente delle ricerche nelle località adiacenti
sospettando che da quelle parti poteva essere stato sotterrato Matteotti.
Lo storico Mauro Canali, estremamente interessato a dimostrare che il Caratelli
fu in realtà uno “strumento” del capitano dei carabinieri Domenico Pallavicini,
uomo vicino a Casa Savoia ed esecutore di direttive emanate da Mussolini, ha
elaborato un suo teorema in proposito. A suo dire, il fatto che il Pallavicini si
era contraddetto davanti al giudice istruttore, circa la data del ritrovamento
della giacca di Matteotti e un suo spostamento, era la prova di una messa in
scena sul ritrovamento del cadavere e quindi di un collegamento tra il Re e
Mussolini, entrambi interessati a pilotare il ritrovamento del corpo.
Ma era questa una contraddizione solo apparente, generata da un errore di
trascrizione di data come poi, dopo il 1997, si è appurato, quando si sono avuti
disponibili gli atti ufficiali e originali dell’interrogatorio del Pallavicini.
[Teoricamente potremmo anche considerare che nei giorni successivi
al loro arresto, qualche componente della Ceka, abbia confidato a “chi
59
di dovere” dove si trovava il corpo di Matteotti e quindi ammettere che
Mussolini ne era al corrente da prima del ritrovamento. Ma se pure
così fosse, e rimarchiamo il “se”, Mussolini per evitare disastri al
governo, per non far affossare il fascismo e tutti gli anni rivoluzionari,
con tanto di morti, spesi per conquistare il potere abbia taciuto certe
situazioni e pilotato il ritrovamento, questo non è detto che sia in
relazione al fatto che egli fosse anche il mandante dell’omicidio]
In ogni caso, da quello che si poteva riscontrare il corpo era stato sotterrato in
una fossa non molto profonda, di forma ovaloide. Viste le dimensioni della fossa
e la posizione del cadavere si deduceva che per potercelo mettere, si era dovuto
forzare, senza un minimo di pietà umana, con violenza l'introduzione degli arti
inferiori. La fossa sembrava scavata con una lima che venne ritrovata in
macchina o forse accanto alla fossa, sporca di terriccio e di sangue (si escluse
però che poteva essere stata l’arma che aveva ucciso la vittima) e il cadavere era
ricoperto grossolanamente con foglie e terriccio.
Alcune ossa, quali un femore, un omero e le tre ossa del bacino di destra, erano
lì accanto, segno di spostamenti probabilmente causati da animali e da
smottamenti naturali del terreno. I resti così insaccati nella buca ovoidale
risultavano in parte scheletriti ed in parte mummificati.
L'identificazione del cadavere, che era stato denudato, avvenne per tutta una
serie di piccoli indizi e per il riconoscimento di un lavoro odontoiatrico fatto dal
professor Vincenzo Duca.
In ogni caso, dopo oltre due mesi dal delitto, il corpo era oramai in uno stato di
decomposizione tale che non fu possibile procedere ad un preciso e
approfondito accertamento necroscopico. Tutto quello che si potè stabilire era
che il Matteotti morì, in linea di ipotesi e di probabilità, per una ferita di arma
da taglio inferta, più o meno, sulla parte sinistra del torace (ferita regione
toracica antero-laterale superiore sinistra) probabilmente quando era ancora
nell'automobile. Anche un fendente alla gola che avesse tranciato la giugulare,
giustificando tutto quel sangue, era forse possibile, ma non dimostrabile.
L'epoca della morte poteva farsi risalire, attraverso varie e indirette deduzioni,
approssimativamente tra il 7 ed il 25 giugno 1924.
Di conseguenza quel poco che si poteva dedurre, a causa della mancanza degli
organi interni, era il fatto che probabilmente Matteotti era stato ammazzato,
durante una colluttazione e non come atto deliberato e scientemente preparato.
E ancor meno preparata si dimostrava tutta l’operazione di fuga e
occultamento del cadavere, confermando l’ipotesi che se Mussolini
avesse avuto necessità di far ammazzare Matteotti, non avrebbe di
certo almanaccato un pasticcio del genere, con sicari che lasciarono
tracce del loro operato e si profusero in una fuga sconclusionata, ma
avrebbe pianifico il crimine in maniera professionale e del tutto
diversa.
Per il rinvenimento della giacca, trovata in una specie di tombino, si avanzò
anche il dubbio che fosse stato pilotato, ma alcune ricerche, come quella di
Enrico Tiozzo hanno sostenuto l'inconsistenza di questa tesi. 24
60
Per rafforzare l’ipotesi di un Mussolini mandante dell’omicidio, si è anche
sostenuto che il carabiniere che ha fatto ritrovare i resti di Matteotti recitò una
scenografia già scritta, ma sono tutte illazioni non dimostrate.
La borsa dei documenti
Per la borsa ed i documenti di Matteotti scomparsi, invece, si faranno molte
ipotesi, ma non si riuscirà mai a raggiungere una sufficiente certezza su che fine
avevano fatto e neppure se Matteotti avesse o meno effettivamente una borsa
appresso oppure aveva un busta porta documenti come sembrerebbe era uso
portare documenti in una busta.
Sembra che nel portafoglio di Matteotti i sequestratori trovarono dieci lire, due
foglietti con indirizzi del partito comunista francese e di quello laburista inglese;
in un altro foglietto c'era l'indirizzo dei Gran maestro Domizio Torrigiani di
palazzo Giustiniani.
Il giornalista dell’ Unità e scrittore Giuliano Capecelatro, nel 1996 intervistò uno
dei famosi ragazzini, Amilcare Mascagna, che assistettero il 10 giugno 1924 al
rapimento di Matteotti e questo ebbe a riferirgli, attestando a 85 anni una salda
memoria, che Matteotti aveva in mano una borsa. Stabilire se aveva appresso un
borsa o meno è ovvio che incideva sulla ipotesi affaristica, relativamente
all’interesse di derubarlo dei suoi documenti. Coloro che sono interessati a
questa ipotesi hanno persino asserito che durante il rapimento la borsa o la
busta di Matteotti si aprì e molti fogli volarono in strada, tanto che alcuni
sequestratori si affrettarono a raccoglierli. Una scena fantasiosa e viene da
pensare nel frattempo che faceva Matteotti.
[Logica vorrebbe che Matteotti nel recarsi al lavoro negli uffici
parlamentari ed in vista del suo discorso del giorno dopo, molto
probabilmente doveva avere con se una borsa o una busta di
documenti. Stabilire però che documenti fossero e la loro
importanza, rispetto a quelli che si presume, ma si presume
solo perché prove non ci sono, doveva avere circa le prove su
carta di certo malaffare, è un altro discorso. Tanti asseriranno di
una borsa e di documenti scottanti, altri negheranno sia l’una
che l’altro, ma niente sarà mai provato]
Il giornale Eco di Napoli aveva pubblicato, in data 17 giugno ’24, una rivelazione
dell'ex legionario fiumano Priolo, il quale affermava che Matteotti aveva messo
insieme un poderoso dossier sulla cointeressenza di un alta personalità del
governo sull'affare bische – petroli, ma siamo sempre nel campo delle
informazioni incontrollate.
Amleto Poveromo in una testimonianza - poi sembra ritrattata - resa durante
l'istruttoria del 1947, affermò che queste carte, la notte del 10 giugno, una volta
che i sicari erano rientrati a Roma all'Hotel Dragoni, sarebbero state prese da
Dumini e consegnate, tutte o in parte, a Marinelli e/o Cesare Rossi.
Dumini scrisse e rilasciò contraddittorie dichiarazioni: che non c'era nessuna
borsa, poi che invece l'aveva bruciata, poi che l'aveva consegnata al Marinelli,
che era chiusa a chiave e non aveva potuto aprirla, ecc. Non appurato rimase
61
anche il fatto, già accennato, che la notte del 12 giugno, Emilio De Bono abbia
trovate alcune carte importanti nel bagaglio del Dumini appena arrestato.
Una "riservatissima" del 14 giugno ‘24, diretta a De Bono, affermava che l'On.
Filippo Turati era in possesso di parte dei documenti originali e parte delle
fotografie di altri che possedeva Matteotti e riguardanti affari diversi, Sinclair
(petrolio), speculazioni borsistiche, Case da gioco. Il fatto che poi non se ne è
saputo più nulla, farerebbe pensare che questi si sia lasciato "convincere" a
consegnarli o distruggerli o che anche questa informazione non era esatta.25
La storiella della morte per emottisi
Le deposizioni in merito al sequestro, rese successivamente agli inquirenti
dagli arrestati, furono contraddittorie, spesso ritrattate, insomma palesemente
inattendibili. In pratica essi affermarono che loro intenzione era solo quella di
immobilizzare il deputato e condurlo in luogo appartato per chiedergli
chiarimenti sulle sue discusse attività antifasciste, in particolare in Francia,
spaventarlo e ricondurlo a Roma.
Invece la sua imprevista reazione, li costrinse a rispondere con violenza tanto da
provocargli una emorragia per emottisi.
Quindi, secondo loro, Matteotti morirebbe per soffocamento. Sarebbe stata una
disgrazia, dicono, non un omicidio.
Qualcuno, successivamente, per calcare la mano sulla “involontarietà”
dell’omicidio, insinuerà che la copiosa fuoriuscita di sangue dalla bocca forse fu
causata da uno stato di tisi del Matteotti (il quale aveva in famiglia precedenti di
questa malattia), ma questa versione non ha riscontri e comunque anche una
pugnalata che fori il polmone poteva procurare tale tipo di emorragia.
Sia pure come ipotesi, però, la perizia sulla giacca di Matteotti,
indicava che la copiosa fuoriuscita di sangue aveva attinto la giacca
diffondendosi in punti che non si conciliavano con una emottisi,
quindi la fuoriuscita di sangue era conseguenza di una pugnalata o
qualcosa di simile. La giacca non aveva fori da pugnalate e si poteva
quindi ritenere che o venne colpito alla gola e/o quando, durante la
lotta, venne colpito, il Matteotti aveva la giacca tutta aperta.
Accortisi poi di avere un cadavere in auto, affermarono ancora i sequestratori,
persero la testa e girarono a vuoto nei dintorni di Roma per ore, senza sapere
bene che fare. Alla fine decisero di seppellirlo alla bene e meglio.
Amleto Poveromo, nelle sue dichiarazioni del 1945, alquanto dubbie e
furbescamente riduttive per lui, volle ricostruire quella giornata maledetta del
10 giugno 1924 a partire dalle 16,30 ricordando che la strada era deserta, solo
due o tre ragazzini giocavano e non badavano a quello che facevano.
Dumini era al volante e quando vide Matteotti diede l'ordine di prenderlo.
Mentre lui, Poveromo, teneva aperto lo sportello della macchina, gli altri
presero il deputato socialista che nel divincolarsi cadde battendo la testa sul
marciapiede. Quindi la fuga in auto, continuò l’ex della Ceka, e poi lui sentì che
62
aveva del sangue sulle gambe proveniente dalla nuca e dalla bocca di Matteotti.
Allora si accorsero che Matteotti era morto. Poi vagarono in auto per ore.
Tornano a Roma verso le 22,30 e Dumini che avrebbe preso la borsa o la busta
documenti di Matteotti ed anche un pezzo di pantaloni provvide a mettere la
macchina a Palazzo Chigi (semmai al Viminale, n.d.r.).
Quindi il Poveromo se ne andò a dormire, mentre il Dumini sembra che portò la
borsa a Giovanni Marinelli e/o Cesare Rossi. A proposito di Poveromo, questi a
fine guerra nel 1945 venne arrestato e di certo in quei momenti se la dovette
vedere brutta; per quel che vale fece questa deposizione:
«Una sera del 5 o 6 giugno Dumini e Volpi riunirono noi del gruppo di Milano
nella camera di Dumini che ci disse di essere stato chiamato da Cesare Rossi e
da Marinelli (…) che bisognava fare un colpo di mano perché diceva che vi era
l’on. Matteotti, che doveva fare un grosso discorso alla Camera e che quindi
era necessario impossessarsi dei documenti che aveva con sè poiché erano
abbastanza compromettenti per Mussolini e per il partito».
Tornando alla cronaca, altri resoconti sembra stabiliscano che qualcuno del
gruppetto, tornato a Roma, se ne va a spasso sotto Galleria Colonna.
E qui si innesta un particolare di relativa importanza.
Rivelazioni di Benedetto Fasciolo & Co.
Sembra infatti che il gruppetto dei sicari si era recato a casa del segretario -
stenografo di Mussolini, Arturo Benedetto Fasciolo a darsi una lavata. Il fatto
venne attestato, solo alcuni anni dopo, da una rivelazione di Giovanni Vaselli, ex
avvocato di Dumini divenuto ora vicegovernatore di Roma che lo raccontò all’ex
giudice istruttore Mauro Del Giudice. 26 Se la circostanza fosse vera,
bisognerebbe ampliare il ruolo avuto dal Fasciolo, come infatti sospetta Mauro
Canali, e capire quale fosse e chi e come lo aveva coinvolto.
Fatto sta che il Fasciolo subito dopo il delitto si dimise e quindi, consigliato da
Luigi Federzoni nuovo ministro degli interni e da Dino Grandi sostituto di Finzi
sottosegretario degli interni, si trasferì in Romania.
Agganciato in seguito da Carlo Bazzi che nel frattempo, per timore di restare
incastrato nell’istruttoria si era rifugiato in Francia, il Fasciolo venne anche lui a
stabilirsi in Francia frequentando il fuoriuscitismo antifascista ed entrando in
contatto con Giuseppe Donati, direttore del Corriere degli italiani, e tutta la
congrega di massoni fuoriusciti. In Francia, il Fasciolo aveva riferito a Cesare
Rossi di aver saputo del rapimento la sera tarda del 10 giugno, da Aldo Putato
da lui incontrato sotto Galleria Colonna. Giuseppe Donati inoltre riferì che il
Fasciolo gli aveva confidato che Dumini mercoledì 11 gli aveva portato una busta
chiusa da consegnare a Mussolini dicendogli che dentro c’era il passaporto di
Matteotti e una lettera dello stesso. Andò quindi in via Rasella (residenza
romana del Duce) e la consegnò a Mussolini, il quale vedendo la busta avrebbe
detto “Ho capito è l’affare Matteotti”. Aperta la busta e visto il passaporto,
avrebbe quindi ordinato al Fasciolo di distruggerlo.
Qualche giorno dopo però, Dino Grandi gli fece sapere che poteva essere
incriminato come favoreggiatore e complice.
63
[Se Dino Grandi avvertì il Fasciolo che poteva essere incriminato per
distruzione di documenti, allora vuol dire che il passaporto di
Matteotti, Mussolini non lo prese e rimase a lui]
Tutti racconti di riporto, maturati negli ambienti massonici e antifascisti di
Francia, che praticamente attestano una specie di favoreggiamento di Mussolini
nel delitto e che lo stesso ne era informato fin dal giorno 11 mattina e quindi poi
recitò la parte di quello che ne era ignaro.
Ma i colpi di scena non finiscono qui, perché anni dopo nel 1947 al processo di
Roma il Fasciolo diede una diversa versione. Intanto che egli fu informato, la
notte del delitto non da Putato ma da Albino Volpi che gli disse che avevano
ucciso Matteotti su disposizioni di Marinelli che li incitava facendo il nome di
Mussolini. Quindi il Volpi gli avrebbe detto di andare a riferirlo a Mussolini.
La notte il Fasciolo fu agitato e solo la mattina dell’11 andò a riferire al Duce che
gli direbbe “sta bene” e volle sapere i particolari. La mattina dopo di giovedì 12
invece arrivò a palazzo Chigi un Dumini fuori di sé, si sente spaesato e
abbandonato e gli consegna un involucro con il passaporto ed altre cose che poi
lui, quella mattina stessa di giovedì, consegnò a Mussolini che lo rimprovera
per averli presi e lui gli direbbe che questo poteva servire ad accelerare la
punizione dei colpevoli (ma guarda un po’!).
La nuova testimonianza del Fasciolo non piacque agli antifascisti, perché
rendeva meno credibili tutti i racconti. Si insinuò che era stato scambiato il
Putato con il Volpi, perché tanto il Volpi era morto e non poteva smentire. 27
Comunque sia non si comprende perché, come dice Fasciolo, il Dumini il 12
mattina fosse andato da lui fuori di sé sentendosi abbandonato, visto che quella
mattina era tranquillo e andò con Rossi e Marinelli al Palazzo di Giustizia, la
notizia che si erano scoperti i numeri di targa dell’auto, arrivò solo attorno alle
13 e solo allora sì diffuse il panico
Per capirci qualcosa, vediamo di riassumere tutte queste colorite
“dichiarazioni” rilasciate nel tempo dai vari gaglioffi.
Dunque la notte del 10 martedì, apprenderebbero del delitto il Filippo
Filippelli, informato direttamente da Dumini intorno a mezzanotte.
Quindi Benedetto Fasciolo, che la notte è stato informato da Aldo Putato,
oppure, altra versione, da Albino Volpi, incontrati dalle parti di piazza Colonna;
oppure, altra versione ancora, perché gli assassini erano andati a casa sua a
darsi una rassettata, come rivelò anni dopo il Vaselli, l’ex avvocato di Dumini.
Secondo il Fasciolo, egli passerebbe una notte agitata, ma informerebbe
Mussolini solo il mattino dopo. Non è però tanto credibile che il segretario
particolare di Mussolini apprende un evento così grave e con gravi possibili
conseguenze, e non va subito a riferirlo a Mussolini.
Come più avanti vedremo, secondo il “multicolorito” “memoriale” americano di
Dumini, invece, la sera tarda del 10 martedì lui steso va ad informare Marinelli
a casa, il quale andrebbe poi da Mussolini. E ancora poco dopo, sempre lo
stesso Dumini andrebbe a palazzo Chigi, dove s Mussolini è ancora lì, e qui
informa il Fasciolo che poi informa Mussolini (di nuovo). Quando avrebbe fatto
64
tutti questi giri, il Dumini, è un bel rebus visto che era andato al giornale dal Filippelli.
La mattina dell’11 mercoledì il Filippelli (forse) informerebbe Emilio De
Bono il quale però stranamente non fa una piega, non informa nessuno e non
dà segni di vita; mentre il Fasciolo la stessa mattina informerebbe Cesare
Rossi, il quale, ancor più stranamente vede Mussolini in mattinata e non gli
direbbe niente.
Si noti che la mattina dell’11 mercoledì non è nota la sparizione di Matteotti, non
ancora denunciata in Questura e di cui si attende un suo discorso alla Camera.
Tutte queste versioni, rilasciate nel tempo dai protagonisti, spesso modificate o
ritrattate, sono in evidente contraddizione e poco credibili, ed hanno il solo
scopo di voler mostrare un Mussolini informato dei fatti, visto che non si può
attestarlo quale diretto mandante del crimine.
Si noti che secondo le ricostruzioni dello storico Mauro Canali: Marinelli e
Rossi sarebbero i diretti organizzatori del rapimento, su ordine di Mussolini e il
Fasciolo in qualche modo ne sarebbe complice, mentre i De Bono e i Finzi, ne
sarebbero informati. Una tesi questa del resto obbligata per poter poi attestare
che costoro non potevano aver agito all’insaputa di Mussolini e Mussolini stesso
non poteva aver dato lui l’ordine omicida direttamente a Dumini. Alla luce di
tutta questa ricostruzione però, l’atteggiamento dei suddetti, la notte del 10 e l’11
giugno, sarebbe ancora più assurdo e poco credibile.
[Si faccia attenzione: anche se la verità fosse stata, ipoteticamente,
quella del Fasciolo, ovvero di aver informato Mussolini l’11 giugno a
mattina, non necessariamente starebbe ad indicare la colpevolezza
del Duce nel rapimento, ma semmai solo che egli, venutone a
conoscenza, cercò di prendere tempo e quindi poi recitò la parte di
colui che non sa nulla]
Difficile stabilire con certezza quando esattamente Mussolini seppe del
rapimento. In ogni caso l’atteggiamento di Mussolini quel mercoledì 11 alla
Camera, a meno che non fosse un grande attore, ai presenti non parve proprio
quello di uno che ha in testa un gravissimo e pericoloso evento criminale.
Concludendo qui la nostra rievocazione delle cronache delittuose, dobbiamo
osservare, la poca affidabilità di tanti elementi, le contraddizioni nelle
testimonianze, anche quelle che non abbiamo riportato per non appesantire il
testo. Praticamente tutti gli implicati, coinvolti o sfiorati da quella vicenda, o
perché partecipanti al fatto, o perché in qualche modo coinvolti o per interessi
politici o privati, cercarono, ognuno per suo conto di confezionare versioni, poi
magari cambiarle ed adattarle ai nuovi sviluppi, in modo che fossero sollevati
da accuse pesanti. Quelli poi venuti in contatto con gli ambienti antifascisti,
cerarono anche di addossare su Mussolini ogni genere di responsabilità
A nostro avviso, dalla analisi e considerazione di tutti gli elementi di cronaca,
anche quelli qui non riportati, possiamo invece ritenere che Mussolini era fuori
dalla responsabilità del delitto Matteotti.
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L‘AFFAIRE MATTEOTTI
Chiudiamo qui le cronache della vicenda Matteotti, alla bene e meglio
ricostruite. Si sarà notato come tutti questi protagonisti, come topi impazziti,
nel momento del pericolo hanno preso a girare in tondo, ma sempre nel loro
brodo di coltura, cioè tra di loro: i Filipelli & Naldi, i Bazzi & Rossi, i Finzi, &
Schiff Giorgini, i De Bono, i Marinelli, ecc., indice evidente che ne sono tutti in
qualche modo, sia pure con ruoli e responsabilità diverse, coinvolti.
Quello che poi seguì nel ‘24, con il “suicidio” delle opposizioni che si ritirarono
sull’ “Aventino” (dal nome della secessione della plebe romana), è noto.
Fatto sta che Mussolini, in qualche modo, ed anche per interesse del Re
(interesse alla stabilità del paese, forse anche personale a congelare tutta quella
esplosiva situazione), riuscì a salvarsi, ma dovette pagare il prezzo di optare per
la “dittatura” e quindi venne anche sotterrata la verità su quel delitto.
E’ pacifico che noi non potremo qui esporre una esaustiva e comprovata
inchiesta sul delitto Matteotti, ammesso che sia possibile farla, ma forniremo
alcuni dati di fatto e circostanze, alcune testimonianze, che possano far riflettere
quanti ritengono che dietro l'assassinio di Matteotti ci fosse Mussolini.
Quanto segue è il frutto di una attenta lettura di questa ignobile storia, la
valutazione di atti e inchieste giudiziarie, lo studio della letteratura in merito,
nella contestualizzazione del momento storico interessato.
Facciamo subito, però, una doverosa e necessaria premessa.
**
Depistaggi, menzogne e responsabili
Nel valutare certi comportamenti, eventuali precedenti e successive
manipolazioni e depistaggi che di certo ci furono, soprattutto quelli durante lo
svolgimento delle indagini o in vista del processo di Chieti, messe in atto da De
Bono o altri esponenti del governo (anche varie dichiarazioni di Mussolini),
occorre stabilire che questi sabotaggi non sono necessariamente da
mettere in relazione con dirette responsabilità nel delitto, ma
semmai con il voler pilotare tutte le conseguenze di questo crimine
in un modo, il meno pericoloso e dirompente possibile, per sè stessi,
per il governo e per il partito fascista.
Nelle valutazioni bisogna quindi separare queste due situazioni: interesse dei
veri responsabili del crimine o di chi può venirne travolto dalle conseguenze.
A nostro avviso, si può ipotizzare che gli organizzatori del delitto (su
commissione e ispirazione di altri) devono trovarsi tra i noti nomi che potevano
in qualche modo, magari anche indirettamente, disporre di Dumini, quindi:
Giovanni Marinelli e Cesare Rossi soprattutto, poi Aldo Finzi e sia pure
trasversalmente Emilio De Bono e Filippo Filippelli (collegato a Filippo Naldi)
tutti, chi per un verso, chi per un altro, immersi o non ignari dei traffici e delle
manovre risalenti a quel putrido ambiente affaristico finanziario (per usare le
66
parole di Mussolini), i cui “superiori” ci sono rimasti sconosciuti, e con cui,
molti di costoro, erano collusi.
Tutti personaggi che hanno lasciato molti dubbi e sospetti dietro di loro, ma
ripetiamo: non sempre certe complicità e depistaggi da loro attuati, e
le loro tante menzogne è detto che siano una prova di una loro
partecipazione all’impresa delittuosa.
E per di più sono tutti massoni e tutti in qualche modo con collusioni, moventi
o interessi vari nell’Affaire, ma chi poi fu realmente l’elemento direttamente
scatenante o organizzatore del delitto resta difficile stabilirlo, anche se in
Giovanni Marinelli, si appuntano molto più di sospetti e indizi.
Quindi ogni profilo andrebbe attentamente vagliato e valutato.
Una cosa è certa e ignobile: tutti questi personaggi, i Finzi, i Filippelli, i Rossi,
una volta scaricati da Mussolini si peritarono di scrivere il loro bel “memoriale”
cercando in ogni modo di tirare dentro Mussolini, ma non potendo dimostrare
che Mussolini era il mandante, misero in piazza tutti i panni sporchi del loro
entourage e del Pnf, di cui pur avevano fatto parte ed erano responsabili.
Questo erano in sostanza i loro memoriali: una minaccia ed un ricatto, utili solo
per l’antifascismo che li poteva utilizzare per dileggiare Mussolini e il fascismo.
Vogliamo criticare il comportamento di Mussolini, il quale preoccupato delle
sorti del suo governo ed anche della sua situazione, perché se cade il governo,
non solo finiscono nella spazzatura anni di lotte e di martiri del fascismo, ma
egli di sicuro si troverà anche sul banco degli accusati; vogliamo criticarlo per
aver ispirato dichiarazioni e iniziative che allontanassero da lui, dal governo e
dal fascismo i sospetti di essere implicati in quel delitto?
Di aver fornito dichiarazioni non corrispondenti al vero? 
Di aver ispirato o
cavalcato versioni di quel delitto
palesemente strumentali, come per
esempio che poteva essere in relazione ad
una responsabilità di Matteotti
nell’omicidio di fascisti in Francia, o di
aver avallato l’ipotesi, favorevole agli
imputati, che il delitto fu incidentale e non
voluto?
Ebbene facciamolo pure, ma tutto questo
non può essere messo in relazione con
eventuali e dirette responsabilità.
67
Uno “strano” mandante chiacchierone
Prima di entrare nel merito della nostra controinformazione
premettiamo una osservazione, laddove, spesso in queste indagini, proprio
partendo da un quasi insignificante rilievo, si ha già in mano buona parte della
soluzione. Non erano neppure passate 24 ore dalla scomparsa del deputato
socialista e nonostante che i suoi assassini venivano mano a mano arrestati, che
subito si innescò una violenta campagna di stampa, una questione morale,
contro Mussolini: la attiguità del Viminale e della Presidenza del consiglio con
gli arrestati e le frasi minacciose, esternate da Mussolini ed altri fascisti contro
Matteotti, dopo il violento discorso antifascista di questi alla Camera del 30
maggio 1924, furono ritenuti elementi sufficienti per individuare in Mussolini il
mandante (si diceva che già al termine del discorso Mussolini, adirato, abbia
esclamato «Quell’uomo lì non dovrebbe più circolare!»).
Lo storico Canali, per supportare la sua tesi di un Mussolini mandante
dell’omicidio Matteotti, riporta un riferimento di Aldo Finzi agli inquirenti
(ammesso poi che sia veritiero visto tutte le volte che il Finzi si è rivelato
mendace), dove questi disse che intorno al 2 giugno ‘24, il Rossi e il Marinelli
erano stati redarguiti severamente da Mussolini che li incalzò con frasi violente,
sollecitandone un loro maggiore impegno nello stroncare le iniziative degli
avversari politici. Ne conclude il Canali che in quella data si raggiunse
tra Mussolini e i due dirigenti della Ceka la definitiva intesa omicida
(vedi nota 14).
Ma il Canali si contraddice dimenticando che tutta la ricostruzione degli
avvenimenti, da lui spesso ricordata, attesta dal 22 maggio che Dumini e gli
altri membri della Ceka, questi chiamati a Roma dal Dumini il 20, si erano
installati all’hotel Dragoni da dove stavano preparando il rapimento.
Quindi l’uscita di Mussolini verso Rossi e Marinelli, in questo caso, avverrebbe
quando i due capi della Ceka avevano già avuto l’ordine e avevano già incaricato
il Dumini che appunto stava preparando l’impresa e quindi la supposizione di
Canali e le date ricostruite sono in contraddizione, anche se volesse intendere
che prima era solo in atto un progetto sui generis e poi il 2 giugno divenne
definitivamente esecutivo, ma la cosa non regge perchè Dumini al 2 giugno
aveva già predisposto con i suoi sodali il progetto delittuoso.
In ogni caso, resta assurdo ritenere che chi aveva in animo di
compiere quella impresa delittuosa, chiaramente premeditata, se ne
era andato in giro a profferir minacce contro la sua vittima, tanto
più un capo del governo impegnato all’esterno a portare il paese
verso la normalità!
Come accennato, sembra che a caldo, dopo il discorso di Matteotti alla Camera
del 30 maggio ’24, un Mussolini adirato invocasse la “Ceka” e come vedremo
proprio a ridosso del rapimento, anche se forse qui la datazione è incerta, lo
stesso Mussolini ad Umberto Poggi, già collaboratore di D’annunzio, addirittura
fece un altro discorso bellicoso, invitandolo persino di andare a riferirlo.
68
Il primo giugno ’24, oltretutto, il Popolo d’Italia, pubblicò un corsivo senza
firma da tutti ritenuto opera del Duce, in cui si diceva:
“Matteotti ha tenuto un discorso oltraggiosamente provocatorio che merita
una risposta più concreta dell’epiteto di canaglia urlatogli alla camera da
Giunta”.
Sono tutte reazioni istintive a caldo, istigate dal comportamento di Matteotti,
ma attestano che non possono essere frutto di un mandante di un omicidio i cui
meccanismi hanno già preso a girare.
Praticamente nel mentre impartisce gli ordini per rapire, bastonare o
addirittura uccidere Matteotti, Mussolini è tanto cretino di minacciarlo
pubblicamente sul suo giornale!
Se ne deduceva quindi che tutto il quadro d’insieme di queste accuse a
Mussolini stonavano e non reggevano, a meno che questi non fosse stato
un perfetto imbecille, che premedita di ammazzare un importante
rivale, il cui delitto avrà sicuramente reazioni eclatanti anche
all’estero, dirama gli ordini necessari e poi va in giro a profferire
minacce contro la sua imminente vittima!
Ma un'altra considerazione era evidente: possibile che Mussolini se aveva
intenzione di far assassinare Matteotti, non avrebbe pianificato
professionalmente il delitto e non disponeva di sicari non facilmente
riconducibili ai mandanti, invece di questi scagnozzi di casa al Viminale e
Palazzo Chigi facilmente identificabili?
Si intuiva pertanto che lo scenario di quel delitto era ben più complesso e
doveva rispondere a più motivazioni e interessi e quindi forse erano stati
necessari proprio quei sicari ben marchiati che portavano dritto a Mussolini.
Ed emergeva anche il particolare curioso e significativo, che tutti gli implicati
nell’affaire, fascisti e non, avevano la tessera della massoneria in tasca.28
Ebbene di fronte a questi importanti considerazioni, il Canali cosa fa?
Con incredibile noncuranza cerca di volgerle a suo vantaggio.
Dopo aver, infatti, ricostruito che nei giorni precedenti il delitto e soprattutto
dopo il discorso antifascista di Matteotti del 30 maggio, l’entourage
mussoliniano e Mussolini stesso si impegnarono molto a rendere ancor più
incandescente lo stato dei rapporti tra il fascismo e Matteotti, ne deduce che
questi sarebbero «passi lucidamente compiuti per indurre a seguito
nell’opinione pubblica l’idea di un delitto scaturito dal particolare clima
politico suscitato dal discorso di Matteotti»
(deviando così il sospetto di un delitto per affari e tangenti che riguardano
Mussolini stesso).
La deduzione del Canali, però e solo teoricamente, per alcuni personaggi
potrebbe avere valore, ma per tutti no di certo , perché si dovrebbe supporre
che l’entourage di Mussolini sia tutto complice e al corrente dell’imminente
delitto e comunque sia, almeno il capo del governo, impegnato di fronte
all’opinione pubblica a ristabilire la legalità, per suo alibi, avrebbe recitato una
parte ben diversa che quella dell’irato sobillatore contro la sua imminente vittima.
69
CAUSE, MOVENTE E MODALITA’ DEL DELITTO
Dietro l'assassinio di Matteotti ci fu un concorso di motivazioni e
interessi laddove la natura affaristica del delitto non è disgiunta da quella
politica. Affaristica perché ci fu chi si era spaventato da voci circa possibili
denunce che Matteotti voleva fare alla Camera il giorno dopo 11 giugno, in sede
di dibattito sull’esercizio provvisorio del bilancio, evidentemente temendo
conseguenze e perdita di affari, e politica perché, gli stessi ambienti e
personaggi, probabilmente con altri a loro attigui, non tolleravano più le
ingerenze e il dirigismo di Mussolini che li ostacolava negli affari e come
vedremo minacciava di dar vita ad un governo aperto ai socialisti e ai popolari
che lo avrebbe reso ancor più forte.
Si potrà quindi sempre affermare, indifferentemente, che il delitto fu di natura
affaristica oppure che fu di natura politica, intendendo però che una cosa, non
solo non escludeva l’altra, ma era a questa strettamente legata, altrimenti forse
quell’operazione non avrebbe assunto le dimensioni delittuose.
Siamo oltretutto in presenza di un delitto dove i veri mandanti e beneficiari
sono dietro le quinte, tanto che, probabilmente, forse neppure Dumini sarebbe
stato in grado di indicarli con precisione, perché costoro erano celati dietro
scatole cinesi dove, per esempio, la scatola del Viminale: Finzi e lo stesso De
Bono; quella della Presidenza: Cesare Rossi; del PNF: Giovanni Marinelli; la
scatola della lobby del Corriere Italiano, Filippelli; il potente faccendiere Naldi,
non potevano essere i principali beneficiari di un delitto del genere.
Resta anche oltremodo difficile poter dire chi agì con finalità affaristiche di
tacitare Matteotti e chi invece, praticamente per tramite massonico, con finalità
di danneggiare Mussolini.
Proprio per il fatto che il mandante di questo crimine, che nasce in un contesto
di situazioni che si sono evolute in un certo modo (non indifferente la voglia di
voler dare una lezione a Matteotti, a cui non sono estranee certe reazioni “a
caldo” del Duce), non è Mussolini, ma ambienti e personaggi potentissimi, che
sono però sfumati dietro le quinte, non c’era la necessità di un delitto
professionale, ma solo di un impresa che elimini la minaccia Matteotti e poi
metta nei guai il Duce e quindi attraverso i loro intermediari, ordinano quel
rapimento, che sostanzialmente appare come una via di mezzo tra una
spedizione punitiva; minacce e bastonature per avere informazioni dalla
vittima; ma anche la commissione di un delitto vero e proprio.
E’ pertanto inutile sforzarsi di inquadrare il tutto in una ferrea logica e
pretendere di spiegare ogni avvenimento, ogni fatto ogni contraddizione.
[Se oltretutto nel rapimento di Matteotti era anche implicito un ordine
di ammazzarlo, come è possibile che i sicari della Ceka lo vanno a
prelevare di giorno con una macchina a cui neppure nascondono il
numero della targa, targa che era stata addirittura rilevata da un
portiere del palazzo la sera precedente, insospettito del via vai che
stava facendo in zona?]
70
Senza contare poi che non si portano dietro neppure una pala per seppellirlo,
quindi, come ebbe anche ad osservare Enrico Tiozzo: mancata segretezza,
mancata rapidità di esecuzione, incertezza sull’arma adoperata per ucciderlo
(assurdamente poi in una macchina noleggiata imbrattando l’abitacolo di
sangue), operazione eseguita in pieno giorno davanti a svariati testimoni, ecc.,
tutti elementi che negano a priori che fosse in atto un classico progetto omicida
premeditato con tanto di ordine impartito da Mussolini.
Tutto quindi starebbe a indicare, compresa la perizia medico legale del
dicembre 1924 (sospetta una morte non premeditata), che era forse in vista solo
una specie di spedizione punitiva, magari una bastonatura, minacciandolo e
chiedendogli conto di eventuali documentazioni. Una spedizione punitiva
degenerata e finita male.
Ma tanti altri particolari: come le stesse gravi conseguenze del rapimento di
un deputato massimo esponente dell’opposizione antifascista, molto noto anche
all’estero, stanno ad attestare che il finale di quell’impresa doveva essere la
soppressione del parlamentare socialista, che viceversa avrebbe poi
potuto indicare i rapitori e reiterare le sue denunce, scatenando oltretutto un
putiferio, e solo per alcune contingenze (reazione della vittima) la soppressione
avvenne in quel modo affrettato e assurdo.
[I rapitori erano tutti noti alla polizia, alcuni con fisionomie particolari,
il Dumini aveva una mano invalidata con anchilosi al braccio e il
Thierschald era forse conosciuto dalla vittima; forse anche il Volpi era
conosciuto da Matteotti, E’ quindi prevedibile che un Matteotti,
lasciato libero, seppur malconcio, avrebbe potuto fornire indicazioni
tali per farli individuare. Ergo, dovevano per forza ammazzarlo]
Da queste contraddizioni non si esce, tanto che hanno praticamente
determinato due posizioni negli storici: quella della premeditazione
ed esecuzione di un ordine omicida, come Mauro Canali, e,
all’opposto, quelli che, come lo storico Arrigo Petacco,29 sono invece
convinti della preterintenzionalità del crimine, che doveva esplicarsi
solo come una spedizione punitiva, poi degenerata.
A nostro avviso è inutile cercare di dirimere con assoluta certezza questi dubbi,
affidandosi a testimonianze non verificabili, come il memoriale di Dumini o a
circostanze che invece potrebbero avere avuto risvolti imprevedibili.
Ci sono ragioni da una parte e dall’altra, e comunque: sia un rapimento con
bastonatura, e tanto più un omicidio premeditato, avrebbero ugualmente
scatenato tante e tali di quelle reazioni, anche a livello estero, che le cose non
sarebbero cambiate di molto, se non per l’interessato. Quindi il solo
comportamento malaccorto dei sicari, forse causato da un eccesso di sicurezza
nel sentirsi “protetti”, non può dirimere tutti i dubbi su come venne messa in
piedi tutta questa faccenda.
Si vorrebbe anzi, aggiungere il dubbio di cosa fecero i rapitori in ben sei ore
gironzolando per la compagna. Sei ore sono tante e molti, considerando che
71
uomini come Dumini, Volpi, Malacria non erano soggetti da perdere la calma,
hanno ipotizzato che ad un certo punto, parcheggiato il cadavere da qualche
parte qualcuno (il Dumini) sia tornato a Roma a conferire con “chi di dovere” e
prendere ordini, magari utilizzando la sospettata “seconda auto biposto”. Ma in
mancanza di riscontri è meglio soprassedere anche a quest’altro quesito.
Ma sostanzialmente, visto che per gli scopi dei mandanti (mandanti che è bene
ripeterlo sono nascosti dietro scatole cinesi), cioè tacitare Matteotti e far cadere
Mussolini, sia un ordine omicida che una spedizione punitiva, minacciando e
facendo parlare il deputato, con tanto di sequestro di eventuali documenti,
raggiungevano lo stesso risultato, entrambe le ipotesi sono possibili, anche se
noi, sia pure con il dubbio e lasciando aperte tutte le ipotesi, sospettiamo e in
questo concordiamo con il Canali, che un ordine omicida venne dato al Dumini.
A parte le possibili indicazioni che poteva fornire il Matteotti, una volta libero,
seppur malconcio, scrive giustamente il Canali:
«Non era infatti difficile immaginare che, una volta libero, il segretario del
PSU, avrebbe fatto pagar caro al governo e al fascismo l’affranto subito... Il
sequestro non prevedeva dunque soluzioni a metà».
Alcuni poi hanno avanzato una terza ipotesi, cioè che Mussolini infastidito da
Matteotti ed esasperato, così come era nel “clima” del tempo, abbia solo dato
ordine di aggredire Matteotti e dargli una lezione, ma altri però, si fa il nome del
Re e/o di ambienti speculativi, ecc., sentendosi in pericolo per le rivelazioni del
deputato socialista, si inserirono nella faccenda, approfittando della situazione,
e la trasformarono in un omicidio.
Ma Mussolini, tutto al più, potrebbe aver promosso una spedizione punitiva a
caldo, ma poi ci avrebbe sicuramente ripensato, perché anche in questo caso,
una spedizione punitiva, non era poi di molto inferiore, nelle sue gravi
conseguenze, ad un rapimento omicida, e come già ebbe a rilevare lo storico De
Felice, Mussolini era perfettamente in grado di rendersi conto, smaltita la
collera che con quel gesto si sarebbe dato la zappa sui piedi (senza contare poi
che Mussolini aveva in essere vari e discreti approcci e futuri progetti con i socialisti).
Il fatto è che questo delitto è anomalo, nasce in un particolare
contesto storico, in anni di violenze, ha scopi affaristici e politici e la
sua commissione non è diretta da mandante a esecutore, ma è
trasversale, indiretta, a scatole cinesi, e quindi non ci si preoccupò di
richiedere di agire con estrema segretezza e professionalità criminale.
Aggiungiamoci poi quanto già accennato ovvero che forse i sicari, sentendosi
protetti, ebbero un eccesso di strafottenza e sicurezza, finendo per commettere
gravi leggerezze e si comprenderà perché oggi ci sono seri problemi nel dipanare
con sufficiente certezza tutta la matassa di questo crimine.
72
LA TESI DELLO STORICO MAURO CANALI
Spentesi da tempo, le presunzioni che Matteotti era stato assassinato per
vendetta alle sue denunce circa violenze e brogli nelle elezioni dell’aprile 1924
(ridicolo che si fosse superato il 61% con i brogli!), tesi che costituì, per anni, il leit motiv dei processi, della editoria e della propaganda antifascista. alcuni
storici ripiegarono sulla ipotesi “affaristica”, di certo più concreta, trovando in Mauro Canali: “Il delitto Matteotti . Affarismo e politica nel primo governo Mussolini“– Ed. Il Mulino 2004 [copertina a lato], libro preceduto da una edizione più pregna di documenti del 1997), colui che l’ha poi piegata
alla versione che vuole Mussolini dietro quel delitto, un opera che per alcuni farebbe testo. L’autore, come la stessa presentazione del suo libro cita, pur dovendosi arrendere alla evidenza che «la prova provata, il documento,
l'ordine scritto che faccia risalire a Mussolini la responsabilità del delitto
Matteotti, non c'è e forse non ci sarà mai» ha cercato però di forzare ogni prova indiziaria per un Mussolini corrotto e mandante dell’omicidio e nel suo testo, estendendo la prova documentata di un preciso “ordine” a quella più elastica e sfumata, ma dal sottinteso equivoco di “responsabilità”, ha scritto: 
«I documenti fino ad oggi noti che chiamano apertamente in causa le responsabilità personali di Mussolini nel delitto Matteotti, sono il testamento “americano” di Dumini… il memoriale scritto da Rossi in Francia per Salvemini e le due lettere di Dumini a Finzi, una del 24 e l’altra del 28 luglio, 1924».
Ebbene, a parte che quel “chiamare direttamente in causa” è alquanto indefinito, di questi documenti citati dall’autore: il memoriale “americano” del reiterato bugiardo Dumini, chiama in causa Mussolini “per sentito dire”, perché il Marinelli, dice Dumini, che gli commissiona l’azione delittuosa, gli avrebbe detto che è voluta da Mussolini e lui riteneva, che era in relazione al fatto che negli ambienti fascisti “si dava per certo” che Matteotti avrebbe portato alla Camera un offensiva accusatoria sulla faccenda del petrolio che avrebbe coinvolto Arnaldo, il fratello del Duce. Quindi stiamo al “sentito dire”.
Il memoriale di Rossi, invece, scritto in Francia tra confratelli massoni e antifascisti vari, accusa Mussolini per “responsabilità morali” nel delitto, perché quelle azioni, quella prassi violenta del tempo l’aveva voluta il Duce, quindi per le male azioni della Ceka, ma non attestano che Mussolini abbia dato direttamente l’ordine di rapire Matteotti.
73
Le lettere di Dumini a Finzi, infine, sono opera di un soggetto in quel momento
carcerato e avvelenato in quanto si sente abbandonato, e quindi uso ad utilizzare
ogni arma ricattatoria per uscir fuori da quella scabrosa situazione.
In una, quella del 24 giugno 1924, egli fa notare che “fino a quel momento non
ha compromesso nessuno”, né del Viminale, né di Palazzo Chigi, ma era tuttavia
in possesso di documenti scottanti per il governo fascista.
Un accusa generica, che abbraccia un vasto campo di situazioni, diciamo
“illegali”, che chiamerebbero in causa De Bono e lo stesso Finzi per il Viminale e
Mussolini e Cesare Rossi per Palazzo Chigi, ma sono questioni e presunti
documenti (che poi nessuno ha visto), che non è scritto riguardino un “ordine”
omicida di Mussolini, al massimo potremmo ritornare al suo “memoriale”
nascosto in America: “Marinelli mi ha detto, ho ritenuto”, ecc.
Nell’altra lettera, invece, egli accusa De Bono il quale, rivela Dumini, che nel
primo incontro, quando venne fermato la notte del 12 giugno, gli avrebbe detto:
«Se ella sà qualcosa neghi, neghi, neghi, io voglio salvare il fascismo».
Quindi al massimo potrebbe riguardare le paure di De Bono, del possibile
scandalo che potrebbe scoppiare per quella vicenda.
Il Canali poi cita un'altra lettera del settembre 1924 ove il “disperato” Dumini ,
scrive al suo avvocato Giovanni Vaselli, più o meno così: 
“ma lo vuoi capire o no che di certe azioni (praticamente si riferisce alle aggressioni ad Amendola, Forni, Misuri, casa Nitti, ecc.) noi siamo solo esecutori di ordini e che gli stessi Rossi e Marinelli non fanno altro che riceverli dall’alto?”, 
intendendo che gli ordini vengono dall’alto, dunque da Mussolini.
Anche questa, per il Canali, sarebbe una prova, ma a nostro avviso non si può
non considerare che si tratta di una supposizione generalizzata del Dumini, il
quale a conoscenza da dove venivano certi ordini si è espresso in tal modo, ma
estendere questa considerazione anche al delitto Matteotti è arbitrario, tanto è
vero che Dumini, anche nel suo “memoriale” segreto americano, scriverà che
l’ordine di rapire Matteotti gli venne da Marinelli il quale gli fece credere che
veniva da Mussolini, e lui può solo presumere da dove veniva l’ordine di
uccidere Matteotti. Tanto più che in quel delitto ci fu proprio chi approfittò di
queste situazioni, questo andazzo violento dell’epoca, gli strali di Mussolini, per
prendere autonomamente l’iniziativa omicida.
Insomma siamo in presenza di un sillogismo: siccome si ritiene che gli ordini di
certe precedenti azioni violente (tra l’altro non ordini direttamente e
specificatamente omicidi come quello per Matteotti) venivano da Mussolini,
ergo anche quello di Matteotti dovrebbe venire da Mussolini. Che grado di
scarsa credibilità abbia questo sillogismo è evidente a tutti.
In altri ambiti poi, per il Canali, ogni documento, ogni ricevuta, che si poteva
far risalire a Mussolini e riguardante finanziamenti o presunte tangenti, traffici
che in qualche modo non potevano mancare e in particolare quelli della
faccenda del petrolio, della Sinclair, ecc., hanno costituito il movente e quindi il
corpus di un vero e proprio “teorema” (ne riparleremo tra qualche capitolo).
Ma come è stato fatto notare da molti, anche il Canali non è potuto andare al di
là di evidenti forzature e congetture ed inoltre appare sinceramente stravagante
74
l’affermazione del Canali, espressa anche in Tv, a Rai Tre (programma “La
Grande Storia”), che le documentazioni in possesso di Matteotti avrebbero fatto
cadere Mussolini, tanto che, durante il rapimento, apertasi la borsa e finiti i
documenti in strada, i rapitori si preoccuparono di raccattarli (chissà, forse
pregando Matteotti, di attendere!).30
Occorre quindi ricondurre tutta questa faccenda su un piano più realistico e
concreto, mettendo da parte ogni dietrologia.
Noi proveremo a riassumere la tesi del Canali nei due prossimi capitoli dedicati
ad “Arnaldo Mussolini” e al “Petrolio”, avvertendo però che la tesi dell’autore è
molto più ampia e dettagliata rispetto alla nostra sintesi.
Nonostante la apprezzabile ricostruzione documentale dell’autore,
sostanzialmente le sue accuse a Mussolini ruotano su presunte tangenti al
fratello Arnaldo, in particolare una presunta tangente petrolifera proprio ad
Arnaldo Mussolini le cui prove però sono per lo più congetture e una pezza di
appoggio è una lettera del super bugiardo Amerigo Dumini, che dicesi
sequestrata a Mussolini a Dongo, lettera però estrapolata da una
documentazione che la conteneva e guarda caso fatta sparire.
En passant ricordiamo che il Canali cercherà anche di minare l’attendibilità
storica della moglie e i figli di Matteotti e delle testimonianze di Carlo Silvestri,
con una certa faziosità, ma non convincendo.
Sulla presunta inattendibilità della moglie e dei figli di Matteotti, parleremo più
avanti, sul Silvestri, invece, oltre a quanto noi abbiamo già detto, qui nel
“Prologo”, commenterà giustamente lo storico Alessandro De Felice (parente
del più celebre Renzo) nel suo voluminoso studio: “Il gioco delle ombre, scrive:
«Il Canali, nel suo analitico studio, dedica un intero capitolo alla figura ed al
ruolo di Carlo Silvestri cercando di offuscarne e minarne l’attendibilità storica
non sempre invano, ma la sua tesi finale, che è accompagnata da una sottile e
non sempre visibile patina di faziosità politica – per quanto ben congegnata
da un punto di vista metodologico – non ci convince affatto».
31
E noi condividiamo questa osservazione del De Felice, perché se effettivamente
nelle testimonianze di Silvestri ci sono delle incongruenze, queste non sono tali
da inficiarne tutti i racconti. A tal proposito le deduzioni che formula il Canali,
per esempio sul fatto che Mussolini se sapeva della colpevolezza del Marinelli, e
lui stesso fosse stato innocente, non lo avrebbe promosso post 1924 in vari
ambiti, è una deduzione relativa, primo: perché non è dato sapere, al tempo, che
conoscenza avesse Mussolini dei veri responsabili del misfatto (tra questi, per
esempio, ci includeva Cesare Rossi, e poi anni dopo ne chiese venia); e secondo:
dopo il gennaio 1925 e il subentrante regime, Mussolini aveva tirato un frego,
fatto chiudere in un certo edulcorato modo il processo di Chieti e quindi andava
avanti a prescindere dal quel delittuoso evento perseguendo la sua nota prassi
comportamentale verso gli uomini, come ne diamo qui qualche esempio nel
capitolo: “Perché Mussolini non andò fino in fondo”.
Comunque sia iniziamo ora a considerare proprio queste “tangenti”
ad Arnaldo Mussolini e poi le vicende petrolifere, rimandando, per
una visione più completa, al citato testo di Mauro Canali.
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Arnaldo Mussolini
Un “cavallo di battaglia” dello storico Mauro Canali è l’asserzione che il
fratello del Duce Arnaldo, definito amico di Filippo Filippelli, avrebbe intascato
tangenti per 40 miliardi di lire attuali, cifra che indicata in una intervista a
Mauro Canali al settimanale Oggi del 2000).32
Giornalisti storici, sulla scia del Canali, rievocano una tangente di 30 milioni
ventilata all’epoca dall'organo del partito Labour, il Daily Herald, che asseriva
fosse stata pagata dalla Sinclair Oil per ottenere una Concessione.33
Siamo in presenza di un “vento” scandalistico che parte da lontano, e oggi
prende forma sulla interpretazione di certi documenti o illazioni di una stampa
interessata, laddove si vorrebbe risolvere il caso Matteotti, passando da
congettura a congettura: si stabilisce che certi movimenti finanziari erano
tangenti e che riguardavano direttamente il Capo del governo, il quale venuto a
sapere che il deputato socialista ne aveva le prove e avrebbe denunciato il
malaffare, diede l’ordine di ucciderlo. Tutto risolto, elementare Watson, peccato
solo che niente di tutto questo sia veramente provato..
Singolare questo storico Canali: ignora quasi completamente gli aspetti politici
del tempo, le reazioni che si possono determinare nel mondo politico dalle
intenzioni di Mussolini di aprire ai socialisti moderati (e alla Chiesa), in
particolare tra le forze conservatrici che hanno appoggiato il fascismo e le lobby
massoniche che oramai vedono nel fascismo un pericolo alla loro esistenza;
sorvola sulle reazioni degli ambienti speculativi, soprattutto quelli della finanza,
che non sopportano più la conduzione dirigista del governo da parte del Duce;
“ignora” che c’è tutto un fermento nel fascismo, dai “revisionisti” a certi giornali
apparentemente filo fascisti e a suo supporto finanziario, ma in realtà legati a
doppio filo con l’Alta Banca, che stanno facendo un gioco sporco contro
Mussolini; liquida come fantasie le rivelazioni di Carlo Silvestri che ha potuto
consultare determinate documentazioni, guarda caso sparite (se sono fantasie
non sono mai esistite!), che scagionano Mussolini dalle responsabilità del
delitto; non considera tutti gli elementi che stanno ad indicare chiaramente che
Mussolini non può aver avuto alcun interesse ad ammazzare Matteotti, ma lui
decide che questo interesse è nella tangentopoli dell’epoca impiantata da
Mussolini e messa in pericolo dalle rivelazioni del segretario dei socialisti, e su
questa supposizione pretende di risolvere un delitto complicato, di portata
storica, con interessi di vario genere, anche internazionali e conseguenze, tra
l’altro, tutte devastanti per il governo di Mussolini.
Volendo confutare tutte queste accuse retrospettive di tangenti, interpretando a
senso unico le documentazioni reperite, e d’altra parte, contestare
concretamente le documentazioni che in proposito vengono prese, a 90 anni di
distanza da quei fatti, con Arnaldo Mussolini morto da tempo e così tutti gli altri
protagonisti coevi, quindi impossibilitati a spiegare, a difendersi, a dimostrare
che magari, quelle presunte tangenti non sono tali, ovvero che sono
finanziamenti al tempo consueti, o chissà che altro, non è che sia agevole e
neppure tanto sensato. Ci vorrebbe un vero e proprio “tribunale” con tanto di
76
accusa e difesa e perizie di parte e visto il tempo trascorso forse neppure
basterebbe. Scrive con felice osservazione Marcello Staglieno nel suo “Arnaldo e
Benito due fratelli”, Mondadori 2003:
«Benchè espertissimi nel calarsi tra bustoni e fogli del’ACS, quanto a scovarli
abilmente in archivi stranieri gli storici più giovani talvolta (quandoque
dormitat Homerus) di queste cose si dimenticano: la loro severità accademica
– come è accaduto a Canali – li fa un pò grezzi nelle analisi e nella sensibilità
percettiva dei fatti»
Detto questo, veniamo a considerare la figura di Arnaldo, per il quale facciamo
la stessa premessa che abbiamo fatto per il Duce: non crediamo
affatto, sulla base di quanto storicamente si conosce, ad una sua
attitudine ad arricchirsi con le tangenti. Proprio Arnaldo poi,
religiosissimo, il quale sosteneva la necessità di un substrato spirituale per le
questioni politiche, sociali ed economiche.
Arnaldo Mussolini (11 gennaio 1885 – 21 dicembre 1931), di due anni più
giovane di Benito, era una delle pochissime persone di cui Mussolini, da sempre
malfidato rispetto agli uomini, si fidava e apprezzava, facendone il suo uomo di
fiducia e confidente. Gli aveva affidato la carica, importante di direttore
amministrativo del Popolo d’Italia e poi, dopo la marcia su Roma, quella di
Direttore del giornale. Come direttore amministrativo, cosa da non
sottovalutare, deve preoccuparsi della sopravvivenza economica del giornale.
Si dice che fosse sensibile a farsi coinvolgere in qualche partecipazione
azionaria, dove il suo nome era appetito o in qualche affare, che poteva
nascondere intrallazzi, ma quello che si conosce della vita e della personalità di
Arnaldo non attesta che questi fosse un furfante, nè tantomeno i lasciti alla sua
morte, verso la famiglia, attestano illeciti arricchimenti, se a quanto sembra
ammontavano a 130.000 lire, una somma modesta rispetto al ruolo e alle
funzioni da lui assolte in vita.
Si parla anche di interessi sul gioco d’azzardo di cui avrebbe avuto alcune azioni,
ma sono voci e non ci sembrano comunque “traffici” di eccessiva importanza,
tali da giustificare un omicidio per non farli venire a galla.
Costituiscono, tutto al più, degli “scheletri nell’armadio” che potevano frenare
Mussolini in qualche dura polemica con avversari facenti parte di poteri forti.
Due nipoti di Arnaldo Mussolini, Anna e Pio Luigi Teodorani Fabbri, vinsero
una causa contro il settimanale l’Espresso che parlando di un libro di Denis
Mack Smith con le solite accuse non provate contro Arnaldo, in un articolo di
Gianni Corbi: Matteotti contro l’affare petrolio, del 13 giugno 1996, aveva
definito Arnaldo “spregiudicato procacciatore d’affari”. Il settimanale, tre anni
dopo, venne obbligato a pubblicare una loro precisazione e fu condannato al
pagamento delle spese.
La politica di Arnaldo Mussolini che comunque sia, da direttore amministrativo
del giornale di Mussolini, era anche preposto a reperirne i finanziamenti, non
può essere giudicata solo con la lente del malaffare e dell’interesse privato.
Sono posizioni e ruoli quelli assunti da Arnaldo che vanno interpretati con
accortezza. Tanto per fare un esempio di ordine generale: erano forse tutti lindi
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e puliti i finanziamenti che consentivano ad altri quotidiani, Corriere della Sera
ed Avanti! compresi, di sopravvivere?
Si dice che Arnaldo Mussolini ebbe un certo ruolo nella nascita del Corriere
Italiano di Filippelli, un giornale che in un primo momento evidentemente
poteva anche essere funzionale alla politica di Mussolini e poi, come sappiamo,
questo giornale, legato a svariati industriali, affaristi, banca e finanza, recitò
anche un ruolo sottilmente avverso al capo del governo.
Ebbene se Arnaldo Mussolini, con il suo prestigio intervenne affinchè il
Filippelli potesse ottenere i mezzi per la nascita del giornale e se poi questo
giornale catturava finanziamenti, una parte dei quali probabilmente veniva
girata al Popolo d’Italia, dove è il problema, quando la vita politica ed
economica della società è stata sempre regolata da queste situazioni, o si pensa
forse che, per esempio, la Fiat, la Montedison, l’Eni o chi altro, nella attuale
Repubblica democratica, elargivano ed elargiscono finanziamenti a destra e
manca, in virtù dello Spirito Santo, o che certi importanti quotidiani o
settimanali, nascevano e nascono per grazia ricevuta?
Ma guarda caso il Canali “dimentica” invece il ruolo di maneggione e
finanziatore, molto più importante, che ha avuto il Filippo Naldi, nella nascita
del Corriere Italiano, e non di certo per motivazioni politiche o ideali. .
Certo, se le presunte tangenti da 40 miliardi fossero state intascate
personalmente e per proprio interesse da Arnaldo Mussolini, la vicenda
assumerebbe aspetti tali da essere rimarcati negativamente, ma come detto, a
90 anni di distanza l’interessato non può più dimostrare come stanno le cose,
ma non sembra proprio che abbia lasciato agli eredi patrimoni tali da far
sospettare precedenti illeciti arricchimenti..
Per prima cosa che Arnaldo abbia veramente intascato queste tangenti è da
dimostrare e l‘accusa si basa più che altro su congetture formulate su delle
documentazioni d’epoca. Ma per un momento diamolo per scontato e vediamo
come potrebbero stare le cose rispetto a presunte tangenti petrolifere..
Dunque, Arnaldo intascherebbe questa grossa tangente: la prima cosa che viene
in mente sono due domande di non poco conto:
primo, come mai che poi, una volta morto Matteotti, che si sostiene forse ne
aveva le prove e voleva denunciarle, nessuno presentò più queste prove, eppure
il Matteotti da qualcuno doveva per forza averle avute, almeno che non fosse
solo una “voce”, ma allora la cosa sarebbe inconsistente, una diceria.
Secondo, sappiamo che poi tra novembre e dicembre del 1924, Mussolini fu
costretto a far cadere gli accordi e la Convenzione raggiunta dal suo governo con
la Sinclair Oil: ebbene cosa fece Arnaldo, restituì la presunta tangente?
E i petrolieri che videro saltare il loro affare, a cui tanto avevano brigato, cosa
fecero, restarono zitti e buoni? Si dice che Mussolini per compensare la Sinclair,
della rescissione del contratto, doveva sborsare 10 milioni di lire, ma siamo
sempre nel campo delle voci non dimostrate.
La Sinclair Oil, a quanto si conosce, ebbe indietro gli anticipi che aveva versato
per avviare gli accordi, ma non ottenne indietro, nonostante le insistenze, tutte
le spese che aveva sostenuto. E le eventuali tangenti furono restituite?
78
Possibile che un giro di tangenti del genere, di fatto buttato dalla finestra, finì
così in modo indolore come se mai fosse avvenuto?
Come si vede siamo nel campo di illazioni e congetture, ma quello che
comunque smentisce questa ricostruzione del Canali, è l’assurdità complessiva
di tutta la faccenda. Il giornale il Popolo d’Italia, infine, avrà ricevuto
finanziamenti (è noto, per esempio, un sovvenzionamenti di Toeplitz), si trasferì
poi nei nuovi stabilimenti, ma si sa che era sotto debiti e ancora ad agosto 1926,
Arnaldo scriverà al fratello:
«Il Popolo d’Italia con le sue sei pubblicazioni relative non è mai stato una
impresa attiva. Lo sbilancio a fine anno si è sempre aggirato sul milione. La
differenza è stata coperta con il credito e con gli abbonamenti».
Ma non dimentichiamo neppure che oltre da certa stampa scandalistica, le
accuse verso Arnaldo Mussolini, su presunte tangenti della Sinclair, vennero
addirittura da Dumini, evidentemente sollecitato in questo senso da chi ne
aveva interesse (qualcuno ha supposto anche Farinacci).
Consideriamo che Mussolini al momento del delitto Matteotti era saldamente a
cavallo di un governo che aveva vinto alla grande le ultime elezioni e la
maggioranza che ne scaturiva (non solo fascisti) era inattaccabile.
La stessa faccenda delle denunce di brogli e violenze fatta da Matteotti il 30
maggio alla camera, era stata brillantemente parata da Mussolini con il suo
discorso del 7 giugno nel quale anzi aveva rilanciato, fra le righe, future offerte
di partecipazione governativa ai socialisti e ai Confederali.
Il cruccio che assillava Mussolini, infatti, oltre alla necessità di normalizzare
l’ordine pubblico, era come poter raggiungere una intesa e portare al governo i
socialisti moderati e i Confederali, al fine di dare al suo governo una spinta
sociale e una saldezza morale che altrimenti, senza questo supporto, le sue
direttive avrebbero sollevato reazioni, non contenibili, tra i conservatori e i
poteri speculativi. E’ questa una fotografia di quel periodo, ben dettagliata da
Renzo De Felice e da testimonianze, sulla quale non si possono avere dubbi.
Ebbene dovremmo, invece, ritenere ora che Mussolini informato che Matteotti
avrebbe denunciato la faccenda delle tangenti alla Camera e quindi coinvolto il
fratello Arnaldo, se non lui stesso, presumendo oltretutto che siano vere le voci
che dicono che Matteotti ha in mano documenti compromettenti e
inoppugnabili (poco credibile), ha pensato di farlo ammazzare e, detto fatto,
darebbe l’ordine omicida, senza curarsi oltretutto di nascondere minacce contro
la sua vittima e poi, a delitto consumato, farsi travolgere dallo scandalo!
Intanto non si comprende da chi o cosa Mussolini avrebbe avuto la certezza e il
dettaglio di questa specifica denuncia che Matteotti si stava accingendo a fare
perché tutto sta a indicare che Matteotti, nel suo imminente discorso, non
avrebbe attaccato Mussolini personalmente, ma pur accennando a scandali nel
campo petrolifero e delle bische, il senso critico di Matteotti è verso la politica
di governo che, come scrisse in quei giorni, stava facendo degenerare il
fascismo in uno strumento del capitalismo e delle speculazioni. Anzi, era questo
di Matteotti, quasi un invito a cambiare rotta, di cui Mussolini, intento a trovare
un approccio con il PSU, passato il momento a caldo di reazione collerica,
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poteva benissimo apprezzare ed agganciarsi, anche perché sapeva che Matteotti
stava dicendo il vero.
Ergo le minacciate denunce di Matteotti, solo fino ad un certo punto potevano
preoccupare Mussolini, mentre preoccupavano di certo personaggi e ambienti
interessati a quelle speculazioni che non hanno le possibilità politiche che
invece aveva il Duce, per difendersi da certe accuse e ne sarebbero stati travolti.
Anche ammettendo che invece Mussolini si sia veramente preoccupato di un
possibile scandalo che coinvolgeva magari lui, il partito e il fratello, cosa
farebbe, risolverebbe il caso con un omicidio del segretario del partito
socialista, uomo noto anche all’estero e che passa come un irriducibile
avversario del fascismo? Ma non scherziamo!
Nessuno contesta che Mussolini, da rivoluzionario, abbia fatto uso della
violenza (e qui ci sta anche la Ceka), per prendere il potere e poi difenderlo, ma
questo non lo fa automaticamente autore di un ordine omicida, ben diverso da
un ordine per una spedizione punitiva, che condanna a morte Matteotti.
Ma oltretutto, l’Affaire Matteotti non è decifrabile senza analizzare il contesto
politico, perché la sentenza di morte per il deputato socialista nasce dal pericolo
che Matteotti possa denunciare certi scandali e rovinare grossi interessi, ma è
accentuata dal desiderio di defenestrare un Capo di Stato scomodo, che intralcia
certi poteri dell’Alta Banca e del mondo massonico.
Canali, praticamente, tratteggia la figura di un criminale, Benito Mussolini,
furbo e spietato e di un disonesto truffatore, il fratello Arnaldo, che tra l’altro
era una persona religiosissima e sensibile che alla morte prematura del figlio, di
fatto, si lasciò morire, perdendo ogni stimolo alla vita.
Ma vediamo questi due “mostri”, con Benito, l’assassino, che nel 1927 scriverà al
“truffatore” Arnaldo:
«L’industriale Somaini, in una lettera mandata al segretario federale di Como,
Tarabini, affermava di avere diritto, alla mia personale gratitudine.
Non conoscendolo e non avendo avuto ragione di contatti con lui, gli ho fatto
chiedere a mezzo del prefetto di Como, che si spiegasse. Egli ha allora
dichiarato che alla fine del 1925, sollecitato dal dottor Ambrogio Binda, fece un
offerta di lire 50 mila al “Popolo”. Non appena possibile gliele restituirai,
magari con gli interessi maturati nel frattempo».
A chi lo accusava di favoritismi, il 4 luglio 1924 Arnaldo così rispondeva:
«Sfido qualsiasi vicino o lontano, illustre o sconosciuto, amico o avversario in
buona fede o in mala fede, a dimostrare che durante 20 mesi di governo
fascista e di fatica improba per me, io mi sia giovato per raccomandare una
legge o un decreto, un favoritismo, un attenzione, un riguardo, dal quale mi
siano venuti direttamente o indirettamente benefici di qualunque genere. Sfido
chiunque e metto come posta la vita a dimostrare che mi sono valso in
qualsiasi caso, in qualche occasione, che mi sono attivato presso privati,
gerarchie, ministri, etc., della mia parentela fraterna con il Duce, supremo
d’Italia e se invece tutto questo non mi abbia imposto una severità di vita, un
riserbo, un silenzio eccessivo che onora entrambi, e che ci mette, almeno
nell’opera, di profonda rettitudine, ad uno stesso altissimo livello».
80
Il petrolio
Quando le riconversioni industriali
promossero il petrolio quale materia prima
nell’industria e nei trasporti e giacimenti
petroliferi erano stati scoperti, l’oro nero
divenne la causa prima di guerre e rivoluzioni.
L’Alta Finanza, nei primi anni del ‘900, sotto il
regno dei Rothschild e in accordo con i
Rockefeller e i Morgan, divenne anche grande
capitale monopolistico, proiettato al controllo
delle aree petrolifere e alla acquisizione delle
grandi imprese capitaliste.
[A lato il libro di Franco Scalzo. Citeremo
spesso anche questo testo, perché l’autore ha
prodotto molti riferimenti, particolari e
osservazioni di grande interesse, che sono
state tralasciate da altri storici].
Tutta la Prima Guerra mondiale era stata
scatenata più che altro per gli interessi della
grande Finanza, la quale al termine di quel macello, da lei in buona parte
procurato, si ritrovò proiettata, sull’asse City di Londra e Wall Stret di New
York, ad un dominio mondiale poco visibile, ma sostanziale.
Precedentemente, a metà ottocento l’Italia, dopo l’apertura del canale di Suez e
poi le prime grandi scoperte di giacimenti petroliferi nel Medioriente, era
diventata strategicamente importante per il controllo delle rotte petrolifere,
soprattutto per gli inglesi che consideravano il Mediterraneo come un “loro
Lago”. Praticamente i britannici consideravano il nostro paese come una specie
di protettorato e noti erano i loro legami con casa Savoia e il controllo esercitato
nella nostra società attraverso la massoneria, in accordo o in concorrenza con
quella francese.
Fu da quel momento che gli inglesi passarono da un sostegno ideale, ad un
sostegno finanziario e concreto al Risorgimento.
Adesso però l’Italia, uscita dalla Grande Guerra, era fuori dal giro petrolifero e
gli inglesi con la Anglo Persian Oil Company, Apoc e gli americani con la
Standard oil di Rockefeller (sia pure in misura minore mettiamoci anche i
Sovietici), quando potevano non ci pensavano due volte a boicottare, interferire
e sabotare i nostri interessi a vantaggio dei loro, non solo in Medio oriente, ma
anche in aree come l’Albania che potevano rientrare anche nei nostri spazi
geopolitici. Oltretutto, al tempo, solo le grandi compagnie petrolifere, come la
Standard Oil di Rockefeller, avevano mezzi ed attrezzature adeguate per
procedere in certe particolari ricerche e difficoltose estrazioni.
Una nostra vera compagnia di Stato, l’AGIP, venne creata, per ogni attività
relativa all'industria e al commercio dei prodotti petroliferi, solo nel 1926.
81
Le vicende petrolifere degli anni ‘20

DA TERMINARE L'INSERIMENTO .... :) 
In Lavorazione

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